La tutela della vittima vulnerabile nel delitto di tratta di esseri umani secondo la prospettiva C.e.d.u.

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SOMMARIO:

  1. Epilogo del “caso croato”: la pronuncia della Grande Camera della Corte E.d.u. del 25 Giugno 2020.
  2. 4 C.e.d.u.: tra la proibizione della schiavitù e la fattispecie di tratta di esseri umani.
  3. Perimetrazione del concetto di “vittima” e specifiche tutele riservate alla cd. “vittima di particolare vulnerabilità”.
  4. Note conclusive.

 

ABSTRACT:

La tratta di esseri umani è oggi una pratica incriminata da innumerevoli legislazioni domestiche, oltre che oggetto di chiare disposizioni internazionali poste a tutela della dignità umana, la quale è deprecabilmente mercificata in ipotesi siffatte. Essa cela spesso dietro sé fenomeni più complessi, quali lo sfruttamento del lavoro nero, la prostituzione di donne e bambine, la vendita di neonati e simili. La Corte Europea per i diritti dell’uomo, in un recente arresto, risalente al 25 Giugno 2020, ha confermato quanto già prospettato in precedenti statuizioni, ovvero l’estensione dell’ombrello di garanzia di cui all’art. 4 della Convenzione anche ai casi di sfruttamento e tratta di esseri umani, sebbene codesti non rientrino formalmente nel dato testuale della disposizione medesima.

 

Epilogo del “caso croato”: la pronuncia della Grande Camera della Corte E.d.u. del 25 Giugno 2020.

La vicenda oggetto del ricorso n. 6056/14, originava nel 2012 a seguito della denuncia di una giovane donna, S.M., cittadina croata, all’epoca dei fatti ventiduenne, proposta ai danni di un ex ufficiale di polizia, T.M., accusato di aver adescato la vittima, contattata su Facebook, assicurandole una stabile occupazione lavorativa, ben remunerata. La vittima veniva poi da costui costretta a prostituirsi, presso una casa dallo stesso adibita per gli incontri della donna con i clienti che T.M. procacciava. Il tutto di protraeva per un significativo arco temporale, riferibile all’anno 2011. In questo contesto, la donna subiva reiterate vessazioni psicologiche e coercizioni che la costringevano in una posizione di sottomissione nei confronti del suo carnefice, al quale doveva altresì consegnare la metà dei guadagni percepiti. Fortuitamente la giovane riusciva a sfuggire dal controllo del suo sfruttatore, con l’aiuto di una sua amica. Minacciata più volte, dopo il suo allontanamento, attraverso svariati messaggi minatori inviati da T.M., la vittima veniva proprio persuasa dall’amica ad avanzare opportuna denuncia alle forze dell’ordine. Le indagini che ne scaturirono ruotavano sostanzialmente attorno alla prova regina, ossia le dichiarazioni della persona offesa. Veniva instaurato un processo per il delitto di “tratta di esseri umani” nei confronti di T.M., che chiudeva tuttavia con l’assoluzione dell’imputato. Dalla motivazione della sentenza del Giudice di prime cure si leggeva che l’apparato probatorio, fondato prevalentemente sulle statuizioni della vittima, era incongruente e manifestatamente infondato, posta la rilevata inattendibilità delle dichiarazioni, qualificate come contraddittorie, rese da S.M. nello specifico occorre ricordare che il Giudice adito riteneva espressamente che la donna non fosse vittima di coercizione alcuna ma che piuttosto avesse spontaneamente offerto prestazioni sessuali a pagamento, essendo del tutto accondiscendente alla mercificazione del proprio corpo. La persona offesa procedeva impugnando in appello la sentenza di assoluzione. Il gravame veniva però respinto nel 2014, e la stessa sorte era parimenti riservato per il ricorso costituzionale promosso, lo stesso anno, dalla ricorrente.

Il 27 Agosto 2014 la vittima sollevava la questione dinanzi la Corte e.d.u., lamentando la violazione dell’art. 4 della Convenzione, “proibizione della schiavitù e del lavoro forzato”, oltre che di un’inefficiente gestione dell’istruttoria in primo grado. La Prima Sezione della Corte di Strasburgo, con sentenza del 19 Luglio 2018, aveva confermato l’attestata violazione, con sei voti a favore ed uno contrario.

La questione approdava alla Grande Chambre della Corte, su espressa volontà del Governo Croato, il quale proponeva rinvio ai sensi dell’art. 43 C.e.d.u. L’udienza davanti alla Grande Camera ha avuto luogo il 15 Maggio 2019. Il procedimento giungeva a giusto epilogo con sentenza[1] pronunciata in data 25 Giugno 2020. Nella citata sentenza la Corte studia approfonditamente la vicenda in esame, cercando di comprendere se questa possedesse, cumulativamente, i tre indici funzionali all’inquadramento entro la fattispecie di “tratta di persone”. Si ragguaglino siffatti in:

1) peculiare attività iniziale di reclutamento, accoglienza, alloggio e trasferimento di individui;

2) uso di stratagemmi e strumenti idonei ad assoggettare la vittima come, coercizione fisica e mentale, minacce, rapimento, abuso d’autorità ed altre frodi;

3) fine delittuoso della condotta, inscindibilmente connesso allo sfruttamento della vittima in qualità di schiavo o, nel caso, di prostituta.

Richiamando pedissequamente lo svolgimento degli eventi in questione, i Giudici hanno chiarito circa la superficialità delle indagini operate dall’Autorità Croata, poiché non si è dato valore alla delicata natura della faccenda e della gravità dei reati posti in essere dall’imputato. In più l’apparato probatorio era strutturato solamente sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa, giacché rimanevano escluse importanti testimonianze, come quelle dei soggetti che erano entrati in contatto con la donna, in quanto clienti. L’insieme di tali informazioni avrebbe potuto fungere da solida corroborazione delle accuse della vittima, garantendo peraltro questa dalla condizione di oppressione psicologica che rendeva estremamente fragile la sua posizione testimoniale nei confronti del suo sfruttatore.  Non erano stati assicurati nemmeno i minimi meccanismi di tutela che una vittima di predetti abusi merita in luce dell’evidente vulnerabilità che la caratterizza.

In conclusione, la Grande Camera della Corte E.d.u. ha avvalorato la tesi della ricorrente, sostenendo le abnormi deficienze dell’attività d’indagine, attraverso le quali l’Autorità Croata ha cagionato una manifesta inadeguatezza dell’accertamento dei fatti in sede giudiziale, censurabile ai sensi dell’art. 4 della Convenzione. La sentenza d’accoglimento prosegue riconoscendo alla vittima, a titolo di equa soddisfazione per danno non patrimoniale, come dal disposto di cui all’art. 41 C.e.d.u., la somma di 5.000 euro.

 

Art. 4 C.e.d.u.: tra la proibizione della schiavitù e la fattispecie di tratta di esseri umani.

Al fine di avere un panorama normativo esaustivo in merito alla vicenda commentata, appare indispensabile tracciare un breve disamina circa l’art. 4 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo.

Il combinato disposto degli artt. 2, 3 e 4 della C.e.d.u. sono pacificamente assunti a civile sostrato delle moderne Democrazie[2].

L’art. 4[3] precisamente prevede che “nessuno possa essere tenuto in condizioni di schiavitù o servitù”. L’anzidetto va comunque inserito in un ben più ampio quadro, il quale consta anche degli innumerevoli documenti di diritto internazionale regolatori della riferita materia. Tra gli altri, va fatta menzione della Convenzione sulla schiavitù del 1926, della Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, del commercio e delle istituzioni e pratiche assimilabili alla schiavitù, della Convenzione n.29 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, la cd. Convenzione sul lavoro forzato, della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani, nonché il Protocollo per la prevenzione, la repressione e la punizione della tratta di persone del 2000, promulgato ad integrazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata.

Il nodo gordiano, attorno al quale gravitano le questioni più calde relative alla disciplina dell’art. 4 della Convenzione, è certamente l’esegesi delle nozioni di schiavitù e servitù.

Per ciò che informa la prima delle suddette, l’ambito semantico del termine “schiavitù” richiama immediatamente al testo della Convenzione sulla schiavitù del 1929. Questa definisce la pratica nella condizione di assimilazione di un individuo ad un bene di proprietà, esercitata su costui da un altro soggetto. Emblematico è l’indirizzo accolto dalla Corte E.d.u. dapprima con una sentenza di condanna alla Francia[4], successivamente con una duplice statuizione[5] di rimprovero verso l’Italia e la Bulgaria. Gli indici rilevatori della schiavitù sono sussunti dal caso concreto e ragguagliati nella paradigmatica estrinsecazione di azioni sul soggetto passivo, dalle quale emergeva senza dubbia la volontà di comportarsi uti dominus ai danni di un essere umano.

Per servitù suole intendersi l’onere di prestare la propria manovalanza a favore di un individuo che perpetra sulla vittima sevizie e coercizione. La Corte[6] ha affermato, in maniera univoca, che la servitù occorre in quelle ipotesi di grave limitazione della libertà personale, corredata altresì dall’imprescindibile dovere della vittima di prestare opere e servizi a beneficio del suo carnefice.

Come si evince da una celere lettura del dato letterale dell’art.4 C.e.d.u., esso non cristallizza l’espresso divieto della pratica della tratta di esseri umani. La presente restrizione può invece dedursi dall’analisi sincronica delle risultanze dell’intero sistema C.e.d.u., ovvero del connubio delle disposizioni iscritte nella Convenzione ed i principi di diritto formulati dalla Corte di Strasburgo oltre che dal conclusivo richiamo al Patto sui diritti civili e politici. In numerose occasioni i Giudici Europei hanno fatto rimando a tale combinazione, sebbene la pietra miliare sul punto, nella compagine giurisprudenziale della C.e.d.u., sia stata senz’altro apposta dalla Corte con la sentenza Rantsev[7]. Il caso interessava un’ipotesi di induzione alla prostituzione praticata da trafficanti ciprioti ai danni di una giovane ragazza russa, poi suicidatasi. Il ricorso, avanzato dal padre della vittima, lamentava la violazione degli artt. 1 e 4 della Convenzione da parte della Autorità russe e cipriote, per non aver adottato tutte le misure doverose a prevenire il reclutamento della giovane donna e a garantirne la consequenziale necessitata tutela. Un passaggio[8] assolutamente degno di nota della sentenza de quo afferisce alla riconosciuta potenzialità lesiva per la dignità personale di tutte quelle attività con le quale si determina, in maniera palese o subdolamente, una coazione tale da sfociare in definitivo assoggettamento della vittima nei confronti dell’agente. Citando le parole usate in motivazione, la tratta di persone si converte in una “moderna forma di schivitù”. Il legame tra la detta pratica e l’art. 4 C.e.d.u. è oltremodo precisato dalla Corte, dapprima con sentenza Rantsev ed in definitiva nella pronuncia oggetto di odierno commento. Secondo i Giudici di Strasburgo la tratta di esseri umani si estrinseca nelle medesime modalità inerenti ai diritti reali, o meglio alla proprietà. Il requisito più significativo risiede nel fatto che tale dominium è operato su altri esseri umani, i quali vengono annichiliti alla stregua di merci di scambio, da vendere al mercato del lavoro forzato ed all’industria del sesso. Le vittime sono costrette a vivere in ambienti malsani, a svolgere attività degradanti, poco o non remunerate, ed a subire violenze costanti e perdurevoli minacce all’integrità fisica propria o dei loro cari.

È incontrovertibile che tutto quanto premesso sia incompatibile con i valori costituzionali, le prerogative personali e le libertà irrinunciabili dell’uomo che sono da sempre simbolo distintivo delle coeve società democratiche.

 

Perimetrazione del concetto di “vittima” e specifiche tutele riservate alla cd. “vittima di particolare vulnerabilità”.

Come più volte sottolineato nella pronuncia del 25 Giugno 2020, la Corte ha tenuto un atteggiamento di particolare attenzione verso la vittima di un reato di tale gravità, o meglio nei confronti della cd. “vittima vulnerabile”.

L’accezione qualificativa di vulnerabilità generalmente accompagna peculiari esigenze di garanzia e protezione del soggetto passivo dell’illecito nelle ore del procedimento penale sull’accertamento della responsabilità per i fatti in causa. La vittima vulnerabile si colloca in un rapporto di genus a species rispetto la macro-categoria delle “persone offese”, sicché ben può rubricarsi come variante specifica della nozione generale di soggetti lesi dal delitto. Sebbene accomunati dal tratto caratterizzante dell’endogena fragilità psichica, rientrano nel gruppo in esame eterogenee personalità, molti differenti l’una dall’altra. Cercando tuttavia di mantenere l’analisi su di un piano squisitamente giuridico, è appropriato dare connotazione normativa ad una tematica che ha in sé connaturato il rischio di deviare su settori eccessivamente astratti della scienza e della psicologia. Sopraggiunge in aiuto definitorio dunque la Direttiva n. 2012/29/UE, la quale stima nel novero dei soggetti particolarmente vulnerabili: i minori, i disabili, e le vittime di circoscritte fattispecie delittuose, a causa delle quali sono state esposte ad un elevatissimo rischio di danno.[9]

La vulnerabilità è dunque un concetto plastico, che trova cittadinanza in concrete situazioni in ordine alle note specificità ravvisate. I parametri maggiormente sintomatici della dedotta fragilità concernono alternativamente l’età e la maturità psicofisica della vittima oltre che le circostanze nelle quale si è materialmente realizzato l’evento-danno.

Un breve cenno merita a riguardo l’art. 90 quater c.p.p., introdotto con il D.lgs. 212 del 15 Dicembre 2015, in attuazione della succitata Direttiva. Esso, sotto la rubrica “condizione di particolare vulnerabilità”, orbene recita: “Agli effetti delle disposizioni del presente codice, la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa è desunta, oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Per la valutazione della condizione si tiene conto se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile ad ambiti di criminalità organizzata o di terrorismo, anche internazionale, o di tratta degli esseri umani, se si caratterizza per finalità di discriminazione, e se la persona offesa è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato”.

 

Note conclusive.

La tratta di essere umani è oggi aspramente combattuta grazie alla tutela multilivello instauratasi a seguito dell’adesione di varie Nazioni a Convezioni internazionali ed Organismi sovranazionali. Le leggi regionali convengono con gli obblighi sottoscritti congiuntamente ad altri Stati, perseguendo poi il pacifico obiettivo di reprimere le condotte di sfruttamento già perpetrate e soprattutto di arginare il rischio di futura reiterazione di quest’ultime. Verrebbe così garantita la dignità umana, segnatamente provata dalla fattispecie in esame, che sfocia in una riprovevole oggettificazione dell’essere umano. Il meccanismo di protezione così stratificato consente di sopperire ad eventuali lacune normative esistenti a livello locale, e di integrare, ove necessario, la funzione repressiva non specificatamente operata dalle disposizioni a ciò preposte. Il riconosciuto valore superiore dei diritti umani in gioco richiede una ferma risolutezza legislativa, giusta affinché siano assicurati, globalmente, congrui standard di protezione, similari in ogni contesto costituzionale dei moderni Stati di diritto.

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Note

[1] Corte E.d.u., Grande Chambre, sent. 25 Giugno 2020, ricorso n. 60561/14.

[2] Corte E.d.u., sent., 26 Luglio 2005, Siliadin c. Francia, ric. n. 73316/01.

[3] ARTICOLO 4 Proibizione della schiavitù e del lavoro forzato:

  1. Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù.
  2. Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio.
  3. Non è considerato «lavoro forzato od obbligatorio» ai sensi del presente articolo:

(a) il lavoro normalmente richiesto a una persona detenuta alle condizioni previste dall’articolo 5 della presente Convenzione o durante il periodo di libertà condizionale;

(b) il servizio militare o, nel caso degli obiettori di coscienza nei paesi dove l’obiezione di coscienza è considerata

legittima, qualunque altro servizio sostitutivo di quello militare obbligatorio;

(c) qualunque servizio richiesto in caso di crisi o di calamità che minacciano la vita o il benessere della comunità;

(d) qualunque lavoro o servizio facente parte dei normali doveri civici.

[4] Corte E.d.u., sent.26 Luglio 2005, Siliadin c. Francia, ric. n. 73316/01.

[5] Corte E.d.u., sent.31 Luglio 2012, M. ed altri c. Italia e Bulgaria, ric. n. 40020/03

[6] Corte E.d.u., sent. 7 Marzo 2000, ric. n. 42400/98.

[7] Corte E.d.u., sent.7 Gennaio 2010, Rantsev c. Cipro e Russia, ric. n. 25965/04.

[8] Ibid. paragrafo n. 282.

[9] Direttiva n. 2012/29/UE, Considerando n. 38:

Alle persone particolarmente vulnerabili o in situazioni che le espongono particolarmente a un rischio elevato di

danno, quali le persone vittime di violenze reiterate nelle relazioni strette, le vittime della violenza di genere o le persone vittime di altre forme di reato in uno Stato membro di cui non hanno la cittadinanza o in cui non

risiedono dovrebbero essere fornite assistenza specialistica e protezione giuridica. I servizi di assistenza specialistica dovrebbero basarsi su un approccio integrato e mirato che tenga conto, in particolare, delle esigenze specifiche delle vittime, della gravità del danno subito a seguito del reato, nonché del rapporto tra vittime, autori del reato, minori e loro ambiente sociale allargato. Uno dei principali compiti di tali servizi e del loro personale, che svolgono un ruolo importante nell’assistere la vittima affinché si ristabilisca e superi il potenziale danno o trauma subito a seguito del reato, dovrebbe consistere nell’informare le vittime dei diritti previsti dalla presente direttiva cosicché le stesse possano assumere decisioni in un ambiente in grado di assicurare loro sostegno e di trattarle con dignità e in modo rispettoso e sensibile. I tipi di assistenza che questi servizi specialistici dovrebbero offrire potrebbero includere la fornitura di alloggi o sistemazioni sicure, assistenza medica immediata, rinvio ad esame medico e forense a fini di prova in caso di stupro o aggressione sessuale, assistenza psicologica a breve e lungo termine, trattamento del trauma, consulenza legale, patrocinio legale e servizi specifici per i minori che sono vittime dirette o indirette di reati.

Alessia Gervaso

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