La Struttura dell’ Unione Europea

Redazione 15/04/01
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Premessa. Parlare oggi dell’Unione Europea è un compito gravoso e, probabilmente, quale che sia la definizione che si ritenga di accogliere, vi sarà sempre qualcuno che la considererà inadeguata, non per mera volontà critica, ma per la complessità e la dinamicità del soggetto che si vuol definire.
Nondimeno, gli sforzi definitori sono necessari, in quanto permettono, a chi scrive, di inquadrare istituti eterogenei in una prospettiva unitaria e conseguentemente, a chi legge, di comprendere che la ricostruzione esposta non ha aspirazioni dogmatiche, ma si limita a sostenere una tra le varie tesi astrattamente plausibili.
Ad avviso dell’autore di questo scritto, l’Unione Europea oggi deve essere considerata una organizzazione sovranazionale a carattere prefederale; in questo breve lavoro, cercherò di illustrare il significato di tale definizione, richiamando, a tal fine, le ragioni storiche e politiche che hanno determinato l’attuale conformazione di Istituzioni, strutture e procedure comunitarie.

1.Il “tempio greco”. L’Unione Europea, oggi, rispecchia tendenzialmente le due correnti che, storicamente, ne hanno condizionato la nascita e lo sviluppo: quella federalista e quella confederale; l’architettura dell’Unione prevede, infatti, tre pilastri caratterizzati da procedure decisionali diverse e da un ruolo distinto rivestito dalle istituzioni comunitarie all’interno dei diversi pilastri.
L’UE nasce l’1 novembre 1993, con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, ed ingloba le Comunità europee, la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e la Cooperazione in materia di Giustizia ed Affari Interni (CGAI); le Comunità europee, composte da CE, CECA ed Euratom, costituiscono il pilastro portante dell’Unione, sulla scorta delle esperienze maturate in dieci lustri di “vita comunitaria”, mentre la PESC e la CGAI fungono da primo banco di prova per una futura ed eventuale unione politica.
La struttura che viene fuori dal Trattato sull’Unione Europea (TUE), meglio conosciuto come Trattato di Maastricht, rispecchia quindi quella di un tempio greco, caratterizzato da tre colonne portanti sovrastate da un architrave, rappresentato dal Consiglio Europeo; al fine di illustrare i caratteri ed il funzionamento dell’Unione provvederò, in un primo momento, ad analizzare singolarmente i tre pilastri ed i soggetti che operano al loro interno e, successivamente, prenderò in considerazione l’UE nel suo insieme, prestando particolare attenzione ai delicati equilibri che la caratterizzano ed alle tendenze evolutive che la attraversano.

2. Il primo pilastro: le Comunità Europee. L’articolo A del TUE afferma che “l’Unione è fondata sulle Comunità europee, integrate dalle politiche e forme di cooperazioni instaurate dal presente trattato. Essa ha il compito di organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli”; dalla lettura di questa norma, emerge chiaramente che il primo pilastro sul quale si poggia l’Unione è costituito dalle Comunità europee.
Le Comunità sono tre, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), istituita con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951, la Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA o Euratom), istituita con il Trattato di Roma del 25 marzo 1957, ed infine la Comunità Europea (CE), istituita con il Trattato di Roma del 25 marzo 1957 e denominata, sino all’entrata in vigore del TUE, Comunità Economica Europea (CEE); in questa breve relazione mi occuperò della CE, richiamando tuttavia istituti previsti nei trattati istitutivi delle altre Comunità ogniqualvolta ciò appaia interessante per il lettore ed utile ai fini dell’esposizione.
Per comprendere quali siano le caratteristiche del primo pilastro ed apprezzarne l’importantissimo ruolo nell’ambito della complessiva costruzione comunitaria occorre, in primo luogo, richiamare i momenti salienti della sua nascita ed evoluzione.
Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale l’Europa appariva chiaramente divisa in due blocchi; infatti, vi era, da un lato, la sua parte orientale, egemonizzata dall’URSS e, dall’altro, un blocco di Paesi più o meno legati alla sfera d’influenza statunitense.
Il clima politico era teso ed il futuro appariva pieno di incognite in quanto, oltre alle prime avvisaglie della guerra fredda, vi era il timore, neppure troppo velato, di veder riproposte quelle condizioni politiche, economiche e sociali che avevano causato il secondo Conflitto Mondiale; in tale scenario si collocò l’invenzione politica più importante e dirompente del ventesimo secolo.
Infatti, il 9 maggio 1950, il Ministro degli Affari Esteri francese, Robert Shuman, promunciò innanzi all’Assemblea Nazionale un discorso, il cui testo era stato predisposto in concerto con Jean Monnet, passato alla storia come “Dichiarazione Shuman”; il testo della dichiarazione conteneva un accorato invito, rivolto principalmente a Francia e Germania, a porre il settore carbo-siderurgico dei due Stati sotto il controllo di una organizzazione internazionale, aperta all’adesione di altri Paesi, al fine di assicurare all’Europa un futuro di pace e prosperità.
La proposta elaborata da Shuman e Monnet ottenne l’immediata adesione, oltre che della Francia e della Germania, anche dell’Italia e dei Paesi Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo); il progetto sotteso alla Dichiarazione prevedeva, quindi, la trasformazione di un possibile contrasto armato tra i Paesi dell’Europa occidentale, ed in particolare tra Francia e Germania, perennemente in conflitto per il controllo dei giacimenti situati nella Rhur, in una competizione economica soggetta a regole sovranazionali, in modo che le “battaglie” potessero avvenire senza armi, all’interno di un “campo di gioco” ben delimitato.
A questo punto, meritano un breve cenno le tesi che, all’epoca della Dichiarazione Shuman, prospettavano la creazione di strutture sovranazionali in grado di impedire il verificarsi di un nuovo conflitto armato in Europa; le varie teorie possono, per ragioni di sintesi, essere ricondotte a tre grandi filoni: 1) la tesi federalista, la quale propugnava la creazione di uno Stato federale europeo che, sostanzialmente, potesse assorbire i singoli Stati nazionali, sostituendosi ad essi; 2) la tesi confederalista, secondo la quale non sarebbe stato possibile né auspicabile annacquare lo Stato nazionale in strutture dal sapore federale, ma ci si sarebbe dovuti limitare alla realizzazione di processi di cooperazione intergovernativa; 3) la tesi funzionalista, cui aderivano sia Shuman che Monnet, secondo la quale sarebbe stato necessario procedere ad integrazioni forti in singoli settori economici, per procedere, a piccoli passi, verso una costruzione federale.
La “proposta” elaborata da Monnet e Shuman venne presto formalizzata e, il 18 aprile 1951, venne firmato a Parigi il Trattato CECA.

3. I Trattati di Roma. Gli entusiasmi generati dall’istituzione della CECA spinsero gli Stati fondatori ad estendere la propria collaborazione ad altri settori; fu così che, dopo il fallimento del tentativo di costituire una Comunità Europea di Difesa (CED), a causa della mancata ratifica del relativo trattato da parte dell’Assemblea Nazionale francese, i sei siglarono a Roma, il 25 marzo 1957, i Trattati che istituivano la Comunità Economica Europea e l’Euratom.
Con la conclusione di tali trattati, gli Stati Fondatori della costruzione comunitaria vollero estendere la propria cooperazione a settori diversi da quello carbo-siderurgico, al fine di creare un unico mercato esteso al territorio di tutti gli Stati membri, nel quale i vari operatori, in concorrenza tra loro, potessero offrire liberamente beni e servizi su tutto il territorio comunitario ad utenti altrettanto liberi di fruire di tali beni o servizi nei propri Paesi d’origine o in altri Stati membri. Tale scopo sarebbe stato raggiunto mediante la progressiva realizzazione di uno spazio senza frontiere interne, nel quale fosse garantita la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali, dotato di una tariffa doganale comune nei confronti dei Paesi extracomunitari.
Sino al 1965ognuna delle tre Comunità era dotata di istituzioni proprie (si trattava, tuttavia, degli stessi soggetti, i quali operavano, di volta in volta, in veste di istituzione dell’una o dell’altra Comunità); nel 1965, con il Trattato di Bruxelles sulla fusione degli esecutivi, le istituzioni delle tre Comunità furono formalmente unificate.
In una prima fase, il panorama istituzionale comunitario prevedeva: a) un Consiglio, composto dai rappresentanti di rango ministeriale dei Governi degli Stati membri, unico titolare del potere normativo; b) una Commissione, organo indipendente a carattere prettamente esecutivo, sulla quale gravava il compito di porre in essere quanto necessario per attuare le disposizioni dei Trattati ed il diritto comunitario derivato; c) un’Assemblea parlamentare, composta da membri designati dalle Camere nazionali e dotato di funzioni meramente consultive; d) una Corte di Giustizia, composta da giuristi di rinomata competenza ed esperienza, con il compito di giudicare il comportamento degli Stati membri rispetto agli obblighi loro imposti dai Trattati, nonché di pronunciarsi sulla validità degli atti delle Istituzioni ed assicurare, in ogni caso, l’uniforme applicazione del diritto comunitario all’interno di tutti i Paesi membri; e) altri soggetti di minor rilevanza (per es. la Banca Europea per gli Investimenti, BEI, ed il Comitato Economico e Sociale).
Mentre il Consiglio, l’Assemblea parlamentare e la Corte di Giustizia non presentavano rilevanti novità rispetto agli organismi usualmente previsti dagli accordi internazionali, del tutto sui generis appariva, sin dall’origine, la Commissione; i Trattati, infatti, ne avevano plasmato la struttura ed i poteri in modo da conferirle una notevole indipendenza, sia rispetto alle altre istituzioni comunitarie che ai singoli Stati membri. Infatti, i Commissari, pur essendo nominati dai Governi nazionali (gli Stati politicamente e demograficamente più importanti accreditano due membri, mentre gli altri uno), possono e devono svolgere le proprie funzioni in piena indipendenza, nell’esclusivo interesse delle Comunità.
Già ad un primo sguardo, risultava quindi evidente l’esistenza di un grave deficit democratico che caratterizzava l’edificio comunitario; infatti, l’Assemblea parlamentare non solo non costituiva diretta espressione della volontà popolare, ma rivestiva anche un ruolo meramente marginale all’interno dell’iter di adozione degli atti normativi comunitari.

4. Il primo ampliamento delle Comunità. Il 22 gennaio 1972 gli Stati membri divennero 9; infatti, Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca firmarono i rispettivi Trattati di adesione alle Comunità (a dire il vero, anche la Norvegia fece altrettanto ma un referendum popolare respinse il trattato).
Dopo un ventennio d’isolamento, quindi, la Gran Bretagna ed i Paesi europei che le gravitavano attorno, dopo aver tentato, con risultati poco soddisfacenti, di creare forme di cooperazione internazionale limitate alla realizzazione di un’area di libero scambio, quale l’European Free Trade Association (EFTA), decisero di avventurarsi nell’impresa comunitaria.
Nel 1974, smaltito il periodo di adattamento, conseguente alla prima ondata di nuove adesioni alle Comunità, vennero compiuti i primi passi verso un ridimensionamento del deficit democratico che caratterizzava l’impianto comunitario; nel Vertice di Parigi del 9-10 dicembre 1974, venne infatti deciso di far eleggere a suffragio universale e diretto, da parte dei cittadini di tutti gli Stati membri, l’Assemblea parlamentare (nel frattempo ridenominata Parlamento Europeo). Il Vertice di Parigi verrà inoltre ricordato per l’istituzione del Consiglio Europeo, composto dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri, il quale si caratterizzerà come l’organo politico di vertice delle Comunità, prima, e dell’Unione, poi.
Il panorama istituzionale delle Comunità si arricchì ulteriormente nel 1975, in seguito alla creazione della Corte dei Conti, alla quale vennero attribuiti ampi poteri in materia di controllo contabile, risorse finanziarie e flussi di spesa delle Comunità (giova, senz’altro, ricordare che, a partire dal 1970, le Comunità non vennero più sovvenzionate dai singoli Stati membri, mediante trasferimenti a carico dei bilanci nazionali, ma furono dotate di risorse finanziarie proprie, consistenti nell’assegnazione del gettito della tariffa doganale comune e di alcune imposte riscosse dagli Stati membri).
Il 28 maggio 1979 anche la Grecia firmò un Trattato di Adesione alle Comunità.

5. Si inizia a parlare di Unione. Ai progressi verso la realizzazione del mercato interno si accompagnò una sempre maggiore attenzione all’analisi di forme strutturate di cooperazione politica tra i Paesi membri delle Comunità; i primi richiami ad una Unione di tipo politico, oltre che economico, erano contenuti nel c.d. “Rapporto Davignon” del 1970, nel quale si auspicava uno scambio di informazioni tra gli Stati membri, finalizzato ad una concertazione nel campo della politica estera e, in un secondo momento, alla creazione di un’unione politica.
Dopo il Rapporto Davignon, parallelamente ai canali ufficiali offerti dalla struttura comunitaria, i Governi degli Stati membri, mediante l’istituzione dei c.d. “Vertici Europei”, iniziarono a sviluppare una cooperazione intergovernativa sempre più intensa; nel 1974, con l’istituzione del Consiglio Europeo, la cooperazione politica ricevette un ulteriore impulso.
Negli anni ’80 il problema della cooperazione politica fu oggetto di importanti dibattiti nonché di complesse ed articolate proposte; infatti, nel 1981, il ministro degli Affari Esteri tedesco Genscher e l’italiano Colombo, elaborarono una proposta politica, resa immediatamente pubblica e passata alla storia come “Piano Genscher-Colombo”, con la quale veniva richiesta agli Stati membri una coordinazione della cooperazione politica con l’attuazione delle politiche comunitarie. Tale proposta venne accolta dai Paesi comunitari nella “Dichiarazione di Stoccarda” del 1983.
Il documento più conosciuto degli anni ’80 in tema di unione politica fu il “Progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea”, licenziato dal Parlamento Europeo nel 1984 su ispirazione del federalista Altiero Spinelli; il progetto prevedeva una modifica sostanziale della struttura istituzionale dell’edificio comunitario, mediante un ampliamento delle prerogative del Parlamento Europeo e la sua elevazione al rango di co-legislatore, nonché un ridimensionamento del ruolo del Consiglio ed una sua trasformazione in una camera delle nazioni, al fine di colmare il deficit democratico comunitario e costituire uno Stato confederale (che si evolvesse, tuttavia, a termine breve, in una organizzazione d’impronta federalista).
Il progetto Spinelli, come fu presto denominato, era dotato di una notevole valenza politica e, pur se ufficialmente “trascurato” dalle Istituzioni comunitarie, fu utilizzato nella fase di preparazione sia dell’Atto Unico Europeo (AUE) che del Trattato sull’Unione Europea (TUE).

6. La prima riforma dei Trattati. Intorno alla prima metà degli anni ’80 iniziarono ad emergere i limiti della costruzione comunitaria; i progressi verso la realizzazione del mercato unico erano ostacolati dai meccanismi operativi delle procedure decisionali comunitarie (infatti, con il Compromesso di Lussemburgo del 1966 era stato generalizzato la procedura di voto all’unanimità in seno al Consiglio; tutto ciò aveva però impedito l’adozione di talune misure di armonizzazione delle legislazioni nazionali), e si avvertiva una diffusa esigenza di estendere la collaborazione fra gli Stati membri a nuovi settori, nonché il rischio di fossilizzazione dell’esperienza comunitaria, laddove non fosse stata superata la situazione d’impasse.
Tutto ciò spinse i Paesi comunitari, nel 1985, a procedere, mediante l’adozione dell’Atto Unico Europeo (AUE) alla prima vera riforma dei trattati istitutivi; l’AUE introdusse: a) il principio del voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio in tutte quelle materie afferenti alla realizzazione del mercato unico, salvo fiscalità e libera circolazione delle persone; b) un embrione di politica ambientale nell’impianto comunitario; c) il principio della coesione economica e sociale nelle Comunità.
Gli interventi di riforma varati con l’AUE conferirono un ruolo più incisivo al Parlamento Europeo, introducendo nei meccanismi decisionali comunitari le procedure di cooperazione e di parere conforme (nel primo caso, il Parlamento Europeo può influire con il proprio voto sulle maggioranze richieste in seno al Consiglio per l’adozione degli atti comunitari, mentre nel secondo caso viene riconosciuto al Parlamento un vero e proprio diritto di veto in alcune materie).
Scopo dell’Atto Unico era quindi l’introduzione nel sistema comunitario delle riforme necessarie per consentire la piena realizzazione del mercato unico entro il 31 dicembre 1992; l’obiettivo venne puntualmente raggiunto dagli Stati membri (i quali, nel frattempo, erano divenuti 12 a seguito dell’adesione, nel 1985, di Spagna e Portogallo).

7. Nasce l’Unione Europea. Negli anni successivi, gli interventi di riforma introdotti con l’AUE produssero risultati notevoli; infatti, la Comunità ebbe la possibilità di varare molteplici interventi di armonizzazione delle legislazioni nazionali, eliminando buona parte degli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione del mercato unico.
Tuttavia, la piena ed irreversibile apertura delle frontiere infracomunitarie, ove non fosse stata accompagnata da interventi tesi ad armonizzare le economie dei Paesi membri ed a rinforzare la struttura istituzionale comunitaria, orientandola verso una prospettiva integrazionista, avrebbe potuto comportare conseguenze disastrose per le economie nazionali; pertanto, a partire dal 1990, venne avviata una nuova stagione di riforma dei Trattati, culminata, il 7 febbraio 1992, con la firma del Trattato sull’Unione Europea (TUE), meglio conosciuto come Trattato di Maastricht.
Con il TUE nasce l’Unione Europea che si giustappone alle preesistenti Comunità; essa, infatti, appare come una struttura sovranazionale che racchiude al suo interno le Comunità, caratterizzate da procedure decisionali sempre più incardinate sul principio maggioritario e da un ben definito equilibrio istituzionale, e due nuovi settori, la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e la Cooperazione in materia di Giustizia ed Affari Interni (CGAI). Il TUE detta, inoltre, tempi e modalità per realizzare, tra gli Stati membri, una Unione Economica e Monetaria (UEM).
Il Trattato di Maastricht introdusse formalmente il principio di sussidiarietà, in forza del quale “nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene (…) soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”; il TUE istituì, inoltre, la cittadinanza europea, la quale si andava ad aggiungere a quella nazionale e conferì, in alcune materie, un ruolo determinante al Parlamento Europeo che, mediante l’introduzione della procedura di co-decisione, venne pienamente associato al Consiglio nell’iter di formazione degli atti normativi comunitari (il Consiglio dell’Unione ed il Parlamento vengono posti sul medesimo piano, per cui un atto normativo potrà essere approvato solo se entrambe le Istituzioni concordano sul testo da approvare). Vi fu, quindi, un tentativo concreto di colmare, in parte, il deficit democratico che aveva, sin dall’origine, caratterizzato le Comunità, di valorizzare le capacità decisionali ed operative nazionali, regionali e locali e di diffondere, tra i cittadini dei Paesi membri, la consapevolezza di un’appartenenza comune ad una realtà che travalica i ristretti confini dello Stato.
In vista della piena apertura dei mercati infracomunitari e della loro integrazione in un mercato unico, giunti quasi al limite estremo dello sviluppo delle Comunità, viene ad esse giustapposta un’Unione, tesa a dare un’anima politica unitaria alla costruzione europea ed a rivolgere ed a rivolgere la propria attenzione a settori nei quali l’elemento economico non fosse preponderante o, comunque, pressochè esclusivo. Quale architrave dell’intera struttura veniva posto il Consiglio Europeo, vertice politico dell’intera Unione, incaricato di svolgere una significativa attività di impulso e coordinamento all’interno dei tre pilastri.

8. Il secondo pilastro: la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC). Con l’adozione del Trattato sull’Unione Europea, gli Stati membri hanno voluto affiancare alle forme di cooperazione ampiamente collaudate attraverso quaranta anni di esperienze comunitarie, nuovi campi d’intervento, al fine di poter elaborare risposte unitarie a problemi di dimensioni europee o, addirittura, mondiali.
Fu così che, in sede di riforma dei Trattati, al fine di permettere un più efficace coordinamento delle politiche estere degli Stati membri, nonché un maggior peso politico dell’Europa comunitaria sulla scena internazionale, venne istituita una Politica Estera e di Sicurezza Comune, astrattamente comprensiva di tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione europea, ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa comune ed, eventualmente, la creazione di una vera e propria difesa comune, avente quali obiettivi
· la difesa dei valori comuni, degli interessi fondamentali e dell’indipendenza dell’Unione, della sua sicurezza e di quella degli Stati membri;
· il mantenimento della pace ed il rafforzamento della sicurezza internazionale, nonché la promozione della cooperazione internazionale e lo sviluppo ed il consolidamento della democrazia e la tutela dei diritti umani.
Lo stesso legislatore del Trattato, nel momento in cui ne ha delineato i meccanismi operativi, era ben consapevole dei limiti intrinseci che avrebbero caratterizzato la PESC; infatti, l’architettura del secondo pilastro presenta, oltre che procedure diverse, anche uno “spirito” per molti versi antitetico rispetto a quello che animava, ed anima tuttora, le Comunità.
La PESC si presentava, naturalmente con talune differenze, come un classico esempio di cooperazione intergovernativa, improntata sostanzialmente, per quanto attiene il proprio funzionamento, al principio dell’unanimità; al suo interno, inoltre, la distribuzione di ruoli e poteri all’interno del secondo pilastro appariva completamente diversa da quella che caratterizzava le Comunità.
Infatti, l’intero sistema della PESC si incardinava sul Consiglio europeo, al quale spettava il compito di definire gli orientamenti generali, al cui interno, il Consiglio dell’Unione (così denominato dal TUE) poteva decidere, all’unanimità, di attuare azioni e posizioni comuni, mentre la Commissione era semplicemente associata ai lavori ed il Parlamento europeo non aveva, sostanzialmente, voce in capitolo.
Nonostante i buoni proposti, erano tuttavia troppe le divergenze di vedute tra gli Stati membri, in materia di politica estera e di sicurezza, affinchè il secondo pilastro potesse produrre in tempi brevi risultati soddisfacenti; pertanto, l’Unione assistette, impotente, agli immani spargimenti di sangue avvenuti nei Balcani negli anni ’90.

9. Il terzo pilastro: la Cooperazione in materia di Giustizia ed Affari Interni (CGAI). Il progressivo abbattimento delle barriere, anche fisiche, alla libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali all’interno del territorio del territorio degli Stati membri, ha conferito dimensione comunitaria a problemi precedentemente affrontati su scala nazionale, quali, ad esempio, l’immigrazione, i rapporti con gli stranieri extracomunitari, l’asilo, la lotta alle frodi, al terrorismo ed al traffico di armi e stupefacenti; pertanto, al fine di fornire una risposta efficace a problemi che non erano più in grado di gestire individualmente, gli Stati membri hanno ritenuto necessario conferire ufficialmente dimensione comunitaria all’analisi di tali fenomeni ed alla predisposizione di interventi correttivi.
Nacque così il terzo pilastro dell’Unione, il quale si caratterizzò ben presto per la positività dei risultati prodotti sia a livello di produzione normativa (redazione di convenzioni) che di attività operativa (adozione di posizioni ed azioni comuni); in seno alla CGAI venne inoltre costituito l’Ufficio Europeo di Polizia (EUROPOL) per consentire un maggior coordinamento nello scambio di informazioni e nell’attuazione di interventi operativi da parte degli organi di polizia degli Stati membri.
La CGAI ha subito notevoli modifiche a seguito del Trattato di Amsterdam, per cui si rinvia il lettore al prosieguo della trattazione per la descrizione dell’ambito attualmente coperto dal terzo pilastro e per l’illustrazione della relativa architettura.

10. L’Unione Economica e Monetaria (UEM). Dopo un ventennio di tentativi di creare in Europa un’area di stabilità monetaria, memori dei risultati conseguiti dal Serpente Monetario prima e dal Sistema Monetario Europeo (SME) poi, approssimandosi la piena ed irreversibile apertura dei mercati nazionali e la conseguente integrazione in un mercato unico, al fine di evitare i rischi che i singoli Paesi avrebbero potuto correre a causa della notevole disomogeneità dei propri sistemi economici, gli Stati membri, in sede di riforma dei Trattati decisero di inserire all’interno del primo pilastro la creazione di una Unione Economica e Monetaria, che portasse, a termine, all’adozione di una moneta unica.
A tal fine, viene previsto il raggiungimento dell’obiettivo UEM attraverso tre fasi: la prima, consistente in un coordinamento delle politiche monetarie dei Paesi membri, mirante ad uniformare i tassi d’interesse nell’area comunitaria (si trattava, in pratica, di allineare i tassi degli altri Stati a quelli tedeschi), la seconda, nella convergenza delle economie comunitarie verso il rispetto di una serie di parametri economico-finanziari, e la terza, che avrebbe riguardato solo i Paesi in grado di rispettare i c.d. “parametri di Maastricht” che non avessero inteso azionare la clausola di opting out loro concessa dal TUE, nella fissazione dei tassi di cambio irreversibili tra gli Stati partecipanti alla UEM (parità centrali e bilaterali) e nell’adozione della moneta unica; vennero inoltre predisposte misure sanzionatorie a carico di quei Paesi che, una volta entrati nell’UEM, non fossero stati in grado di rispettare i parametri economico-finanziari fissati dall’UE (fu infatti questo il significato del “Patto di Stabilità”).
I parametri di Maastricht vennero raggiunti da tutti gli Stati, salvo la Grecia, ma non tutti coloro che ne avevano i requisiti decisero di aderire all’UEM; fu così che, il Consiglio europeo di Bruxelles del maggio 1998 stabilì che solo 11 Stati avrebbero partecipato sin dall’inizio alla UEM (si tratta di tutti i Paesi membri, nel frattempo divenuti 15 a seguito dell’adesione, nel 1995, di Austria, Finlandia e Svezia, eccetto Grecia, Gran Bretagna, Svezia e Danimarca). L’1 gennaio 1999, con l’adozione ufficiale dell’EURO (come fu chiamata la moneta unica) si aprì, quindi, la terza fase dell’UEM, a sua volta articolata in tre sottofasi; ai Paesi che non entrarono immediatamente nell’Unione Monetaria fu concesso di rimanere collegati all’EURO mediante la fissazione di bande di oscillazione del cambio della valuta nazionale rispetto alla moneta unica (SME 2)
Sul versante monetario, il funzionamento dell’UEM si imperniava, nella seconda fase, sull’Istituto Monetario Europeo (IME) e, successivamente al passaggio alla terza fase, sul Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC) e sulla Banca Centrale Europea (BCE), la quale ha rilevato le attività del disciolto IME; sul versante economico, al centro dell’UEM si collocano il Consiglio ECOFIN (composto dai Ministri economici degli Stati membri) e l’informale Consiglio Euro 11 (composto dai Ministri economici dei Paesi partecipanti all’Unione Monetaria).

11. Il Trattato di Amsterdam. Il Trattato di Maastricht stabiliva che, nel 1996, si sarebbe dovuta insediare una conferenza intergovernativa per attuare una nuova riforma dei Trattati; le previsioni furono rispettate e la Conferenza si aprì a Torino il 29 marzo 1996. I lavori della Conferenza terminarono nel giugno dell’anno successivo e, il 2 ottobre 1997, ad Amsterdam venne firmato il Trattato di riforma del TUE e del TCE.
Nel Trattato di Amsterdam si rinvengono poche luci e molte ombre; infatti, se, in negativo, è mancata l’attesa ed impellente riforma delle Istituzioni comunitarie e l’auspicato consolidamento dei vari trattati, in positivo, il nuovo trattato si è limitato ad inserire la politica sociale nell’ambito delle politiche delle Comunità, a “comunitarizzre” gli Accordi di Schengen, ad estendere ad altre materie la procedura di co-decisione, nonché ad ufficializzare la cooperazione rafforzata, attraverso la quale alcuni Stati membri possono, fatte salve alcune materie, procedere a forme di integrazione maggiori rispetto a quelle loro imposte dai trattati e costituire un volano per un rafforzamento complessivo dell’edificio comunitario.
Con il Trattato di Amsterdam il legislatore comunitario ha, inoltre, introdotto nel primo pilastro una politica occupazionale di respiro comunitario, mediante l’introduzione di una progettualità estesa a tutto il territorio dell’Unione, basata su una cooperazione permanente tra gli Stati membri, che tenga conto, nella programmazione delle misure d’intervento, dei risultati raggiunti con i precedenti interventi, al fine di valorizzare le esperienze positive e non ripetere quelle negative.
Sul versante strutturale, le modifiche più rilevanti introdotte dal nuovo Trattato riguardano, tuttavia, il terzo pilastro; infatti in materia di visti, asilo, immigrazione e cooperazione giudiziaria in materia civile vi è stato un travaso nel primo pilastro, con la conseguente applicazione, rispetto a tali settori, delle procedure decisionali comunitarie (tuttavia, per un periodo di cinque anni a partire dall’entrata in vigore del Trattato, per l’adozione della maggior parte degli atti normativi in queste materie sarà richiesto il voto unanime in seno al Consiglio). Nel terzo pilastro residuano, quindi, le competenze in materia di cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale.

12. I diritti umani ed il Trattato di Nizza. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ed il Trattato di Nizza rappresentano le ultime evoluzioni della costruzione comunitaria; dopo lunghi dibattiti, per la prima volta in testi “ufficiali” dell’Unione viene posto il problema giuridico-politico della necessità di una “Costituzione europea” e vviene delineata una prospettiva di (futura) riforma istituzionale in vista dell’allargamento ad Est dell’UE.
Originariamente, si prevedeva che il Trattato di Nizza, ultimo intervento di riforma dei Trattati comunitari, inserisse la “Carta” tra le disposizioni fondamentali del diritto comunitario; tuttavia, a seguito dell’ostracismo di alcuni Stati Membri (tra i quali segnaliamo per lo strenuo attivismo la Gran Bretagna) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non ha trovato posto all’interno dei Trattati ma è stata proclamata sotto forma di “Dichiarazione solenne” delle Istituzioni dell’Unione (in pratica una sorta di dichiarazione di principi priva di efficacia giuridica vincolante).
Certamente la soluzione di compromesso emersa nel Consiglio Europeo di Nizza del dicembre 2000 ha scontentato chi sperava di vedere l’Unione rafforzata da un “Costituzione” nella quale i cittadini europei potessero riconoscersi; né la forma giuridica utilizzata, né il contenuto della “Carta”, costituito da dichiarazioni di principio piuttosto generiche ed inidonee ad avere portata precettiva, sembrano all’altezza delle aspettative che hanno preceduto il Consiglio Europeo.
È bene, però, segnalare che nonostante tutto l’adozione della “Carta” deve essere considerata positivamente; infatti, la sua stessa esistenza pone un grande problema giuridico-politico, dalla cui soluzione dipenderà il futuro stesso dell’UE: dare ad una costruzione (sino ad ora) economica un’anima civile e morale, individuando i “valori” comuni che ne costituiscono il fondamento.
Nel Consiglio Europeo di Nizza è stato, inoltre, adottato l’omonimno Trattato; tuttavia, anche tale atto non è stato all’altezza delle aspettative, in quanto non è riuscito a dare una risposta definitiva alle esigenze di riforma delle Istituzioni comunitarie in vista dell’allargamento ad Est dell’UE.
Il Trattato di Nizza, infatti, si è limitato a prevedere delle linee di sviluppo del futuro processo riformatore, rinviando però ad altra data (2004) l’adozione degli opportuni interventi normativi; tali programmi di riforma prevedono 1) che, nel momento in cui l’UE conterà 27 membri, non tutti gli Stati possano avere un proprio rappresentante nella Commissione (si dovrebbe avere una partecipazione “a rotazione”) e che, a partire dal 2005, gli Stati più grandi rinuncino al secondo Commissario, 2) che, a partire dal 2005, in seno al Parlamento europeo gli Stati più grandi (salvo la Germania) rinuncino a parte dei propri parlamentari, al fine di consentire la nomina dei rappresentanti da parte dei paesi neoentranti senza aumentare in modo spropositato la consistenza numerica del Parlamento, 3) che, a partire dal 2005, vengano riponderati i voti in seno al Consiglio.
Il Trattato di Nizza ha, inoltre, esteso l’ambito di applicazione delle procedure di voto a maggioranza anche a materie per le quali era prevista la votazione all’unanimità ed ha rafforzato il ruolo ed i poteri del Presidente della Commissione che potrà, pertanto, obligare i Commissari a dimettersi dal loro incarico qualora non ne condivida l’operato. È prevista, inoltre, l’estensione del meccanismo della “cooperazione rafforzata” anche ad alcuni settori inclusi nel secondo e nel terzo Pilastro dell’Unione.
Anche il Trattato di Nizza appare così, in altima analisi, un piccolo poasso verso l’ampliamento e l’implementazione della struttura dell’UE.

Conclusioni. L’esperienza comunitaria, partita, in un primo momento, da una integrazione economica di tipo settoriale (CECA), si è, successivamente, evoluta verso forme collaborative più generali (CEE ed Euratom), aggiungendo, di volta in volta, alla costruzione preesistente nuovi elementi che, col passare del tempo sono stati assimilati e consolidati.
La cooperazione tra gli Stati membri ha portato alla creazione di un mercato unico, mediante l’eliminazione delle barriere doganali al suo interno e la sostituzione, verso l’esterno, dei dazi doganali dei singoli Paesi membri con una tariffa doganale comune e, successivamente, attraverso il progressivo abbattimento delle barriere fisiche, tecniche e normative alla libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali.
In vista della realizzazione del mercato unico, gli Stati membri, al fine di evitare che si creassero squilibri eccessivi nelle economie nazionali e di garantire che la competizione economica avvenisse tra imprese e non tra sistemi-paese, hanno avviato, in un primo momento, forme di controllo delle politiche di cambio (Serpente Monetario e SME) e, successivamente, attraverso una politica di convergenza rispetto al raggiungimento di parametri comunitari, hanno dato vita ad una Unione Economica e Monetaria (UEM).
I progressi nell’integrazione economica spinsero gli Stati membri a valutare l’opportunità di una collaborazione maggiore in settori non prettamente economici. Dopo il fallimento del tentativo di creare una Comunità Europea di Difesa (CED), si dovettero attendere gli anni ’70 per poter porre nuovamente la questione all’ordine del giorno (a mio avviso deve essere letta in tal senso l’istituzione del Consiglio europeo); fu, tuttavia, negli anni ’80 che il problema di una unione politica esplose pubblicamente (Proposta Genscher-Colombo, Dichiarazione di Stoccarda, Progetto di Trattato che istituisce l’Unione Europea).
Il primo tentativo di riforma dei Trattati (AUE) non diede risposte a queste istanze, oramai diffuse, e fu necessario entrare negli anni ’90 perché l’esperienza comunitaria potesse produrre qualcosa di nuovo (TUE); con il Trattato di Maastricht, oltre alle competenze in campo economico, gli Stati membri decisero di conferire compiti ulteriori alla costruzione comunitaria, spogliandosi, in parte, di prerogative che le organizzazioni statali sogliono custodire gelosamente (ad esempio la gestione della politica estera ed il controllo sull’attraversamento delle frontiere). Con il Trattato di Amsterdam la tendenza ad affrontare a livello comunitario, anziché nazionale, problematiche rilevanti per la sopravvivenza stessa delle organizzazioni statali (per es. l’occupazione) si è accentuata; la dimensione continentale dei problemi da affrontare richiede infatti, sempre più spesso, risposte ed interventi di ampiezza ed incidenza ad essi adeguata. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ed il trattato di Nizza costituiscono un ulteriore (ancorchè piccolo) passo verso l’integrazione comunitaria e l’ampliamento dell’UE.

(Pasquale Lo Cane)

Redazione

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