La sorte del contratto preliminare nella comunione legale tra i coniugi

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La Corte di Cassazione si è più volte espressa in merito al legame che intercorre tra il contratto preliminare di compravendita e il regime della comunione legale tra i coniugi.

La questio iuris tocca diversi aspetti che vanno dalla natura giuridica del contratto preliminare e le sue implicazioni sul regime della comunione legale, fino alla posizione processuale del coniuge non stipulante e la possibilità per lo stesso di agire con l’esecuzione in forma specifica ex art.2932 c.c. nell’ipotesi di preliminare non concluso.

La risposta ai vari quesiti non può prescindere da un’analisi che coinvolge entrambi gli istituti di riferimento, ovvero la struttura del contratto preliminare e i meccanismi di imputazione della comunione legale.

Gli istituti di riferimento: il contratto preliminare

Nel nostro sistema civilistico il contratto preliminare trova spazio in pochissime norme, che non sono sufficienti a rendere una visione completa dell’istituto, tanto meno ad esternare la sua natura giuridica.

L’art.1351 c.c., in materia di forma contrattuale, si limita a richiamare il preliminare al fine di stabilire per questo la medesima forma del contratto definitivo.

Le restanti norme attengono all’esecuzione in forma specifica del preliminare non concluso (art.2932 c.c.) e alla trascrizione “prenotativa” (art.2645 bis c.c.), affinché l’effetto traslativo che viene a prodursi con il definitivo possa prevalere sull’acquisto del terzo che è stato trascritto posteriormente rispetto al contratto preliminare.

Dal punto di vista strutturale il contratto preliminare rappresenta il più forte dei vincoli prenegoziali, poiché, a differenza dell’opzione e della proposta irrevocabile, impone alle parti di pervenire alla stipula del contratto definitivo.

Utilizzato dalle parti come una forma di controllo delle sopravvenienze, il preliminare produce solamente effetti obbligatori, primo tra tutti quello di concludere il definitivo entro il termine stabilito.

L’effetto traslativo si produce solo con la stipula del definitivo, ancorché sia possibile che già nella prima fase del rapporto le parti abbiano adempiuto taluni obblighi, come ad esempio il pagamento del prezzo o la consegna del bene.

Rebus sic stantibus appare difficoltoso comprendere quale sia la funzione del preliminare rispetto al contratto definitivo e viceversa.

Senza indugiare sull’evolversi delle lunghe dispute dottrinali e giurisprudenziali in materia, possiamo così riassumere le tre principali tesi.

Secondo la prima tesi il contratto preliminare è un contratto autonomo e distinto dal definitivo, al quale è legato da un collegamento negoziale.

La vera fonte del rapporto è rappresentata dal contratto definitivo, poiché solo da quel momento viene a prodursi l’effetto traslativo in capo all’acquirente[1]. Ognuno dei due contratti possiede una propria causa: il preliminare ha come causa obligandi la stipula del definitivo, mentre il definitivo ha la stessa causa economico-individuale del contratto che si intende concludere.

La seconda tesi (Montesano) appare invece restìa ad attribuire al definitivo la valenza di un negozio giuridico, posto che il definitivo non si presenta come un atto di volontà, non essendo lasciata alle parti alcuna scelta riguardo all’an.

La sentenza costitutiva ex art.2932 c.c. dimostra, invero, l’assenza di una volontà negoziale in capo ai contraenti, essendo rimesso al giudice il potere di produrre gli effetti del contratto non concluso. Da ciò si deduce che l’unica fonte del rapporto deve essere individuata nel contratto preliminare, il quale produce un effetto obbligatorio iniziale, per poi dispiegare completamente i suoi effetti con la stipula del definitivo, il quale assurgerebbe a mera condizione di efficacia del preliminare.

..e la comunione legale tra i coniugi

L’istituto della comunione legale tra i coniugi costituisce uno dei tre regimi patrimoniali della famiglia fondata sul matrimonio, accanto alla separazione dei beni e la comunione de residuo, che tuttavia può concepirsi come una forma di comunione legale.

La comunione legale si è imposta come regime patrimoniale ordinario a seguito della riforma del diritto di famiglia avutasi con L.151/1975, sostituendosi alla separazione legale che oggi trova disciplina nell’art.215 c.c. come forma di regime patrimoniale convenzionale.

Questo particolare istituto si discosta dalla comunione ordinaria poiché non è caratterizzato dalla presenza di quote, ma risponde al modello germanico della c.d. comunione “a mani riunite”, secondo la quale ciascun coniuge è titolare del patrimonio per l’intero e pertanto non gli sarà possibile alienare la propria parte fintanto che la comunione non verrà sciolta. Questa impostazione avalla la nuova idea costituzionale di famiglia ex art.29 Cost., in cui i coniugi assumono pari dignità morale e patrimoniale e si superino quelle diseguaglianze che porterebbero il coniuge più debole a perdere il diritto di conservare un margine di autonomia economica.

Ciò trova un’ulteriore dimostrazione nel fatto che le parti possono sempre derogare al regime della comunione legale, entro il limite insuperabile dei diritti e doveri contemplati nell’art.143 c.c. e delle norme relative all’amministrazione dei beni della comunione che si fondano sull’uguaglianza delle quote.

L’art.177 c.c. individua le tipologie di beni che cadono nella c.d. “comunione immediata” ed esordisce con il termine “acquisti”, per essi dovendosi letteralmente intendere “diritti acquisiti” medianti gli acquisti.

Entrano automaticamente in comunione gli acquisti compiuti insieme o separatamente dai coniugi in costanza di matrimonio, le aziende nate dopo il matrimonio e quelle sorte in precedenza per volontà di uno solo, ma gestite da entrambi durante il rapporto matrimoniale.

Secondo autorevole dottrina (maggioritaria) la locuzione “acquisti compiuti” deve essere interpretata nel senso che possono entrare in comunione anche gli acquisti a titolo originario, purché questi assumano una connotazione personale e non reale.

Sono idonei ad entrare in comunione solo i beni acquisiti a titolo originario mediante un’attrazione c.d. personale, la quale presuppone una interazione attiva dell’agente, come nel caso dell’acquisto per usucapione[2] ove è richiesto un animus possidendi protratto per 20 anni, in cui la condotta umana è materialmente visibile all’esterno.

Non è tale la c.d. attrazione reale, ad esempio per accessione, ove l’acquisto a titolo originario prescinde da qualunque azione dell’uomo.

Restano esclusi dalla comunione, ex art.179 c.c., i beni personali di ciascuno dei coniugi, i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno, della pensione per perdita della capacità lavorativa, i beni acquistati per donazione o successione e i beni acquistati con i proventi dei beni esclusi dalla comunione, a meno che non venga espressamente menzionato nell’atto di acquisto che questi debbano entrare a far parte del patrimonio comune.

Il regime inderogabile dell’amministrazione dei beni comuni (art.180 c.c.), come accennato, è improntato al principio di eguaglianza e cogestione di ispirazione costituzionale e comunitaria, a cui consegue in ambito processuale anche l’azione congiunta dei coniugi e la relativa rappresentanza.

La norma sancisce che mentre gli atti di ordinaria amministrazione possono essere compiuti anche disgiuntamente, quelli di straordinaria amministrazione richiedono l’attività congiunta di entrambi. La violazione di questo principio comporta, invero, che l’atto compiuto da un coniuge senza il consenso dell’altro sarà annullabile se si tratta di beni immobili, mentre per i beni mobili, la parte sarà tenuta a ricostituire il patrimonio nello stato in cui si trovava, in forma specifica o per equivalente.

Così delineato il regime giuridico degli istituti di riferimento, è possibile porre attenzione sulla soluzione del quesito principale, il quale presuppone che il contratto preliminare venga posto in essere da un solo coniuge senza il consenso, né la ratifica dell’altro.

La posizione del coniuge pretermesso e la sorte del contratto preliminare: le risposte della Cassazione

Ormai giunti al focus della questione, è possibile verificare diversi aspetti che attengono alla sorte del preliminare e hanno come comun denominatore la mancata partecipazione del coniuge al momento dell’atto dispositivo.

In primo luogo ci si interroga circa la possibilità per la parte pretermessa di poter azionare il rimedio di cui all’art.2932 c.c., ovvero chiedere l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare non concluso[3].

La norma in questione costituisce uno strumento che consente all’attore di ottenere una sentenza costitutiva idonea a produrre gli effetti del contratto definitivo.

La legittimazione dell’attore trova fondamento nella sua utilità ad ottenere forzatamente gli effetti reali che conseguono alla conclusione del contratto definitivo, essendosi ormai vanificato l’obbligo del convenuto di adempiere il preliminare entro il termine prestabilito.

Tuttavia il contratto preliminare, seppur strumentale all’acquisizione di una res, attribuisce un diritto relativo, ad effetti personali e obbligatori, tale per cui l’azione ex art.2932 c.c. non rientra tra i diritti ricadenti nella comunione legale ex art.177 c.c. Ciò esclude la legittimazione del coniuge pretermesso a sostituirsi al primo, unico legittimato ad agire per l’esecuzione in forma specifica.

In secondo luogo, con specifico riguardo alla questione affrontata in sede di legittimità, ci si interroga circa il potere del coniuge pretermesso di invocare i rimedi previsti in materia di amministrazione della comunione legale ex art.180 c.c., considerato che la stipulazione di un contratto preliminare rientra tra gli atti di straordinaria amministrazione.

A tal proposito, la Suprema Corte ha distinto due differenti situazioni, a seconda che il preliminare abbia ad oggetto l’acquisto o la vendita di un bene.

Nell’ipotesi in cui l’atto di straordinaria amministrazione abbia ad oggetto l’acquisto del bene si ritiene che non sia necessario il consenso o la partecipazione dell’altro coniuge alla stipula del preliminare, poiché l’atto dispositivo ha ad oggetto un bene che non fa ancora parte del patrimonio comune, ma che anzi vi dovrà entrare. Non di meno, il mancato consenso ex art.180 c.c. rende lo stipulante un falus procurator dell’altro coniuge che, qualora non ratifichi, non potrà assumere la posizione processuale di litisconsorte necessario[4].

A diverse conclusioni si giunge nell’ipotesi in cui il contratto preliminare abbia ad oggetto la vendita di un bene facente parte della comunione legale.

In questo caso, il consenso di entrambi i coniugi è condizione necessaria per la validità dell’atto dispositivo, poiché con la vendita si dispone in via straordinaria di un bene già presente nel patrimonio comune.

Il coniuge escluso è dunque legittimato ad agire per chiedere l’annullamento del preliminare in caso di beni immobili, altrimenti se si tratta di beni mobili il coniuge contraente sarà tenuto a ricostituire il patrimonio nello stato in cui si trovava, anche per equivalente.

Come avallato dalle Sezioni Unite nel 2007[5] qualsiasi atto che presuppone la modifica di una situazione sostanziale nella consistenza dei beni facenti parte della comunione legale deve essere qualificato come atto di straordinaria amministrazione, a cui fanno seguito le conseguenti prescrizioni di legge e impone la necessaria azione congiunta dei coniugi, pena l’annullabilità dell’atto viziato.

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Note

[1] Cass. sez. civ. n.10209/2013

[2] Sul punto Cass. civ. sez. II, 11 agosto 2016 n.17033 fa propria la tesi maggioritaria affermando che, ai fini dell’acquisto in comproprietà del bene ope legis per usucapione, il momento rilevante è quello della maturazione del termine ventennale in costanza di matrimonio e non dopo lo scioglimento della comunione.

[3] Cass. civ. 24 gennaio 2008, n.1548

[4] Cass. civ. n. 4823/2006

[5] Sezioni Unite sent. 24 agosto 2007, n.17952

Dott.ssa Angela Marinangeli

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