La riforma del commercio: aspetti generali e stato di attuazione

Redazione 25/06/04
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di Denise Bianchi

INDICE
La legge n° 426/1971 ed i suoi limiti.
Il D.Lgs. n° 114/98: aspetti generali.
Lo stato di attuazione della riforma del commercio.
3.1 La sentenza della Corte Costituzionale 13 gennaio 2004, n° 1
Conclusioni

La legge n° 426/1971 ed i suoi limiti.

Alla fine degli anni sessanta l’aumento del reddito nazionale dovuto al fortunato sviluppo economico del tempo, aprì notevoli spazi nel campo dei consumi, cui, tuttavia, non seguì un’adeguata regolamentazione del settore.
Questa filosofia fece sì che, una volta passato il periodo economicamente florido, il sistema della distribuzione, caratterizzatosi nel frattempo nel fenomeno della “polverizzazione” dei punti di vendita, evidenziasse tutti i suoi limiti[1].
La normativa nazionale di riferimento nella materia del commercio era la legge n° 426/’71[2], in merito alla quale bisogna preliminarmente rilevare come, pur avendo uno scopo prettamente programmatorio, non sia stata varata quando sussistevano le condizioni e la necessità di programmare, ovvero in concomitanza alla straordinaria crescita della ricchezza nazionale, bensì nel momento in cui già si rivelavano tutti gli elementi della crisi economica.
A dire il vero, due erano i principi cardine della legge n° 426/’71:
la qualificazione degli operatori commerciali;
e la programmazione della rete distributiva del commercio al minuto[3].
Le scelte di pianificazione commerciale, diversamente da quanto è accaduto, dovevano essere un momento inscindibile delle scelte urbanistiche per concorrere a costruire sistemi urbani più efficienti ed un servizio commerciale più corrispondente ai bisogni della gente.
L’obiettivo fondamentale della Lg. n° 426/’71 era, pertanto, quello di “favorire una più razionale evoluzione dell’apparato distributivo” assicurando in particolare:
la migliore funzionalità e produttività del servizio da rendere al consumatore;
il maggior equilibrio possibile tra installazioni commerciali a posto fisso e la presumibile capacità di domanda della popolazione residente e fluttuante, tenuto conto delle funzioni svolte dall’ambulantato e dalle altre forme di distribuzione;
lo sviluppo e la produttività del sistema nel rispetto della libera concorrenza e nell’ambito di un adeguato equilibrio tra le varie forme distributive;
la compenetrazione tra strumenti di piano commerciale e strumenti di programmazione urbanistica[4].
Tuttavia l’analisi dei singoli istituti di cui si componeva tale normativa induce a ritenere che la Lg. n° 426/’71 abbia posto solo le premesse strumentali per la migliore definizione del contenuto di cui all’art. 41 Cost.[5], ma non sia stata capace di indicare scelte prioritarie e graduate di politica commerciale precise alle quali dovessero informarsi i singoli Piani di sviluppo ed adeguamento della rete di vendita.[6]
Dopo quasi trent’anni di vigenza, la Lg. n° 426/’71 ha mostrato tutti i suoi limiti o almeno i limiti relativi alla sua applicazione nel concreto.
Essi si sono manifestati soprattutto nella incapacità di favorire lo sviluppo della rete distributiva, per modernizzarla e per aprirla a nuove esperienze più vicine alle esigenze del mondo delle imprese e di quelle dei consumatori.
Gli enti locali poi, in assenza di un ruolo forte di orientamento programmatico da parte delle Regioni, hanno favorito le spinte corporative tendenti alla cristallizzazione del mercato ed ostacolato l’ingresso di nuovi soggetti e di nuove esperienze produttive.
Non si può negare, infine, come l’intervento regolatorio della distribuzione commerciale che si è avuto in Italia negli ultimi anni ha previsto sia regolamentazioni comuni che influenzano direttamente la libertà di impresa di tutti gli operatori, che normative che fanno riferimento a singoli comparti[7] e specifiche aree di comportamenti aziendali[8]. Questo complesso sistema normativo trova le proprie basi oltre che in un fattore di tipo culturale connesso alla vigenza per un così lungo periodo della Lg. n° 426/’71, in due fondamentali motivazioni:
l’importanza che il gran numero degli esercenti commerciali aveva nel determinare equilibri di natura politica;
la convinzione che il settore commerciale e la sua capacità competitiva non avessero effetti rilevanti sul sistema.
Dunque, la normativa precedente al D.Lgs. n° 114/’98[9] era tutta tesa a proteggere gli operatori esistenti e le formule di vendita nelle quali si identificavano, senza tenere nella dovuta considerazione il valore della concorrenza.[10]

2. Il D.Lgs. n° 114/98: aspetti generali.

La riforma del commercio introdotta con il D.Lgs. n° 114/98 (cd. decreto Bersani) ha abrogato la precedente normativa basata sulla Lg. n° 426/71 e le sue numerose integrazioni ed ha rappresentato un decisivo passo avanti verso la liberalizzazione del settore.
L’elemento principale introdotto dalla riforma è dato certamente dalla rimozione di una serie di disposizioni che costituivano barriere all’entrata nel settore di nuovi operatori ed alle modifiche delle situazioni esistenti[11]. Tali disposizioni possono essere così schematizzate:
1. Abolizione del REC[12].
2. Abolizione delle tabelle merceologiche[13].
3. Abolizione dei piani commerciali[14].
4. Ridefinizione del regime di autorizzazione[15].
5. Ruolo consultivo delle rappresentanze dei consumatori[16].
6. Orari di apertura[17].

La riforma del commercio attuata con il D.Lgs. n° 114/98 configura un’effettiva liberalizzazione del settore che, tuttavia, finisce per dipendere dal modo in cui le Regioni attueranno la delega prevista dallo stesso.
Quindi, si può affermare che il decreto Bersani costituisce uno dei primi casi di realizzazione del federalismo amministrativo a “Costituzione invariata”[18] che attua il principio di sussidiarietà[19] in quanto lascia che le scelte in merito all’organizzazione della distribuzione nello spazio siano effettuate da chi effettivamente di essa si serve.

3. Lo stato di attuazione della riforma del commercio.

Dal contesto sopra descritto si desume come il livello di normazione regionale non possa essere valutato separatamente da quello comunale, in quanto i Comuni hanno avuto ampia discrezionalità in determinate materie, e per contro, si sono trovati fortemente limitati in altre per effetto della normativa regionale. Una per tutte, la pianificazione, nella quale hanno dovuto attenersi rigorosamente alle norme delle Regioni che, in generale, non hanno saputo cogliere fino in fondo i contenuti della riforma.
Ai sensi del nuovo art. 117 Cost[20] l’urbanistica è materia di competenza regionale esclusiva, pertanto, si evince come spetti alle Regioni la definizione degli indirizzi sulla programmazione commerciale.
Ad oggi la programmazione regionale risulta ancora fortemente influenzata da un’impostazione di tipo contingentato che rispecchia una incapacità di distacco dai modelli econometrici, dalla logica dell’equilibrio della domanda e dell’offerta e dalla griglia dei parametri quantitativi[21].
Dal quadro nazionale si desume come non sia stata attivata una stretta interazione tra gli indirizzi programmatici di carattere economico commerciale e la pianificazione regionale e sovracomunale ed, allo stesso tempo, si deve riconoscere la maggiore propensione all’innovazione dimostrata dagli enti comunali a fronte della resistenza del livello regionale.
In merito a ciò si devono rammentare i diffusi dubbi interpretativi sorti in diverse amministrazioni nel periodo successivo all’entrata in vigore della riforma, circa la portata dell’art. 6, comma 5 del D.Lgs. n° 114/98 nel termine “adeguamento” degli strumenti urbanistici comunali.
Una brillante soluzione è stata fornita nell’Accordo raggiunto nella Conferenza Unificata Stato – Regioni – Comuni del 21 ottobre 1999 [22] che ha sottolineato come il fine primario della norma sia quello di rendere localmente compatibile l’impatto territoriale ed ambientale degli insediamenti commerciali con particolare riguardo a fattori quali: l’accessibilità, la mobilità, il traffico e l’inquinamento ed alla valorizzazione della funzione commerciale al fine della riqualificazione del tessuto urbano ed inoltre ha indicato che “al fine di rendere possibile l’adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti ai principi e criteri di omogeneità e di razionalità della normativa del settore commerciale nonché, in generale, al fine di rendere operativa la riforma introdotta dal D.Lgs. n° 114/98 e garantire tempi certi all’utenza, va richiamata l’opportunità che, le Regioni e gli enti locali, nel rispetto dei limiti e della sfere di autonomia garantita, utilizzino tutte le procedure previste dagli istituti di semplificazione e snellimento del procedimento amministrativo previsti dall’ordinamento” [23].
In molti Comuni, quindi, si sono approvati Piani attuativi del D.Lgs. n° 114/98, in cui si è affermato come gli insedianti commerciali devono tendere, sia al recupero del patrimonio edilizio esistente[24] che al riequilibrio urbanistico di aree di frangia costituite da tessuti urbani instabili da qualificare ed in genere, dalle periferie più degradate.
Queste affermazioni trovano certamente spiegazione nel fatto che, negli ultimi anni, si è raggiunta la consapevolezza della stretta correlazione esistente tra le problematiche territoriali ed urbanistiche e la programmazione della rete distributiva.

La sentenza della Corte Costituzionale 13 gennaio 2004, n° 1

Con ricorsi poi unificati dalla Corte Cost. per identità dell’oggetto le Regioni Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Marche hanno lamentato la lesione da parte dell’art. 52, comma 17 della Lg. 28 dicembre 2001, n° 448[25] (legge Finanziaria 2002) delle competenze ad esse attribuite in materia di commercio in forza della nuova distribuzione delle potestà legislative tra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost, come modificato dalla Legge Cost. n° 3/2001.
In merito a tale disposizione di legge, la risoluzione interpretativa del Ministero delle Attività Produttive n° 504334 del 17 aprile 2002 ha chiarito che il comma 17 dell’art. 52 si riferisce alle norma della Legge n° 426/71 ancora vigenti, ossia quelle relative all’iscrizione nel REC per l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, ciò in quanto il D.Lgs. n° 114/98 non rappresenta una modifica della Legge n° 426 sostanziandosi, invece,in una riforma ex novo della disciplina in materia di esercizio dell’attività commerciale[26].
La potestà legislativa esclusiva regionale in materia di commercio comporta la preclusione per lo Stato di legiferare in tale disciplina e fa sì che le norme legislative già adottate, come il D.Lgs. n° 114/98, restino in vita quali “norme di carattere cedevole e suppletivo” che se il legislatore regionale vorrà, potrà modificare se non addirittura sostituire l’intero assetto della materia[27].
A dire il vero, esistono materie attribuite alla potestà dello Stato di tipo esclusivo[28] o concorrente[29] che toccano trasversalmente i settori produttivi, commercio compreso, escludendo per larghe branche di questa materia una potestà piena regionale.
La Corte Cost nella sentenza del 13 gennaio 2004, n° 1, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 52, comma 17 della Lg. n° 448/2001 per violazione dell’art. 117, comma 4 Cost., ha fissato dei principi illuminanti per la sistemazione della materia, quali:
La disciplina del commercio appartiene alla potestà legislativa “residuale” delle Regioni;
Pertanto, queste potranno autonomamente rispondere alle esigenze di cui intendeva farsi carico la normativa statale abrogata dalla sentenza, ove ravvisino l’opportunità di esercitare la propria competenza legislativa;
La materia del commercio è attribuita alla competenza legislativa residuale delle Regioni per i profili non inerenti la tutela della concorrenza.
Conseguenza immediata della decisione è la reviviscenza delle disposizioni dell’art. 52, comma 17 della Legge Finanziaria 2002, concernenti l’obbligo di attestare l’iscrizione al REC per chi intenda somministrare alimenti e bevande in occasione di fiere, sagre, manifestazioni religiose, benefiche o politiche, a causa del principio di supplettività e cedevolezza delle norme statali in materia di commercio, che rimangono in vigore supplettivamente, cedendo solo dal momento in cui saranno applicabili nuove norme in materia applicate dalle Regioni.
In questo contesto si possono rilevare gli effetti del cd. regionalismo differenziato, ove si osservi come l’effetto immediato della sentenza sopra descritto esplichi i propri effetti in tutte le Regioni d’Italia tranne due: la Regione Emilia Romagna e la Regione Lombardia.
L’Emilia Romagna con la propria L.R. n° 14/2003[30] ha soppresso il REC ed ha previsto che per lo svolgimento delle attività di somministrazione svolte in forma temporanea, nell’ambito di manifestazioni a carattere religioso, benefico, solidaristico, sociale o politico, siano necessari unicamente i requisiti morali di cui all’art. 6 della L.R. ed il rispetto delle norme igienico-sanitarie ed in materia di sicurezza. Da ciò si desume la finalità meramente di principio del ricorso[31].
Anche la Regione Lombardia ha emanato un propria legge per la disciplina dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande[32] che ha eliminato il REC e che, all’art. 12 ha stabilito che il Comune, nel cui territorio si svolge una manifestazione può rilasciare l’autorizzazione temporanea per l’attività di somministrazione di alimenti e bevande previa verifica dei requisiti morali e professionali del richiedente, nonché delle condizioni di sicurezza e del rispetto delle norme igienico-sanitarie. Anche nell’ambito della Regione Lombardia il REC non risulta più quale requisito professionale necessario.

Conclusioni

Oltre alle conseguenze immediate della Sentenza Corte Cost. n° 1/2004 sopra descritte, si deve riconoscere come la stessa abbia anche una conseguenza indiretta, quale il riconoscimento di una potestà “trasversale” ma piena dello Stato nella materia della “tutela della concorrenza” anche in relazione al commercio.
L’Accordo raggiunto nella Conferenza Unificata Stato – Regioni – Comuni del 21 ottobre 1999, la normativa regionale sopra richiamata dell’Emilia Romagna e della Lombardia ed, infine, la recente sentenza della Corte Costituzionale[33] testimoniano come Stato e Regioni stiano cercando i giusti equilibri per intervenire sulla materia del commercio con particolare riferimento alla programmazione delle attività, ai limiti all’iniziativa economica privata, alla disciplina dei saldi e delle vendite promozionali, e stiano esplorando, per tentativi, i rispettivi ambiti di competenza, così come delineati dal nuovo Titolo V Cost.
In questo complesso intervento di riforma in senso federalista avviato dalla Lg. n° 59/’97 ed approdato nella Lg. Cost. n° 3/2001 con la quale è stata realizzata la riforma del titolo V della Costituzione, bisogna mantenere sempre l’attenzione sull’importante ruolo degli strumenti del Comune nell’attuazione della disciplina del commercio, che si esplica non solo nell’attività di pianificazione ma anche nell’esercizio delle funzioni dello Sportello Unico per le Attività Produttive[34] (cd. SUAP).
Infatti, nella logica del principio di sussidiarietà il Comune è il centro amministrativo a più diretto contatto con il territorio e la cittadinanza e che, pertanto, meglio ne conosce ed interpreta le esigenze dello sviluppo economico-sociale.
Note:
[1] Così P. BONANNI, Le nuove autorizzazioni di commercio alla luce del D.Lgs. n° 114/98 e dei precedenti giurisprudenziali, Padova, 2000, p. 5 e ss.
[2] Legge 11 giugno 1971, n° 426 recante “Disciplina del commercio”.
[3] Tale finalità presuppone un legame diretto con la programmazione economica nazionale in modo che i fini settoriali che essa si propone siano omogenei, coerenti ed interdipendenti con le scelte che lo Stato compie a livello di direzione globale della società.
La programmazione della rete distributiva a livello locale esigeva, pertanto, un modello di sviluppo organico e coerente in tutto il territorio nazionale che avesse definito le diverse tipologie commerciali ed il rapporto tra le stesse e gli indici parametrici di riferimento nelle singole realtà, il possibile rapporto ottimale tra domanda ed offerta, suscettibile di essere motivatamente adattato alle specifiche esigenze e peculiarità territoriali.
[4] In merito alla pianificazione comunale della rete distributiva di cui alla Lg. n° 426/71, in giurisprudenza vd.: Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 1993, n° 1343; Cons. Stato, sez. V, 13 febbraio 1993, n° 246; Cons. Stato, sez. V, 26 febbraio 1992, n° 160; Cons. Stato, sez. V, 29 novembre 1994, n° 1424; T.A.R. Sardegna, 26 settembre 1991, n° 1171; Corte Cost. 29 marzo 1989, n° 165. Tutte le messime delle sentenze in: A. PAGANO, Repertorio ragionato di giurisprudenza amministrativa, Napoli, 2003.
[5] La giurisprudenza del Consiglio di Stato è tra l’altro costante nel riconoscere come il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio del commercio costituisca la regola conforme al principio di libertà dell’iniziativa economica garantito dall’art. 41 Cost., mentre il diniego costituisce l’eccezione. In tal senso: Cons. Stato, sez. V, 23 gennaio 1991, n° 61; Cons. Stato, sez. V, 14 marzo 1994, n° 164; Cons. Stato, sez. V, 9 aprile 1994, n° 264.
[6] In tal senso: P. BONANNI, Le nuove autorizzazioni di commercio, cit. , pag. 7
[7] Es. distribuzione di prodotti farmaceutici, generi di monopolio, stampa quotidiana e periodica, carburanti, etc.
[8] Es. orari di apertura al pubblico, limitazione dei beni da rivendere, localizzazione degli esercizi, requisiti dei titolari, etc.
[9] D.Lgs. 31 marzo 1998, n° 114 recante “Riforma della disciplina relativa al settore del commercio a norma dell’art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n° 59”.
[10] Infatti, un settore distributivo basato sulla concorrenza è in grado di influenzare positivamente anche la dinamica competitiva dell’industria in tutti gli stadi delle filiere. Una scarsa concorrenzialità della distribuzione si traduce in un mancato stimolo nei confronti dei fornitori a sviluppare modalità di produzione più efficienti anche innovando i prodotti. I fornitori, a loro volta, cercheranno di trasferire a monte, a coloro da cui acquistano i materiali di consumo e beni strumentali, parte della pressione che ricevono a valle.
[11] Così: L. PELLEGRINI, Concorrenza e regolamentazione: la distribuzione commerciale, in Regolazione e concorrenza, a cura di G. TESAURO e M. D’ALBERTI, Bologna, 2000, pp.89-102
[12] A dire il vero risultano ancora vigenti le disposizioni della Lg. n° 426 relative all’iscrizione al Registro degli Esercenti il Commercio per l’attività di somministrazione di alimenti e bevande, di cui si dirà meglio nelle pagine che seguono in merito alla Sent. Corte Cost. 13 gennaio 2004, n° 1. Questo strumento aveva lo scopo di impedire l’accesso al mercato di attività marginali che si apprestavano ad entrarvi con aspettative di reddito più basse rispetto agli operatori esistenti e quindi in grado di erodere la posizione di questi ultimi.
Il decreto Bersani intuendo che, sebbene il REC fosse stato proposto come fattore di garanzia della professionalità degli operatori a tutela del consumatore, aveva nella realtà la funzione limitativa dell’acceso al mercato sopra descritta, mediante la sua eliminazione ha voluto affermare il principio in forza del quale spetterà al gioco concorrenziale determinare l’uscita dal mercato di chi non dispone di un livello di professionalità adeguato, fatto salvo le regole a tutela del consumatore previste per le diverse merceologie.
[13] Le tabelle merceologiche sono state ridotte a due: alimentare e non alimentare; in ciò il decreto Bersani ha il merito di avere posto fine ad un vincolo all’entrata nel settore ancora di natura corporativa, certamente unico nell’attuale Europa. Queste tabelle merceologiche consentivano di contingentare l’entrata nel mercato di negozi specializzati in merceologie particolarmente richieste ed allo stesso tempo impedivano agli esercizi già presenti di operare estensioni dell’assortimento.
[14] Con la rimozione dei piani commerciali il controllo delle attività distributive diventa una componente della pianificazione urbanistica, cui è demandato il difficile compito di gestire l’equilibrio tra concentrazioni commerciali spontanee e pianificate. In particolare, il decreto Bersani attribuisce alle Regioni ed ai Comuni il compito di attuazione delle norme destinate a regolare tale equilibrio.
[15] Vd. C. VENTURI, Commercio al dettaglio ed all’ingrosso: comunicazioni, autorizzazioni e denunce, in Commercio, n° 6/2003, pag. 423.
Ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. n° 114/98, l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie fino ad un massimo di 150/250 mq. di un esercizio di vicinato sono soggetti alla previa comunicazione al Comune competente per territorio e possono essere effettuati decorsi 30 giorni dal ricevimento della comunicazione. Pertanto, per i piccoli punti vendita l’autorizzazione non è più richiesta e l’entrata è vincolata solo dall’obbligo di localizzarsi in edifici o porzioni di edifici con destinazione commerciale.
L’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie fino ad un massimo di 1500/2500 mq. di una media struttura di vendita sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal Comune competente per territorio. L’autorizzazione è comunale, in quanto si presume che il loro impatto rimanga territorialmente limitato.
L’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di una grande struttura di vendita sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal Comune competente per territorio per mezzo di Conferenze di servizi cui partecipano Regione, Provincia e Comune.
[16] In tutte le fasi decisionali il Decreto Bersani impone la consultazione delle rappresentanze dei consumatori, quali portatori delle istanze dei cittadini al fine di bilanciare i vari interessi in gioco, specialmente nei procedimenti relativi alle medie e grandi strutture di vendita.
[17] Il D.Lgs. n° 114/98 ha concesso una maggiore discrezionalità agli operatori, riconoscendo ulteriori margini di libertà per i Comuni ad economia prevalentemente turistica.
[18] La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n° 3 recante “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione” ha costituzionalizzato la svolta in senso federalista, o comunque fortemente autonomista, degli assetti costituzionali del nostro Paese, tra l’altro già fortemente stravolti dal processo riformatore introdotto con le leggi Bassanini, tanto da parlarsi di riforma federalista a Costituzione invariata.
La Legge 15 marzo 1997, n. 59, è la prima legge Bassanini, è la legge di “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed agli enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”.
[19] Il principio di sussidiarietà è stato introdotto dall’art. 3 B del Trattato di Maastricht. Nel disegno del Trattato ogni ente sovraordinato svolge una funzione “sussidiaria” rispetto all’ente locale più vicino al cittadino, secondo una scala di attribuzioni sussidiarie che inizia dal Comune e, passando attraverso la Provincia, la Regione e lo Stato, termina con la ritenzione delle funzioni comuni di interesse sovranazionale all’Unione Europea. In adesione al principio di sussidiarietà stesso la legge n. 59/1997 ha voluto privilegiare il ruolo degli enti locali minori, evitando così che al centralismo dello Stato se ne sostituisse un altro di marca regionale. In tal senso: M. CLARICH, Ambiente in bilico tra vecchi e nuovi poteri, in Impresa Ambiente, n. 4/1998, pag. 7
[20] Come modificato dalla Legge Cost. n° 3/2001.
[21] R. TECCE, La riforma del commercio nei Comuni metropolitani, relazione del Seminario di presentazione del rapporto di ricerca realizzato dal Ministero delle Attività Produttive in collaborazione con ANCI nazionale e Istituto per la Promozione Industriale tenutosi al Politecnico di Milano, Dip. di Architettura e Pianificazione il 24 giugno 2002.
[22] La quale ha suggerito che “ nel caso in cui gli strumenti urbanistici attuali siano compatibili di già con lo sviluppo della funzione commerciale delineata ora dai Comuni, non si presenta la necessità di porre mano al mezzo della variante urbanistica; infatti, la previsione dell’adeguamento dello strumento urbanistico è soddisfatta dal mero riallineamento dello strumento stesso alla nuova situazione. Viceversa, solo ove si valutino gli strumenti urbanistici esistenti non conformi per via della necessità di modifiche sostanziali ai fini della individuazione dei siti nei quali è considerata opportuna, possibile ed idonea la localizzazione delle strutture distributive, si pone la necessità dell’attuazione del procedimento della variante urbanistica”
[23] In questo si ravvisa un esplicito richiamo all’istituto dello Sportello Unico per le Attività Produttive, istituito con D.P.R. n° 447/98 e successivamente modificato con D.P.R. n° 440/2000.
[24] Compresi i complessi produttivi dimessi, garantendo la tutela e la valorizzazione delle caratteristiche storico-culturali presenti.
[25] La norma stabiliva che “a decorrere dal 1° gennaio 2002, le disposizioni di cui alla legge n° 426/71 e successive modificazioni, non si applicano alle fiere, sagre e manifestazioni a carattere religioso, benefico o politico”.
[26] Se ne ricava, pertanto che dalla data di entrata in vigore della Legge 28 dicembre 2001, n° 448, non era più richiedibile, da parte dei Comuni, l’iscrizione al REC nei confronti degli operatori che intendessero somministrare alimenti e bevande in occasione di fiere, sagre e manifestazioni a carattere religioso, benefico o politico.
[27] In giurisprudenza in merito alla normativa statale “cedevole” in forza del nuovo titolo V Cost., si veda: Corte Cost. Sent. n° 376/2002 e n° 364/2003.
[28] Quali ad es. la tutela della concorrenza, la tutela dell’ambiente, etc.
[29] Ad es. il sostegno all’innovazione per i settori produttivi, la tutela della salute,l’alimentazione, il governo del territorio, etc.
[30] La L.R. 26 luglio 2003, n° 14 recante “Disposizioni dell’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande” ha abrogato le disposizioni statali della Lg. n° 287/1991.
[31] In tal senso: G. DELL’AQUILA, Corte Costituzionale: la prima decisione sulla potestà legislativa regionale nel commercio, in Commercio, n° 1/2004, pag 127
[32] La L.R. 24 dicembre 2003, n° 30
[33] Sentenza Corte Cost. n° 1/2004.
[34] Per una ricostruzione degli elementi caratterizzanti l’istituto del SUAP, si veda: D. BIANCHI, Lo Sportello Unico per le Attività Produttive: i principali elementi di innovazione, in www.diritto.it (giugno 2004)

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