La riforma del codice di procedura civile

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A cura degli avv.ti Vincenzo Lombardi, Maria Gilio e Vito Carella
La recente riforma del codice di procedura civile: tra tautologie e profezie, un’altra occasione sprecata!

Indice

1. Sulla nuova tecnica redazionale degli atti e sull’esposizione dei fatti

Colpisce, anzitutto, la nuova formulazione dell’art. 121, del quale è stata mutata anche l’inscriptio, divenuta «Chiarezza e sinteticità degli atti», in sostituzione della più (per quanto si vedrà) razionale «Libertà di forma», quasi a voler suggellare il proprium dell’intervento, essendo stato sancito che gli atti processuali dovranno essere «redatti in modo chiaro e sintetico». Dal lemma impiegato sembrerebbe che la riforma sia stata (anche) l’occasione per sancire, apertis verbis, la trasposizione, in seno al processo civile, del «Dovere» imposto dal c.p.a. (d.lgs. n. 104/2010), laddove ha disposto, per giudici e parti, di redigere gli atti «in maniera chiara e sintetica» (co. 2, art. 3). Ebbene, poiché il dovere di chiarezza e di semplicità, come (condivisibilmente) rimarcato dal S.C., «esprime […] un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile»[1], l’intervento riformatore appare, in parte qua, come una superfetazione.
Giova premettere che, negli atti processuali, si realizza una immedesimazione forma-contenuto, nel senso che i due requisiti non si pongono, come avviene per gli atti di autonomia negoziale, in termini di contrapposizione: la forma degli atti processuali è idonea se l’atto è fornito di quel contenuto minimale per il raggiungimento del suo scopo[2]: l’art. 156 stabilisce che l’inosservanza di forme non comporta la nullità dell’atto, ove questo abbia raggiunto «lo scopo cui è destinato». Era stato (opportunamente) osservato come anche la graduazione della forma, attraverso l’impiego del superlativo relativo («la più idonea»), si fosse risolta in una scelta incomprensibile, dal momento che, allorquando la forma sia idonea al raggiungimento dello scopo, non si comprende cosa di più si possa pretendere dall’atto processuale.[3] Così, alla primigenia formulazione, già di per se ridondante, l’odierno riformatore ha inteso aggiungere la caratteristica della chiarezza, incorrendo in una (patente) tautologia, appesantendo inutilmente la norma, in quanto l’esigenza della chiarezza era virtualmente contenuta nella prescrizione originaria della disposizione: se il contenuto dell’atto non fosse stato chiaro, sarebbe stato precluso il raggiungimento dello scopo al quale tendeva. Un connotato di novità deve, invece, riconoscersi alla seconda caratteristica, quella della sinteticità, intesa (verosimilmente) come esposizione contenuta del thema decidenum, giacché la sinteticità del testo dovrebbe ritenersi rispettata ogni qualvolta l’atto sia immune da superflue ripetizioni[4], pur essendo altrettanto vero che la sinteticità di un testo non discende necessariamente dalla sua brevità, così come la ragionevole durata del processo non si identifica con la celerità dello stesso.[5]Senza indugiare oltre, sarà sufficiente osservare che un atto (come qualsiasi modalità espressiva) può essere chiaro ma non sintetico, mentre potrebbe essere sintetico ma non chiaro. Del resto, anche la giurisprudenza di legittimità, quando il ricorso non è intellegibile, ancorché affermi che la sanzione dell’inammissibilità derivi dalla violazione del principio di chiarezza e sinteticità, in sostanza esclude che l’atto sia idoneo a raggiungere il suo scopo, in quanto ne è «impossibile l’idonea focalizzazione dei fatti dirimenti».[6]
Riformando, poi, il n. 4 dell’art.163, il legislatore della riforma ha precisato che i fatti vadano esposti «in modo chiaro e specifico», riproducendo lo stesso precetto per la comparsa di risposta. Probabilmente per un lapsus calami, alla caratteristica della sinteticità (prevista per l’art. 121) è stata sostituita quella della specificità e, quindi, l’avvocato, che si appresti a redigere un atto di citazione o una comparsa di risposta, nell’esporre i fatti costitutivi, estintivi, impeditivi e modificativi del diritto, dovrà farlo in «in modo chiaro e specifico», oltreché «sintetico» (art. 121).
Tuttavia, quanto precede, se da un lato, denota sciatteria legislativa, dall’altro, per il ceto forense è meno preoccupante di quanto possa apparire, poiché è rimasto immutato il terzo comma dell’art. 164, a mente del quale la nullità afferente alla editio actionis è (esclusivamente) ancorata alla sola mancanza della «esposizione dei fatti» e, quindi, la citazione resterà valida secondo il parametro ante riforma e, cioè, se l’atto sarà percepibile al punto da far comprendere al giudice di cosa si tratti, esulando, ai fini della sua validità, ogni considerazione sulla capacità di sintesi dell’avvocato.
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2. Il rafforzato «avvertimento» al convenuto

L’art. 163, n.7, impone di rendere edotto il convenuto (anche) sui casi in cui sia necessaria la difesa tecnica, nonché sulla possibilità di avvalersi del gratuito patrocinio. Quanto all’avvertimento (già contenuto nella disposizione) circa le conseguenze della tardiva costituzione, i Giudici di legittimità, al fine di scongiurare speculazioni al riguardo, hanno stabilito che la fissazione di una nuova udienza, a norma dell’art. 164, in quanto finalizzata ad assicurare al convenuto il compiuto esercizio del diritto di difesa, possa aver luogo solo se il convenuto si sia limitato ad eccepire la nullità, senza svolgere le proprie difese nel merito.[7] Sarebbe auspicabile che la nullità, eccepibile dal convenuto costituito per «mancanza dell’avvertimento previsto dal n. 7 dell’articolo 163» (art. 164, 3° co.), rimanga circoscritta alla omissione della prima parte dell’avvertimento concernente la tempistica della costituzione e le conseguenze connesse alla sua tardività: sarà poi il legale ad informare il proprio assistito sulla ineludibilità della difesa tecnica e sulla possibilità di avvalersi del patrocinio a spese dello Stato.
Iura novit (non solo i giudici), ma anche gli avvocati! In definitiva, l’avvertimento sul termine di costituzione e quello (aggiuntivo) introdotto dalla novella rappresentano due cerchi concentrici, dei quali il primo ha un diametro maggiore.

3. La “riesumata” obbligatorietà dell’interrogatorio libero

L’art. 183 ha ripristinato, in sostanza il dictum introdotto dalla riforma del ’90 e, successivamente, dall’intervento riformatore 2005 (l. n.80/2005), rendendo (nuovamente) obbligatorio l’interrogatorio libero delle parti alla prima udienza.
Tuttavia, mentre nel 1990, sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 420, alla parte era stato concesso di farsi rappresentare da un procuratore (generale o speciale), tale facoltà non è stata contemplata dalla recente riforma.
Va subito detto che sulla opportunità di rendere obbligatorio l’interrogatorio, il quale (ovviamente) non potrà che essere quello disciplinato (in via generale) dall’art. 117, erano già state manifestate perplessità alla vigilia della prima riforma. Si tratta di uno strumento teso a rendere più efficace l’attività di direzione del processo da parte del giudice e che, quindi, è espressione delle sue funzioni, così come declinate dall’art. 175 e illustrate nella Relazione ministeriale[8]: di qui (sicuramente) la necessità di affidare al giudice ampi poteri strumentali alla conduzione del processo, sì da renderlo suo «elemento propulsore»,[9]anche in vista di una possibile conciliazione delle parti.
Ma la norma fu ideata in un’epoca in cui il volume del contenzioso civile era diverso da quello attuale e, quindi, si poteva seriamente pensare alla «umanizzazione [del processo], intesa come presenza fisica della parte (e/o dei difensori[10], tale da consentire al giudice di dialogare direttamente con le parti: l’interrogatorio era destinato a far luce sul fondo fattuale della controversia, in modo da poter «mettere a nudo il fatto troppo rivestito (o camuffato) di diritto dal difensore»[11]. Insomma, una interrogatio ad clarificandum. Oggi questo potere-dovere deve fare i conti con un contenzioso dalle dimensioni (assai) diverse da quelle del 1940.
Non solo.
La funzione di possibile conciliazione delle parti rende l’interrogatorio inutile ripetizione – nelle ipotesi in cui siano previsti come condizione di procedibilità – del procedimento di mediazione o di quello di negoziazione assistita, con evidenti effetti di rallentamento del processo (ossia effetti opposti a quelli ai quali la riforma vuol tendere).
Inoltre, l’aver, in precedenza previsto (art. 127) che l’udienza possa essere sostituita con quella in modalità cartolare, mediante il «deposito di note scritte», postula o una (patente) distrazione del riformatore o una scelta di dubbia coerenza sul piano sistematico: se la ragione ispiratrice è stata quella di [ri]valorizzare, secondo l’idea dei conditores, l’interrogatorio libero e, anzi, rafforzarlo (visto che è stato concepito come obbligatorio), si è rivelata (indubbiamente) contraddittoria l’alternativa di sostituire l’udienza in presenza con quella in modalità telematica, poiché, in tal modo, si è finito per frustrare un’iniziativa che si è connotata come un precipuo intento della riforma.

4. L’introduzione di alternativi modelli decisori

Sbalordiscono, poi, le ordinanze «divinatorie»[12] contemplate dagli artt. 183 ter e quater. Premesso che mentre l’infondatezza della domanda, cui fa riferimento l’art. 183 ter, potrebbe rilevarsi fin da subito, appare (assai) improbabile che possano immediatamente apparire «manifestamente infondate» le difese del convenuto, secondo la previsione dell’art. 183 quater, salvo il caso in cui tenti di difendersi «con parole in libertà».[13]
Si è, in definitiva, introdotta una tutela di natura interinale sulla falsariga del procedimento possessorio: infatti, i provvedimenti (di accoglimento o di rigetto) non hanno attitudine al giudicato, così come avviene per i provvedimenti conclusivi del giudizio possessorio, in quanto, non incidendo definitivamente sulla realtà verso la quale si proiettano, il regolamento in essi contenuto (che interviene dopo processi che, spesso, durano molti anni) potrà essere travolto da una pronuncia accertativa (di segno opposto) del sottostante diritto reale: si pensi, ad esempio alla tutela in sede possessoria di colui il quale eserciti il passaggio sul fondo altrui, allorché il proprietario del fondo ove è esercitato il passaggio, nonostante la soccombenza nel giudizio possessorio, successivamente esperisca con successo l’actio negatoria servitutis.
Il legislatore, nella prospettiva accelatoria che animò la riforma del 1990, aveva apprestato delle misure analoghe a quelle destinate a porre subito rimedio alla responsabilità possessoria, avendo introdotto le ordinanze anticipatorie di condanna (artt. 186 bis, ter e quater), peraltro assistite da un sufficiente grado di attendibilità, avendole ancorate alla non contestazione (ossia a fatti collocatisi fuori dell’aera dei fatti controversi), alla produzione di prova scritta e all’esaurimento dell’istruzione.
L’intervento additivo è superfluo e, come vedremo, anziché assicurare una più celere risposta alla domanda di giustizia, si renderà soltanto foriero di (gravi) incertezze.
È appena il caso di rilevare come il riferimento all’art. 2909 c.c. possa essere fonte di (serie) perplessità nel momento applicativo.
In forza dell’espresso richiamo della norma codicistica, sembrerebbe che restino immuni dall’efficacia del giudicato le sole pronunce di accertamento, mentre la preclusione pro iudicato dovrebbe prodursi per le pronunce costitutive, previste dall’art. 2908 c.c., pronunce tese ad evitare che la tutela generale prevista dall’art. 2907 c.c. (in anticipo rispetto al primo comma dell’art. 24 Cost.) fosse risultata insufficiente se circoscritta alle sole sentenze di accertamento.[14]
Ciò posto, è auspicabile preferire la suggerita lettura, poiché, se a seguito del giudizio di merito dovesse essere accertata l’inesistenza dei fatti costitutivi ritenuti esistenti dall’ordinanza (o anche la loro inidoneità a produrre gli effetti giuridici invocati dall’attore), la parte condannata che avesse eseguito (spontaneamente o coattivamente) la prestazione potrebbe (salvo quanto si dirà infra) agire in via restitutoria, mentre ben diverse sarebbero le conseguenze per la parte soccombente nell’ipotesi che fosse stata resa una pronuncia costitutiva. Sarà sufficiente pensare a cosa potrebbe accadere se con l’ordinanza fosse resa, a norma dell’art. 2932 c.c., pronuncia costitutiva del contratto di trasferimento di un bene immobile: a favore del promissario acquirente, qualora fosse stato medio tempore trasferito il bene, residuerebbe (esclusivamente) una tutela per equivalente pecuniario.
Peraltro, la norma pare mal coordinata anche con la disciplina della cd. pubblicità immobiliare. Infatti, allorquando l’art. 2652 c.c. impone la trascrizione delle domande dirette a ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre, prevede la successiva trascrizione della (sola) sentenza che accoglie la domanda, non anche dell’ordinanza in questione. Il che pone in una difficoltà inestricabile il promissario acquirente che l’abbia ottenuta, in quanto lo stesso, pur avendo un provvedimento costitutivo, non potrà trascriverlo e, dunque, non potrà opporlo ai terzi. E, evidentemente, sarà allo stesso difficile a sua volta trasferire il bene ad altri.
Ulteriore problema pone la norma nelle ipotesi in cui parte di un giudizio sia la curatela di una liquidazione giudiziale: l’unico provvedimento utilizzabile per un creditore sarebbe quello passato in giudicato, ma tale attitudine manca all’ordinanza in questione. Dunque, se la procedura concorsuale dovesse ottenere un’ordinanza favorevole contro un terzo (ordinanza che accerti un debito di questo e lo condanni a pagare) ed eseguirla, il terzo potrebbe intraprendere un nuovo giudizio per ottenere un secondo accertamento del proprio diritto. Ebbene, ipotizzando che nel nuovo giudizio il terzo ottenga una pronuncia che affermi che non doveva alcunché alla curatela, se – prima della formazione del giudicato su questa statuizione – il procedimento di liquidazione dovesse chiudersi, si porrebbe il dubbio del soggetto contro cui detto terzo dovrebbe agire per recuperare quanto pagato, potendosi ipotizzare – ma con significative perplessità – soltanto un’azione contro il “liquidato” rientrato in bonis (ex art. 236, co. 3, CCII) che, però, quella somma non ha mai incassato e, che avrebbe, in definitiva, soddisfatto solo in via “aleatoria” i suoi creditori concorsuali.
Altri profili problematici potrebbero scaturire anche da un ordinanza di accoglimento, come potrebbe accadere, in caso di non contestazione, per l’adempimento di un facere infungibile[15], ogni qualvolta il debitore esegua la prestazione dovuta, potendo (anche) in tal caso configurarsi una mera tutela di natura indennitaria e, considerate le caratteristiche dell’(avvenuta) prestazione, potrebbe comunque non essere (pienamente) satisfattiva.
Né può sottacersi, quanto alla (successiva) azione del soccombente adempiente la prestazione, che l’interesse ad agire sarebbe da ravvisare nell’interesse ad ottenere una pronuncia negativa sull’esistenza dell’altrui credito: del resto, se si negasse siffatta facoltà al soccombente, la norma sarebbe funestata dal (forte) sospetto di incostituzionalità.
A proposito, il contenzioso rischia di aumentare![16]
Ma, v’è di più. I paventati inconvenienti scaturirebbero anche da quanto evidenziato proprio dal Presidente della Commissione preposta alla Riforma, il prof. Luiso, sull’incidenza dello jus superveniens retroattivo in presenza di giudicato. Ha, infatti, evidenziato come la disciplina legislativa, allorché retroattiva, operi col solo limite degli effetti concernenti un interesse la cui tutela si esaurisca uno puncto temporis (come esempio, adduce quello della insensibilità della sentenza verso l’introduzione, con legge retroattiva, di nuovi criteri valutativi del danno cagionato da sinistro stradale). Osserva come, invece, il discorso cambi quando l’interesse disciplinato dal giudicato si rinnovi de die in diem, dacché la situazione di fatto utilizzata nella decisione non potrebbe impedire all’intervenuto mutamento legislativo di produrre i suoi effetti (fa l’esempio della norma retroattiva che, diversamente da quella precedente applicata in sentenza, riconosca l’indennità di mensa come componente fondante la determinazione della tredicesima mensilità che, dalla sua entrata in vigore, nonostante il dictum della sentenza, dovrà comunque applicarsi) e, quindi, la norma retroattiva, quoad effectum, opererebbe alla stessa stregua delle pronunce rese dalla Corte Costituzionale.[17] Ebbene, pur non condividendosi sul piano dogmatico l’equazione efficacia retroattiva della norma – declaratoria di incostituzionalità, stante l’intangibilità del giudicato civile anche a seguito delle decisioni costituzionali[18], si pensi, circa la permeabilità di quest’ultimo ad opera della legge sopravvenuta, proprio al caso dianzi enunciato. Si immagini che venga riconosciuto, a favore dell’attore con provvedimento emesso ai sensi dell’art. 183 ter, il diritto di ottenere una prestazione pecuniaria in base a un criterio determinativo della suddetta prestazione, dichiarato poi incostituzionale: detto attore, non godendo il menzionato provvedimento sino alla pronuncia di incostituzionalità della “blindatura” del giudicato (ché non c’è per espressa previsione della norma), sarà costretto a restituire anche quanto percepito in forza di quel criterio, ove la parte soccombente [ri]agisca instaurando (nuovamente) il giudizio di merito.

5. La (problematica) costituzione dell’attore davanti al giudice di pace

Un’ultima osservazione concerne la modifica del rito davanti al giudice di pace.
L’art. 316 prevede che la domanda si proponga nelle forme del procedimento semplificato di cognizione.
L’atto introduttivo è, dunque, il ricorso, il cui contenuto è descritto dall’art. 318 a seguito del cui deposito il giudice di pace, in forza del richiamo all’art. 281 undecies, «fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti assegnando il termine per la costituzione del convenuto, che deve avvenire non oltre dieci giorni prima dell’udienza».
Tuttavia, l’art. 319, dettando la disciplina per la costituzione dell’attore, stabilisce: «[l]’attore si costituisce depositando il ricorso notificato o il processo verbale di cui all’articolo 316 unitamente al decreto cui all’articolo 318 e con la relazione della notificazione e, quando occorre, la procura».
Dunque, viene introdotto nel sistema un nuovo tipo di costituzione “ibrida”o a formazione progressiva: quella in cui il deposito del ricorso non basta, occorrendo che a tale deposito segua la notifica dello stesso, unitamente a quella del decreto e della relata di notifica, perfezionandosi la costituzione solo con tale secondo deposito (per il quale, peraltro, non è previsto alcun termine).
La riforma, in parte qua, oltre che foriera di molteplici dubbi interpretativi, non sembra aver tenuto conto dell’importanza della costituzione delle parti nella trama procedimentale: ricorrendo ad una frase a effetto, si potrebbe dire che essa «completa la partecipazione soggettiva nel processo e vi inserisce il grande protagonista ancora assente: il giudice».[19] Si è, così, introdotta la figura, certamente originale, di un procedimento “extraruolo”, o almeno tale sino alla successiva (ed eventuale) costituzione dell’attore.
Venendo alle (inevitabili) perplessità nel momento applicativo, poiché l’intervento riformatore consente la pronuncia del decreto di comparizione prima dell’iscrizione della causa a ruolo e, in assenza della previsione di un termine per la costituzione dell’attore, è da ritenere preclusa la possibilità per il convenuto di costituirsi entro dieci giorni dall’udienza, essendogli impedito di attingere al fascicolo di parte attorea, sì da svolgere compiutamente le proprie difese.[20]
La norma riecheggia il procedimento di opposizione allo stato passivo disciplinato dall’art. 98 l.fall. nella sua primigenia formulazione, laddove prescriveva che la costituzione in giudizio dell’opponente dovesse avvenire dopo la notifica del ricorso e della fissazione dell’udienza da parte del giudice delegato e «[a]lmeno cinque giorni prima dell’udienza». In disparte la (non trascurabile) considerazione che l’art. 98 cit. prevedeva il termine (peraltro, perentorio) per la costituzione dei creditori, v’è da dire che in quella disciplina era ravvisabile l’intento del legislatore di concentrare tutte le opposizioni in un simultaneus processus, evitando dispersioni che potessero inficiare l’unità dello svolgimento della procedura fallimentare, conservando, in tal modo, la concorsualità mediante il reciproco controllo dei creditori, o di coloro i quali assumevano di esserlo[21]: infatti, qualora l’opponente non si fosse costituito entro il termine sopra indicato «l’opposizione si reputa[va] abbandonata», con conseguente preclusione di far valere la pretesa creditoria anche in via di insinuazione tardiva, venendo così assicurato l’obiettivo di concentrazione perseguito dal legislatore.
Viceversa, nel sistema del giudizio dinanzi al giudice di pace, così come delineato dall’intervento riformatore, non si ravvisa la ragione che abbia indotto il legislatore a frazionarne la fase iniziale.  

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Il presente e-Book intende fornire il quadro completo delle modifiche previste al codice civile e di procedura civile, evidenziando le ricadute operative dell’intervento legislativo.Luigi Tramontano Giurista, già docente a contratto presso la Scuola di Polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza è autore di numerosissime pubblicazioni giuridiche ed esperto di tecnica legislativa, curatore di prestigiose banche dati legislative e direttore scientifico di corsi accreditati di preparazione per l’esame di abilitazione alla professione forense.

Luigi Tramontano | Maggioli Editore 2021

  1. [1]

    Cass., 21.03.2019, n.8009.

  2. [2]

    Satta, Diritto processuale civile, Padova, 1959, pp. 170 171; Pellegrinelli, Commentario del codice di procedura civile, diretto da Comoglio, Consolo, Sassani e Vaccarella, Torino 2012, vol.II, pag. 532.

  3. [3]

    Così, Redenti, in Enc. dir., Atti processuali civili, Milano, 1959, IV, pag. 119.

  4. [4]

    Luongo, Il «principio» di sinteticità e chiarezza degli atti di parte e il diritto di accesso al giudice (anche alla luce dell’art. 1, co. 17 lett. d ed e, d.d.l. 1662), in Judicium, 9.10.2021.

  5. [5]

    Commandatore, Sinteticità e chiarezza degli atti processuali nel giusto processo, in Giur.it., 2015, 4, 815.

  6. [6]

    Si veda, recentemente, Cass., 13.02.2023, n. 4300.

  7. [7]

    Cass., 15.12.2020, n.28646.

  8. [8]

    Punto 12 della Relazione al Re, dal titolo «Rafforzamento dei poteri del giudice per la direzione del processo».

  9. [9]

    Come precisato da Mandrioli, in Corso di diritto processuale civile, Il processo di cognizione, II, Torino, 1993, pagg. 62-63.

  10. [10]

    Così, Latrofa, La pandemia affetta anche il processo civile: è l’ora del principio dispotivistico del giudice?,in ildirittoprocessualecivileitalianoecomparato, 2020, 2, pag. 83 e ss.

  11. [11]

    Così, Vaccarella, in Enc. dir., voce Interrogatorio delle parti, vol. XXXII, Milano, 1972, pag. 389.

  12. [12]

    L’espressione è di Della Pietra, Le ordinanze “divinatorie” nella delega sul processo civile, in ildirittoprocessualecivileitalianoecomparato.it, 2022, 3, pag. 252 e ss., il quale, in riferimento alle ordinanze di rigetto, ha (condivisibilmente) rimarcato come si sia«accordato un rimedio che intaserà vieppiù i ruoli giudiziari» e «senza beneficio alcuno per il diritto della parte».

  13. [13]

    È quanto (sagacemente) osserva Califano, Le nuove ordinanze “decisorie” di cui agli articoli 183-ter e quater c.p.c., in ildirittoprocessualecivileitalianoecomparato.it, 2023, 1, pag. 271.

  14. [14]

    Galgano, Trattato di diritto civile, I, 3ª ed., 2015, Padova, pag. 833. L’autore fa l’esempio di chi intenda ottenere una servitù di passaggio, per il quale non sarebbe sufficiente una sentenza che si limiti ad accertare il suo diritto, ma, affinché ottenga una tutela piena, occorre che l’autorità giudiziaria provveda a costituirla. Lo stesso potrebbe dirsi per la tutela ex art. 2932 c.c.

  15. [15]

    Ipotesi delineata da Stella, Interest rei publicae ut sit finis litium. Le nuove ordinanze di accoglimento e di rigetto della domanda nel corso del giudizio di primo grado (artt. 183-ter e 183-quater c.p.c.), in ildirittoprocessualecivileitalianoecomparato.it, 2023, 1, pag. 254 e ss.

  16. [16]

    Preoccupazione già espressa da Della Pietra, sia pure in riferimento alle ordinanze di rigetto, in Le ordinanze “divinatorie” cit., laddove ha rimarcato come si sia«accordato un rimedio che intaserà viepiù i ruoli giudiziari» e «senza beneficio alcuno per il diritto della parte».

  17. [17]

    Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2009, pp. 186 e ss.

  18. [18]

    Crisafulli, in Lezioni di diritto costituzionale, II, 1, La Corte Costituzionale, II, 2, Padova 1976, pag. 347-340: l’insigne costituzionalista sottolinea che i limiti temporali della pronuncia della Corte, generalmente riassunti con la formula «rapporti chiusi in modo irretrattabile», si riferisca al giudicato civile, «in contrapposto a quelli pendenti». V. anche Corea, Il giudicato come limite alle sentenze della Corte costituzionale e delle Corti europee, in Judicium, Fasc. 1/2017.

  19. [19]

    L’espressione è di Cerino Canova, Dell’introduzione della causa, in Commentario del codice di procedura civile diretto da Allorio, II, Torino, 1980, pag. 370.

  20. [20]

    Questi ed altri profili problematici sono stati evidenziati da Allamprese, Il nuovo processo davanti al giudice di pace: criticità e opportunità, in questa Rivista, 20.02.2023.

  21. [21]

    Così Pajardi, in Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1998, pagg. 436 e 437.

Vincenzo Lombardi

Maria Gilio

Vito Carella

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