La responsabilità della struttura sanitaria

Redazione 03/10/18
L’obbligazione del medico dipendente dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contatto sociale“, ha natura contrattuale, ai sensi dell’art. 1176 c.c. secondo cui “ Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito,o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” (Cass. 22 dicembre 1999, n. 589; Cass. 29.9.2004, n. 19564; Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. n. 9085 del 2006).

Il cambio di rotta della giurisprudenza

Per diverso tempo tale legame contrattuale è stato interpretato e disciplinato sulla base dell’applicazione analogica al rapporto paziente-struttura delle norme in materia di contratto di prestazione d’opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente e riduttivo appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico. Da ciò derivava che il presupposto per l’affermazione della responsabilità contrattuale della struttura fosse l’accertamento di un comportamento colposo del medico operante presso la stessa.
Più recentemente, invece, la giurisprudenza ha riconsiderato sotto diverso profilo il suddetto rapporto, cioè in termini autonomi dal rapporto paziente-medico, riqualificandolo come un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull’inadempimento fissate dall’art. 1218 c.c.

Da ciò consegue l’apertura a forme di responsabilità autonome dell’ente, che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente. Questo percorso interpretativo, anticipato dalla giurisprudenza di merito, ha trovato conferma in una sentenza di queste Sezioni Unite (1.7.2002, n. 9556, seguita poi da altre delle sezioni semplici, Cass. n. 571 del 2005; Cass. n. 1698 del 2006) che si è espressa in favore di una lettura del rapporto tra paziente e struttura che valorizzi la complessità e l’atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria“, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori.

Responsabilità contrattuale

Ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall’art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l’individuazione del fondamento di responsabilità dell’ente nell’inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d’opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell’ente per fatto del dipendente sulla base dell’art. 1228 c.c..
Ciò che rileva, in questa sede, è che l’ente ospedaliero risponda direttamente della negligenza ed imperizia dei propri dipendenti nell’ambito delle prestazioni sanitarie effettuate al paziente. Ne consegue che in relazione all’attività sanitaria posta in essere dal medico, l’ente ospedaliero (o la USSL) è contrattualmente responsabile se il medico è almeno in colpa.
Poiché la prestazione dovuta dall’ente ospedaliero, relativamente all’attività del personale medico, coincide con questa, anche la natura di questa prestazione coincide, giacchè l’ente ospedaliero si obbliga tramite i suoi dipendenti medici a fornire un’opera professionale sanitaria.
Trattasi quindi, limitatamente a questo profilo, di una obbligazione di mezzi e non di risultato.

L’obbligazione di mezzi

Secondo la costante giurisprudenza, le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non al suo conseguimento.
Ne deriva che l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176, comma 2, c.c. – parametro da commisurarsi alla natura dell’attività esercitata. Pertanto non potendo il professionista garantire l’esito comunque favorevole auspicato dal cliente, il danno derivante da eventuali sue omissioni in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell’omissione, il risultato sarebbe stato conseguito secondo un’indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito, e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici (Cass. 26/02/2002, n.2836; Cass. 10/09/1999, n.9617).
Questi principi vanno applicati anche in tema di responsabilità dell’ente ospedaliero per comportamento colposo-negligente dei propri medici dipendenti, sia pure con alcune specificazioni.
Infatti, una volta affermato che anche in questa ipotesi trattasi di prestazione di mezzi (prestazione di attività professionale dei medici dipendenti) e non di risultato, è solo in relazione alla prima che può sussistere l’inadempimento, mentre il mancato raggiungimento del risultato sperato non costituisce di per sé inadempimento, ma può costituire solo danno conseguenziale all’inadempimento della non diligente prestazione o della colpevole omissione dell’attività sanitaria.
La Suprema Corte di Cassazione richiama un indirizzo ormai consolidato secondo cui, in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante, con la conseguenza che qualora all’esito del giudizio permanga incertezza sull’esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno, questo ricade sul debitore (Cass. civ., sez. un., n. 577 del 2008; Cass. n. 8664/2017).
In particolare, quando venga invocata la responsabilità contrattuale (da contatto sociale), la distribuzione dell’onere della prova inerente il nesso causale è finalizzata a far valere un inadempimento oggettivo: di conseguenza sul danneggiato grava l’onere di allegare qualificate inadempienze, astrattamente idonee a porsi come causa o concausa del danno, relative alla prestazione resa dal medico nel contesto della sequenza eziologica da cui è scaturito il pregiudizio lamentato (Cass. civ., n. 14642 del 2015).

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