La responsabilità dell’ente pubblico da direzione e coordinamento

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Sommario: 1. Introduzione. 2. La riforma delle società. 3. (Segue): applicazione agli enti pubblici della direzione e coordinamento. 4. (Segue): le conseguenze applicative. 5. La modificazione della disciplina in tema di società pubbliche. 6. L’impatto sistematico. 7. (Segue): Le criticità di tale impostazione: la situazione futura. 8. (Segue): e la situazione attuale. 9. Conclusioni. (*)

 

1. Introduzione. Il mio intervento verterà non sui modi, giuridicamente differenti, e sui limiti con cui le pubbliche amministrazioni esercitano, nei confronti delle proprie controllate, strumentali (c.d. semi-amministrazioni) o meno (società di mercato), l’influenza dominante – ad essi enti pubblici discendente anche ma non solo dalla partecipazione maggioritaria al capitale delle stesse – ma sul problema, se si vuole in qualche misura pregiudiziale rispetto a quello ora solo accennato, della stessa possibilità di configurare, per la mano pubblica, la sottoposizione alla speciale forma di responsabilità, prevista dall’art. 2497 c.c., per l’esercizio della c.d. attività di direzione e coordinamento di società. Vale a dire, se sia possibile, ad instar della terminologia dottrinale che identifica la società capogruppo come “madre”, discorrere anche di un ente (pubblico) “padre”. Profilo, questo, che – anticipo il tema fin da ora così da introdurci medias in res – ha ricevuto soluzioni antitetiche e contrastanti in sede di riforma generale delle società (2003) e, di nuovo, da parte della legislazione speciale in materia di società pubbliche (2009), nel breve volgere di appena sei anni.

Una breve premessa pare, peraltro, necessaria: come accennato nel corso degli interventi dei precedenti relatori, invero, nell’esperienza italiana – ma non solo: si pensi alla situazione delle enterprises publiques dell’ordinamento francese – è normale l’adozione da parte delle pubbliche amministrazioni della struttura di gruppo per le proprie partecipazioni e, dunque, l’assunzione di una forma non “atomistica” del proprio investimento azionario ma, piuttosto, “molecolare”; e ciò anche dopo la fine del sistema istituzionalizzato delle <<Partecipazioni Statali>> e, quindi, secondo il modello – in alcuni casi addirittura contraddittorio e spesso disorganizzato – della stratificazione di interventi fondati su leggi speciali ovvero di eccezione [per il passato, A Rossi; e, in particolare, M. T. Cirenei; Massera, 891 ss.; per cenni critici, Chiti, 1115 ss.].

Ma procediamo con ordine.

2. La riforma delle società. 2003: fin dalla norma che definisce l’ambito applicativo della direzione e coordinamento di società (art. 2497 septies) e, poi, nelle diverse disposizioni a questa dedicate e, specialmente, in quella – che ne costituisce, è stato osservato [Angelici], la chiave di volta – concernente la responsabilità da direzione e coordinamento (art. 2497), troviamo che termini soggettivi di riferimento – od imputazione – della relativa disciplina, dal lato per così dire passivo, sono non solo le “società” – e, quindi, tutte, a prescindere dallo scopo e dalla struttura organizzativa – ma, altresì, gli “enti”. E si si eccettua il caso – pur dotato di un suo significativo rilievo da un punto di vista macroeconomico – delle fondazioni bancarie, tale vocabolo può e deve essere inteso, già sulla scorta del solo dato testuale – e così accade, nella elaborazione della dottrina –, come riferito anche agli enti pubblici, con riguardo alle loro partecipazioni in società ed al conseguente esercizio della direzione e coordinamento nei confronti di queste ultime [così, in dottrina, invocando il solo argomento testuale, Badini; Galgano; Dal Soglio; ma, in senso contrario, isolatamente Civetta, 198]. Partecipazione societaria della mano pubblica, questa, che, secondo quanto già ricordato dal Presidente Pelino nel proprio intervento iniziale, ha curiosamente visto, dopo il periodo delle privatizzazioni (fine anni ’90), dal punto di vista dello Stato una sorta di ritorno indietro, con la nascita di nuove strutture in forma societaria ovvero la trasformazione in società di talune strutture amministrative; e, nella prospettiva dell’intero settore pubblico, il permanere, se non addirittura il rinforzarsi, delle organizzazioni societarie, specialmente sul piano locale, secondo una linea di tendenza nota e rilevata dalla nostra letteratura, anche pubblicistica [Napolitano; Massera].

In realtà, tale conclusione – che induce a ritenere perfettamente equiparati i soggetti privati agli enti pubblici in materia di responsabilità da direzione e coordinamento ed ad ammettere, quindi, che soci di minoranza e creditori sociali delle società controllate da enti pubblici possano agire contro l’amministrazione che esercita la direzione ed il coordinamento, nonché contro i suoi rappresentanti, al fine di conseguire, in caso di violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria, il risarcimento del danno alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, i primi, ed all’integrità del patrimonio della società, i secondi, allorquando non soddisfatti dalla propria partecipata – tale conclusione, dicevo, viene contrastata, forse per l’eccessiva portata delle sue conseguenze per le finanze pubbliche – tema, questo, sempre ricorrente in tema di responsabilità, contrattuale o extracontrattuale delle pubbliche amministrazioni1 –, da una parte della dottrina commercialistica. Viene, in particolare, eccepito che:

1) in capo all’ente pubblico farebbe difetto il c.d. <<interesse imprenditoriale proprio o altrui>>, per contro richiesto come elemento essenziale della fattispecie di responsabilità contemplata all’art. 2497, oltre che sotteso alla norma che definisce l’ambito soggettivo di applicazione del fenomeno, e riferita proprio al piano della attività di direzione delle unità comprese nel gruppo; elemento, questo, la cui mancanza si radicherebbe in ciò che l’ente pubblico persegue, nella direzione delle proprie partecipate, un interesse pubblico generale e, in ogni caso, non certamente qualificabile come “imprenditoriale” [Weigmann; Guaccero; similmente, Cariello; Cariello];

2) l’ente pubblico non svolgerebbe – né potrebbe – una attività di impresa ma, caso mai, una attività di servizio pubblico, rientrante all’interno dei propri compiti istituzionali e, dunque, cadrebbe l’esercizio di una eventuale attività di coordinamento nell’ambito di una attività imprenditoriale [Guaccero].

 

3. (Segue): applicazione agli enti pubblici della direzione e coordinamento. Tali rilievi non appaiono, tuttavia, decisivi. A parte le tesi intermedie – volte ad ammettere solo un esonero da responsabilità per l’abuso di direzione e coordinamento compiuto per fini istituzionali e nei limiti del diritto comunitario e costituzionale (Montalenti; Montalenti, 16 s.) – molti e diversi argomenti depongono, al proposito, per l’operatività anche nei confronti della mano pubblica della disciplina sulla direzione ed il coordinamento e, in primis, della sanzione risarcitoria comminata, in caso di abuso della stessa, agli enti, anche pubblici, controllanti. A tal fine, si possono e devono enumerare:

1) l’inequivoco dato testuale, già rammentato, delle norme in questione, con il riferimento agli “enti” (Portale);

2) l’argomento storico: l’identità di disciplina ai fini della tutela delle minoranze e dei creditori sociali delle controllate dagli enti di gestione era già stata affermata, da un canto, sotto il regime delle <<Partecipazioni Statali>>, pur nella assenza di una regolamentazione similare a quella degli artt. 2497 ss. e, dunque, nella necessità di far ricorso alle norme societarie generali (principalmente: di repressione del conflitto di interessi; così, nella letteratura, A. Rossi; M. T. Cirenei, 194, nt. 158, ove ulteriori riferimenti); dall’altro, sarebbe del tutto privo di senso ritenere, sulla scorta di tale dato di evoluzione storica del sistema, gli enti pubblici esonerati da tale disciplina nel nuovo contesto;

3) il dato comparato e comunitario: pur non potendo procedere ad una analisi precisa della situazione esistente in altri ordinamenti giuridici – per i quali mi sia permesso di rinviare ad un mio predisponendo contributo in argomento – mi limito solo a notare come, sul piano comparato, nei sistemi giuridici a noi più vicini dal punto di vista societario e, inoltre, amministrativo [Francia; Spagna; Germania], costituisca, in primo luogo, principio oramai acquisito che la pubblica amministrazione soggiaccia, quanto alla sua partecipazione azionaria e pur nella differenza dei congegni giuridici a tal fine previsti – che spaziano dalla francese action en complement du passif all’iberico levantamiento del velo (superamento della personalità giuridica in caso di abusi), fino alla piena operatività delle norme sulle imprese collegate e sui gruppi di società nel diritto tedesco – per la tutela dei creditori e dei soci di minoranza delle controllate, alla stessa disciplina applicabile agli operatori economici privati (Portale; Santonastaso).

In secondo luogo, ricordo come, sul piano comunitario, la giurisprudenza della Corte di Giustizia – da ultimo con le decisioni del 2009: e si pensi a quella resa, contro l’Italia, in causa 326/07 – ritenga, da un canto, imposto, alla stregua del diritto comunitario, che tutte le imprese, anche se pubbliche, siano ugualmente sottoposte alle regole di mercato con la sola ammissibilità di un regime di (cauta) eccezione per quelle operanti per servizi di interesse generale od essenziale, e che, dall’altro, qualifichi come contrari al diritto comunitario e, quindi, come altrettante violazioni dello stesso eventuali regimi di favore riconosciuti ad imprese pubbliche, anche se funzionali alla loro creazione. In definitiva, si tratta di una tendenza – imposta anche ai diritti nazionali degli Stati in sede di adeguamento – alla parità delle regole2. E, in tale contesto, non fa eccezione neppure lo statuto dell’impresa societaria pubblica che, in base alla giurisprudenza comunitaria nei casi AEM (sentenze nn. 463 e 464 del 2007) è, in via di principio, assoggettata alle regole generali del Trattato e, pur ammettendosene una limitazione quando necessaria alla tutela degli interessi pubblici degli enti partecipanti come per tutte le imprese pubbliche, ne esige la proporzionalità e ne impedisce ogni esorbitanza dai relativi obiettivi [ancora Santonastaso; Chiti; Montalenti, 16].

4) da ultimo, l’argomento sistematico: da un canto, anche le pubbliche amministrazioni possono ben svolgere, come pacificamente riconosciuto in dottrina e oramai acquisito alla stessa prassi amministrativa statale e locale, attività economica (Campobasso; Portale; e, nella prassi amministrativa più recente, Comune di Roma, 30; nonché Cipe, 3); e, in alternativa, appare pienamente possibile una interpretazione estensiva o adeguatrice del riferimento al c.d. <<interesse imprenditoriale proprio o altrui>>, volta a ricomprendervi anche l’attività di direzione delle proprie controllate ad opera degli enti pubblici, sicché la relativa disciplina, anche a voler escludere la possibilità di qualificare la p.a. come imprenditore, può e deve, quanto meno, applicarsi per analogia anche nei confronti della medesima, secondo un orientamento già proposto in merito dalla dottrina tedesca (Cariello; e già nella dottrina tedesca, Zöllner, secondo il quale, ferma restando l’impossibilità di qualificare come imprenditore lo Stato, la disciplina sul collegamento azionario gli si applica per analogia). Neppure può, dall’altro canto, ignorarsi che il potere di direttiva del socio pubblico nei confronti degli amministratori che ne sono espressione, specie se direttamente nominati, può dar luogo, unitamente con altri indici, ad una situazione di etero-direzione della società da parte dell’ente pubblico in tutto identica a quella, potenzialmente rilevante per l’esigenza di assicurare una tutela ai soci ed ai terzi danneggiati dalla etero-direzione della società per un interesse extra-sociale e, meglio, macro-aziendale e di gruppo, sottesa alla logica dell’art. 2497 c.c.; condizione, questa, ancora più evidente con riguardo ai penetranti poteri di intervento sulla gestione riconosciuti e necessariamente da riconoscere, secondo l’espressione sintetica del c.d. <<controllo analogo>>, nel caso di società incaricate della gestione di servizi in house, alla mano pubblica (Ursi; Guerrera; in termini, anche Weigmann; Fimmanò).

Perfettamente coerenti a tale ricostruzione sembrano, in definitiva, le parole di un Ministro dell’Economia, secondo il quale <<le norme che definiscono i diritti e gli obblighi degli azionisti non distinguono tra azionista pubblico e azionista privato. Tali norme definiscono le regole di governo della società e tracciano le coordinate e i confini entro cui gli amministratori devono stare>> (Audizione del Ministro dell’Economia Padoa Schioppa).

 

4. (Segue): le conseguenze applicative. Riconosciuta in tal modo l’applicabilità della disciplina degli artt. 2497 ss. c.c. anche alla p.a. con le condizioni ordinarie, risulta possibile risolvere una serie di questioni applicative:

1) E’ senz’altro irrilevante, ai fini dell’applicazione della disciplina, che l’ente pubblico partecipi e coordini un’unica società. Ed invero, in tal senso posso richiamare sia l’irrilevanza della struttura soggettiva degli enti coinvolti (p.a. e partecipata); sia, inoltre, la possibilità di riconoscere, anche in tale evenienza ed alla stregua della disciplina generale, la direzione ed il coordinamento da parte dell’ente pubblico nei confronti della propria unica controllata.

2) Del pari irrilevante è il tipo di società pubblica, di diritto comune ed operante in regime di concorrenza ovvero di diritto speciale, che esercita attività amministrativa. Ai fini della responsabilità da attività di direzione e coordinamento, non sembra, infatti, possibile creare una tale contrapposizione e si deve ritenere, quindi, la stessa operante nei confronti dell’ente pubblico capogruppo ed a tutela di tutte le società, nonché dei soci minoritari – ove ve ne siano – e dei creditori sociali (sicuramente esistenti); e, quindi, non solo quando la controllata svolga attività economica, ma, altresì, quando l’eventuale attività di servizio pubblico sia priva di rilevanza economica. E’ stato, in proposito, rilevato (Ibba) come, dal punto di vista delle finalità della normativa – impedire che la politica di gruppo sia pagata solo da alcuni soci e da alcuni creditori –, la natura (imprenditoriale o non imprenditoriale) dell’interesse inspiratore di tali politiche adottate dall’ente pubblico appaia neutra ed ininfluente e non consenta di giustificare che soci e creditori ricevano, a seconda dei casi, trattamenti opposti; e che, sul versante pratico, anche quando l’attività sociale sia indirizzata al perseguimento di un interesse istituzionalmente non lucrativo, questo rimanga pur sempre proprio della singola società, sicché i principi di corretta gestione impongono che le sue risorse non siano distolte dalla finalità pur non lucrativa che le è propria a beneficio di interessi ad essa esterni e che debba, in caso contrario, operare – sempre che vi sia un danno e questo non sia compensato – il contrappeso del meccanismo risarcitorio ex art. 2497 c.c. [Ibba; Fimmanò; Ursi; Guerrera; per una tesi intermedia, Montalenti].

3) Vero è, comunque, che, in materia possono ben assumere rilievo anche disposizioni di legge pubblicistiche. Ed invero, è frequente – e si pensi ancora all’ipotesi delle società in house e, altresì, a tutte le altre c.d. <<semi-amministrazioni>> – l’esistenza di vincoli che impongono la partecipazione esclusiva della mano pubblica in una determinata società (c.d. partecipazione necessariamente pubblica). E tale circostanza comporta che, in tale evenienza, non potrà mai esservi una responsabilità da direzione e coordinamento verso i soci minoritari [Oppo; Guerrera; Cirenei]. In tal modo si consegue, d’altronde, l’obiettivo di limitare, in una prospettiva diversa, la <<tendenziale invulnerabilità della autonomia patrimoniale>> dell’ente societario unipersonale oramai assicurata dalla disciplina dettata per le strutture unipersonali [Guerrera]

4) Un piccolo ma significativo riconoscimento merita anche la padrona di casa dell’odierno convegno. A tal riguardo, mi limito a ricordare solo che la stessa giurisprudenza della Corte dei Conti già ammette, in taluni propri precedenti specifici in tema di enti locali, l’operatività della disciplina della direzione e coordinamento di società, in generale, e, nello specifico, di quella in tema di responsabilità. A parte le affermazioni di carattere generale desunte dalla applicabilità integrale alle società partecipate della disciplina di diritto comune (Corte dei Conti, Stato dei controlli della Corte dei Conti sugli organismi partecipati dagli enti locali, disponibile on line sul sito www.corteconti.it, 30 s.) sono, così, reputati dai giudici contabili fonte di responsabilità ex art. 2497 c.c. nei confronti dei creditori sociali della controllata di un Comune incaricata della gestione di un servizio pubblico la circostanza che l’importo pagato dal Comune alla propria società controllata per il godimento del servizio erogato sia inferiore al costo normale dello stesso (Corte dei Conti / contr., 21 dicembre 2006, n. 23/2006, disponibile on line sul sito www.corteconti.it); e, ancora, che il Comune non intervenga in presenza di un deterioramento delle condizioni finanziarie delle società gerenti servizi in house per conto della stessa amministrazione locale (Corte dei Conti / contr., 9 dicembre 2008, n. 178/2008, disponibile on line sul sito www.corteconti.it)3.

5) da ultimo, i riflessi sistematici: come già chiarito nel proprio intervento dal Prof. Patroni Griffi, l’operatività degli artt. 2497 ss. c.c. comporta l’esigenza di attuare un modello di organizzazione, del gruppo e dell’impresa conforme ai dati strutturali dell’istituto societario; e, considerato come controllo analogo e responsabilità da direzione e coordinamento facciano venir meno persino la limitazione del rischio naturalmente sottesa allo strumento societario, non si comprende, in tale prospettiva, per quali motivi non ricorrere, per i servizi in house e, comunque, per le attività non economiche, alle strutture pubblicistiche (e si pensi, in primo luogo, alle c.d. aziende speciali; in dottrina, Fimmanò).

[nota] Applicazione dell’art. 2497 c.c. con riferimento ai limiti, posti dal legislatore a partire dal 2006 (art. 13 d.l. 223/2006), rispetto all’operatività ? Si, dovendo tale problema di concorrenza rinvenire la propria soluzione nella disciplina – anche antimopolistica – della concorrenza ma, nei casi in cui l’attività non consentita sia programmata dallo stesso ente locale, anche sul piano della responsabilità da direzione e coordinamento di questo. Contraria soluzione tedesca in Henze – Notz, § 53a, in AA. VV., AktG. Groβkommentar, 22 lieferung, Berlin, 2004, sub § 53a, 134 s., rd. 78, sulla base del solo divieto di concorrenza.

 

5. La modificazione della disciplina in tema di società pubbliche. 2009: Come accennavo all’inizio e come avete già sentito nei precedenti interventi, la soluzione legislativa sottesa al sistema della direzione e coordinamento di società viene, tuttavia, radicalmente modificata dal legislatore speciale in sede di (ennesima) ri-novellazione dei principi in materia di società pubbliche. La questione della applicabilità alla p.a. delle norme sulla direzione ed il coordinamento viene, invero, espressamente risolta dall’art. 19, sesto comma, d.l. 78/2009, convertito in l. 102/2009 in modo non unitario ma differenziato a seconda dell’ente pubblico [Montalenti, 17; Tombari, 12, nt. 23; Ibba, 23; Bassi, 39; Civetta, 198]. Previsione normativa, questa, che – non fidandomi più del caotico legislatore degli ultimi dieci anni, ho avuto cura di controllare ieri mattina alle 12 e la norma mi veniva segnalata come ancora in vigore – previsione normativa, questa, che, dicevo dispone, da un canto, l’esonero dalla relativa responsabilità per lo Stato (<<soggetti giuridici collettivi…diversi dallo Stato>>) – e, amplius e rectius, per tutte le Amministrazioni Statali, data l’impossibilità di considerare lo “Stato”, come sembrerebbe fare invece la regola speciale, un soggetto unitario [così, Di Sante – Sebastianelli, 819] –; e, dall’altro canto, la ammette, per tutti gli altri enti pubblici, subordinatamente alla duplice condizione – che ha da ritenersi tutt’altro che infrequente: così Tombari, 12, nt. 23 – che la partecipazione sociale sia detenuta come bene strumentale alla propria attività di impresa (e, quindi, per fini imprenditoriali: <<nell’ambito della propria attività imprenditoriale>>) ovvero, in alternativa, che la stessa sia detenuta per finalità economiche o finanziarie [in letteratura, per analoga ricostruzione cfr. Montalenti, 17 e Tombari, 12, nt. 23; Ibba, 23; Bassi, 39 s., per una lettura estensiva del divieto; Civetta, 198]. E si pensi, ad esempio, quanto alle finalità economiche, a società pubbliche che gestiscano servizi di natura economica e non imprenditoriale, come è forse – ma non non ne sarei sicurissimo – a dirsi per le attività di finanziamento di interventi pubblici svolte mediante un complesso congegno giuridico nel quale vi sia la creazione di una società controllata incaricata dell’opera – e la cui attività non sia, dunque, imputabile alla mano pubblica – ed il suo finanziamento da parte dell’ente detentore della partecipazione di maggioranza [Fimmanò]; e, quanto alle finalità finanziarie, la dove, con identici dubbi ed incertezze, la partecipazione sia detenuta dall’ente pubblico come mezzo – o, se si vuole, come forma – di investimento di proprie eventuali risorse in altre attività imprenditoriali, secondo una espressione che sembra rinvenire nella disciplina delle fondazioni bancarie il proprio precedente storico immediato (e cfr., in merito, l’art. 7 d.lgs., 153/1999; in dottrina, Portale).

Ovvie esigenze di tempo e la necessità di concentrarmi piuttosto sulla portata sistematica della norma mi impediscono di soffermarmi funditus sulla storia della disposizione ora citata, quali illustrataci dai lavori preparatori, e sulle sue caratteristiche intrinseche. Bastino, al proposito, solo alcuni brevi flash, pur privi di un adeguato apparato argomentativo:

1) come emerge con chiarezza dall’iter parlamentare, il fondamento della prevista esenzione per lo Stato andrebbe rinvenuto nel principio, già presente nel sistema, secondo il quale il Ministero dell’Economia non esercita attività di impresa e si limita, quanto alla propria partecipazione in altre società, al semplice esercizio dei propri diritti di azionista, senza far valere sulle partecipate l’influenza dominante di cui pur dispone. Appare, comunque, chiara l’intenzione legislativa di sottrarre costantemente lo Stato alla responsabilità del c.d. “ente padre”, cui accennavo all’inizio dell’intervento, e di circoscriverne, nei confronti degli altri soggetti della mano pubblica l’operatività, creando, rispetto alla sanzione risarcitoria comminata dall’art. 2497 c.c., una posizione differenziata della p.a. globalmente intesa e, in particolare, dello Stato.

2) Pur se formulata male, la disposizione ha chiaramente natura interpretativa, chiarendo la portata del vocabolo “enti” nell’art. 2497 (così, AA. VV., 26; Servizio Studi della Camera, Schede, 170; Servizio Studi della Camera, Elementi, 6; e, nella letteratura, Campobasso, II, 304 s.; Montalenti, 16 e 17, rilevando la cattiva formulazione del testo normativo; Tombari, 12, nt. 23; Bassi, 38; Di Sante – Sebastianelli, 819).

3) Data la sua natura interpretativa, la disposizione mira ad essere retroattiva, anche perché si limiterebbe ad esplicitare solo un principio già sancito dal sistema. Punto, questo, rispetto al quale è possibile sollevare più di qualche perplessità, in forza del rilievo che nessuna disposizione né principio esonera – e, meglio sarebbe dire, esonerava –, per il passato, il Ministero dell’Economia dalla responsabilità ex art. 2497 né ne limita la portata per gli altri enti pubblici e che, quindi, non vi è una (mera) interpretazione autentica ma, invece, una nuova disposizione [cfr., al proposito, i dubbi avanzati da Servizio Studi della Camera, Elementi, 6, ove il richiamo alla circolare sulla corretta formulazione dei dati normativi ed il relativo dubbio; nonché, sicuramente nel senso della retroattività, Interrogazione parlamentare 13 ottobre 2009, n. 5 – 01918, (Fluvi e altri), 2].

4) Nonostante le intenzioni legislative, sembra, però, che alla regola in questione debba essere assegnata natura eccezionale. Se è errata l’impostazione del Ministero, sia per la ricostruzione teorica che per i dati di prassi (non vi è, sul punto, alcuna differenza tra un Comune con le sue piccole controllate totalitarie e lo Stato con le quotate nelle quali ha consistenti quote di partecipazione), lo stesso testo normativo [<<l’art. 2497, primo comma, del codice civile si interpreta nel senso che per enti si intendono>>] fa chiaramente percepire che siamo in presenza di una eccezione in senso oggettivo – e che, quindi, non possano affatto ritenersi derogate nei confronti delle p. A. statali tutte le altre regole in tema di di direzione e coordinamento, ivi comprese anche quelle in ordine alla responsabilità, ove già applicabili – e soggettivo (sicuramente agli altri enti pubblici si applicano sia le disposizioni sulla direzione ed il coordinamento diverse da quelle in tema di responsabilità e, nei limiti risultanti dall’art. 19, sesto comma, lo stesso art. 2497 c.c.; conformi Montalenti, 16 s.; Bassi, 38 s.).

 

6. L’impatto sistematico. Di maggior interesse – e lo tratterò con l’ampiezza consentitami dal poco tempo rimasto a mia disposizione – si mostra, piuttosto, la lettura sistematica della norma; in una, il suo inquadramento come elemento del sistema giuridico delle società e, specialmente, di quelle pubbliche.

Riguardata in tale prospettiva, è sufficiente una semplice consultazione su internet per rinvenire, su diversi forum di discussione dei quali dei ometto i riferimenti telematici, giudizi assai trancianti e, sia detto per inciso, tutti negativi. Saremmo in presenza di una (sorte di) “amnistia civilistica”, graziosamente accordata dal Parlamento all’apparato amministrativo statale e, in particolar modo, al Ministero dell’Economia, con speciale riferimento alle vicende dell’Alitalia su cui interverrà domani mattina il mio Maestro, Prof. Gianmaria Palmieri (e per un esempio, http://www.girodivite.it/Alitalia-amnistia-civilistica-per.html). Non credo, però, che, nonostante alcune adesioni in dottrina, una valutazione così rigida possa essere condivisa tout court e che sia, invece, prospettabile una soluzione più meditata e articolata. Mi sembra, infatti, che una lettura in qualche misura “di sistema” della regola in esame – pur con tutti i limiti che a tale operazione sono frapposti dallo stesso caotico modus legiferandi più recente in materia di società pubbliche – non possa prescindere da un necessario collegamento con alcune delle previsioni dettate, in merito, dalla l. 69/2009 e dal d.l. 78/2009.

In tale contesto, l’art. 19, sesto comma, si inserisce nell’assetto futuro, rivisto da ultimo con le leggi appena citate, di riordino del sistema delle partecipazioni pubbliche e con il relativo processo di riorganizzazione, avviato dalla l. 244/2007. Tralasciando le relative vicende – che vedono il passaggio da un divieto assoluto di costituzione e partecipazione in società la cui attività non sia strumentale a quella degli enti pubblici / soci (2007) al riconoscimento, sancito con l’art. 71 l. 69/2009, della legittimità della partecipazione indiretta (2009) – l’esonero dello Stato da responsabilità ex art. 2497 e la sua concorrente limitazione per gli altri enti acquistano nuova luce: considerato, infatti, il carattere necessario della costituzione delle holding pubbliche – imposta per legge quale unica legittima alternativa all’obbligo di dismissione con procedure di evidenza pubblica delle partecipazioni non strumentali, altrimenti operante – il legislatore sembra voler confinare la responsabilità da direzione e coordinamento sul piano di una attività sicuramente qualificabile come imprenditoriale [Montalenti, 336] e tale appare essere, senza alcun dubbio, quella svolta dalle holding pubbliche per le partecipazioni “non strumentali” (conformi, sul piano descrittivo, C.N.D.C. / Commissione Enti locali, 8 s.; nonché Servizio Studi della Camera, Schede, 127; e, per riferimenti, Campobasso, I; nonché, in termini sulla questione, Galgano, SB, 57 ss.; e, a commento della l. 69/2009, Fonderico); e sembra, nel contempo, voler operare sul versante soggettivo un fenomeno di sostituzione della holding pubblica alla p.a. partecipante per ciò che concerne la responsabilità da direzione e coordinamento.

Se tale lettura è esatta, in futuro sarà la sola holding pubblica ad essere soggetta, nell’esercizio della direzione e coordinamento delle partecipate, alla disciplina ex artt. 2497 ss.; conclusione, questa, coerente, da un canto, con la circostanza che tale società opera mediante gli ordinari strumenti societari e che, dall’altro canto, tiene conto del rilievo secondo il quale, nei rapporti tra ente pubblico e holding, gli ordinari poteri di indirizzo dell’attività previsti dal diritto societario – voto e direttive agli amministratori – sono solitamente sostituiti dalla legge [Fonderico].

Allo stato sembrano, quindi, possibili due conclusioni:

1) sebbene l’esonero dello Stato e la limitazione della responsabilità per gli altri enti siano tra loro profondamente differenti nella forma, dal confronto con la situazione di altre P.A. – caso eminente: le Regioni – dal punto di vista pratico la loro situazione tende ad equipararsi; e ciò anche nella prospettiva del carattere neutrale del fine sociale dell’attività svolta e della esigenza di una partecipazione funzional-imprenditoriale.

2) Per quanto concerne il modello di governance, inoltre, appare evidente una duplicazione di piani ben precisa: se l’ente pubblico ha, pur sempre, un potere di direzione nei confronti della holding , esercitata per lo Stato con previsioni di legge, e volta ad una considerazione anche dell’interesse pubblico sotteso alla partecipazione in società [Cirenei; Fonderico], viene a crearsi un autonomo spazio di potere gestorio attribuito agli amministratori della capogruppo nei confronti delle partecipate e concernente la gestione ordinaria ed il rafforzamento della stessa autonomia organizzativa [così, Fonderico].

Un dato resta, però, fermo: così letto, l’art. 19, sesto comma, finisce con il poter essere valutato in maniera non negativa [Fonderico]; o, come forse è più corretto dire, ne va sospeso il giudizio in attesa dell’attivazione – che soffre, peraltro, di continui differimenti, in un sistema giuridico fin troppo abituato ad interminabili regimi transitori e che si presta al costante pericolo di un sostanziale abbandono del relativo movimento di riforma – del nuovo congegno di partecipazione pubblica alle società e del suo concreto funzionamento [in tal senso Massera; e, inoltre, Chiti, 1117 e 1120 s., anche per la vicenda kafkiana dell’anticipazione e del successivo differimento del termine finale per le dismissioni].

 

7. (Segue): Le criticità di tale impostazione: la situazione futura. A fronte di tali elementi, tuttavia, emergono una pluralità di aspetti negativi, anche ma non solo in tema di responsabilità civile (così, invece, Civetta, 199), tutti riconducibili all’osservazione di vertice secondo la quale, lungi dal giustificare di per sé deroghe al regime generale, l’intervento della mano pubblica sul mercato ed in forma di impresa comporta l’esigenza di applicare ad essa le norme civilistiche generali che valgono per gli operatori privati e, tra queste, quelle volte alla tutela dell’impresa dominata, nonché dei suoi creditori e dei soci di minoranza delle stesse secondo l’indirizzo già tracciato dalla dottrina germanica e dal diritto comunitario [così, Colombo; B.G.H.; i riferimenti comunitari].

Dato il potenziale superamento dei limiti di tempo assegnatimi, posso, a questo punto, solo indicare taluni di questi problemi – già accennati nei loro interventi dai precedenti relatori –, che si pongono con uguale urgenza sia pro futuro – una volta completato e se mai sarà completato il processo di revisione delle partecipazioni pubbliche di cui dicevo – che, inoltre, nella situazione attuale. Inizio dai problemi futuri:

 

1) Errore grave nei presupposti della disposizione.

La norma si fonda, in primo luogo, su tutta una serie di erronei presupposti, tanti più gravi ed evidenti in quanto assurti a motivazione della regola legislativa e da valutare nella prospettiva della costituzionalità della stessa.

Essa confonde, innanzitutto, il piano dei rapporti tra attività di impresa e attività direzione e coordinamento, escludendo la seconda in quanto lo Stato sarebbe asseritamente privo della qualità di imprenditore né capace di assumerla. Ma così non è. Ed invero, l’opinione prevalente della dottrina reputa, alternativamente e proprio con riguardo alle società pubbliche, che proprio l’attività di direzione e coordinamento sia essa stessa attività imprenditoriale o, come forse è più corretto ritenere, possa quanto meno assurgervi (Portale; sui servizi pubblici locali, Fimmanò; in termini generali, Spada; Campobasso); ovvero che, ai fini dell’applicazione degli artt. 2497 ss. c.c., sia ben possibile prescindere dal carattere imprenditoriale della attività di direzione e coordinamento, radicandosi tale elemento piuttosto sul piano dell’attività di impresa delle controllate (Montalenti; Montalenti, 16; Ferrara – Corsi; in una diversa prospettiva, Angelici); infine, che sia, in ogni caso, ipotizzabile l’applicazione analogica delle disposizioni nei confronti della p. A. (Zöllner) ovvero che, operando ai sensi dell’art. 2497 septies una presunzione di attività, non sia decisiva tanto la circostanza secondo cui lo Stato in fatto non utilizzi attualmente le sue possibilità di esercizio della influenza dominante – situazione, questa, contingente e suscettibile di modifica in fatto [Cirenei] –, ma, piuttosto, determinante l’evenienza che la mano pubblica possa, in ogni momento, abbandonare quella cautela ed iniziare ad utilizzare a pieno quella situazione di potere nei confronti dell’una o dell’altra società dominata (B.G.H.; e, forse, Bassi, 40, dando rilievo, ai fini dell’esercizio della direzione e coordinamento, alla mera situazione di controllo ex art. 2359 c.c.).

Del pari erronea è, inoltre, la tesi secondo la quale l’esonero della mano pubblica dalla relativa responsabilità sarebbe già presente nel sistema sotto forma di principio generale [così, Interrogazione parlamentare 13 ottobre 2009, n. 5 – 01918, (Fluvi e altri), 86 s.], atteso come, per contro, opposta conclusione si desume(va) dalle regole codicistiche generali; viene, anzi, osservato in dottrina che, tutto al contrario, l’interpretazione autentica somministrata dalla norma in esame conferma la piena operatività delle norme in tema di direzione e coordinamento anche nei confronti degli enti pubblici partecipanti [Ibba, 23].

Infondato è, infine, l’argomento [così, invece, risposta 24 settembre 2009 (Sott. Vegas), 23] secondo il quale l’art. 19, sesto comma, escluderebbe la possibilità di esercizio della direzione e coordinamento, dato che, in maniera ben diversa, esso dispone solo l’esclusione della responsabilità ma non già l’esclusione dell’esercizio – che può benissimo essere legittimo in base ai principi generali – della direzione e del coordinamento da parte dello Stato.

 

2) Rapporti ente pubblico controllante / holding pubblica.

A stretto rigore di diritto, la disapplicazione nei confronti dello Stato dell’art. 2497, primo comma, c.c. dovrebbe comportare, su un diverso piano, l’esclusione dell’azione risarcitoria diretta della holding pubblica – direi: anche solo di settore se tale espressione non evocasse il “fantasma” delle “Partecipazioni statali” – per i danni pagati, anche coattivamente, in base alla disciplina dell’attività di direzione e coordinamento ai soci ed ai creditori sociali delle controllate [in tal senso, indirettamente, Ibba, 23]. Anche se oggetto di recente di forti perplessità (cfr., infatti, per la negativa Abbadessa), sorge, al proposito, l’ulteriore dubbio se, negata la responsabilità dell’ente pubblico partecipante verso la holding in base all’art. 2497 c.c., nei rapporti tra questi soggetti possa ammettersi, da parte della controllante, una azione di risarcimento del danno – quanto meno ex lege aquilia – contro l’ente pubblico coordinante.

 

3) Ipotesi di abuso della direzione e coordinamento programmate direttamente dalla mano pubblica.

L’esonero accordato allo Stato dalla responsabilità ex art. 2497 c.c. pone delicati problemi di individuazione del soggetto cui, dal lato passivo, possa e debba essere imputato l’esercizio illegittimo della direzione unitaria allorquando questo provenga non già dalla controllante intermedia ma, invece, esclusivamente dallo Stato holder. E si pensi al caso, classico, in cui l’Amministrazione coordini non soltanto l’attività degli amministratori della o delle holding pubbliche ma, direttamente, di quelli delle controllate, abusando di tale potere; ovvero incida sull’ambito della gestione loro riservato in maniera diretta; in una, che l’attività di direzione e coordinamento sia <<allocata>>, anche per determinate operazioni o con riferimento ad un tempo definito, alla mano pubblica e non alla holding partecipata e si tratti di imputare le conseguenti responsabilità [Tombari]. Problema, questo, che assume chiara evidenza per le ipotesi limite della procurata insolvenza della società abusata – non rare specie a livello locale, come testimoniato da recenti fattispecie – ovvero di fronte a comportamenti definibili come opportunistici o, peggio ancora, eticamente aberranti in materia di responsabilità delittuale (Spada; Fimmanò, riconoscendo la diretta esperibilità dell’azione ove vi sia la dichiarazione di insolvenza della etero-diretta; e, sempre in ordine all’insolvenza, Civetta, 199; e, nella giurisprudenza contabile, con riguardo al problema delle ripercussioni sulla sana e prudente gestione finanziaria dell’ente pubblico che abbia erogato, in qualità di dirigente ex art. 2497 c.c. finanziamenti alla partecipata, Corte dei Conti / contr., 29 giugno 2009, n. 385/2009, disponibile on line sul sito www.corteconti.it).

E’ chiaro che, in tale contesto, l’art. 19, sesto comma, d.l. 78 conduce a ritenere responsabile, anche quando il danno da direzione e coordinamento discenda dal fatto esclusivo dello Stato holder e si avvalga della mera opera di trasmissione degli amministratori della propria holding, la controllante intermedia. Ma una tale soluzione comporta una palese deroga al principio, sotteso al sistema degli artt. 2497 ss. c.c., secondo il quale sopporta il rischio dell’attività di direzione e coordinamento, anche per le responsabilità che ne derivino, il soggetto che la eserciti; crea, inoltre, un evidente vuoto di tutela nella struttura di gruppo, a meno di non ritenere surrettiziamente introdotta dalla disposizione in esame una nuova ipotesi di responsabilità oggettiva della stessa controllante di dubbia costituzionalità, tutte le volte in cui la mano pubblica eserciti il proprio potere di coordinamento senza passare attraverso questa ma in via diretta, per il tramite degli amministratori delle società (indirettamente) controllate. Ed identica situazione è ravvisabile anche nei confronti degli altri enti pubblici, la dove certamente risponde la holding ma non con la pienezza che sarebbe richiesta dalla situazione l’ente pubblico partecipante [cenni in Ferrara – Corsi; nonché, sul piano della documentazione, Interrogazione parlamentare 13 ottobre 2009, n. 5 – 01918, (Fluvi e altri), 87].

Non ritenendo che rebus sic stantibus possa pervenirsi a ritenere comunque la p A. sempre responsabile in base all’art. 2497, proporrei, perciò, una soluzione – se si vuole – rigida sostenendo che quanto meno gli amministratori della holding meritino, nonostante l’art. 2497, secondo comma, c.c., di essere tenuti esenti da responsabilità per direzione e coordinamento la dove essa risalga in proprio alla mano pubblica, potendo al più rispondere solo sul piano delle azioni di responsabilità societaria (artt. 2392 ss.; per analogia, Spada; ma in senso opposto, per l’integrale applicazione della disciplina della direzione e coordinamento, Ibba, 23).

 

4) Destinazione di risorse a finalità extra-imprenditoriali.

Le conclusioni sommariamente raggiunte nei punti precedenti trovano, poi, una loro significativa applicazione nei casi di destinazione di risorse a finalità extra-imprenditoriali ovvero del perseguimento di interessi extra-imprenditoriali da parte della p.A.

Sebbene costituisca, invero, principio pacifico che, in tali evenienze, la responsabilità sia, in definitiva, in re ipsa – trattandosi, per definizione, di comportamenti sicuramente contrari ai principi, richiamati dall’art. 2497 per l’individuazione del c.d. actus reus, di corretta gestione imprenditoriale e societaria (Ibba, 10; Fimmanò; e, in particolare, per l’impossibilità che l’iniziativa del socio pubblico si traduca nella totale pretermissione di qualsiasi interesse lucrativo del socio privato e, in specie, di quello alla ragionevole remunerazione del capitale investito Cirenei, 195 s.) – non è chi non veda come l’esonero dello Stato da responsabilità si rifletta, anche e principalmente, su tali ipotesi.

 

5) Il diritto di recesso.

L’art. 19, sesto comma, condiziona, inoltre, la possibilità di esercizio del diritto di recesso dei soci delle controllate abusate. Essendo quest’ultimo subordinato, per volontà normativa (cfr., in particolare, l’art. 2497 quater), dalla soluzione adottata per la responsabilità, si corre, in effetti, il pericolo di escludere l’exit in una situazione in cui (B.G.H., 1338) esso è – ed appare volutamente previsto come strumento di protezione dei soci di minoranza – tanto più essenziale. E si pensi, ancora, alle ipotesi di abuso direttamente imputabile allo Stato. Va da se, poi, che, per la residua disciplina degli artt. 2497 ss. c.c., si pone pur sempre il problema della sua applicazione alla mano pubblica e, in particolare, quello dell’esistenza di un criterio unitario di applicazione ovvero di più criteri (e si confronti, nell’esperienza tedesca, la tesi del B.G.H., secondo il quale di norma tutte le norme sul collegamento di imprese sono applicabili allo Stato: Colombo, 1332).

 

6) Le società strumentali.

Problemi non dissimili – e, forse, in una qualche misura più gravi – sorgono anche rispetto alle società c.d. strumentali. Con riferimento a queste ultime, invero, la più recente legislazione introduce un ampliamento dei poteri di controllo, esteso anche alla modifica degli assetti precedenti, del Ministero dell’Economia. Se si uniscono tali profili all’esonero sancito, per lo Stato, dall’art. 19, sesto comma, diviene attuale un problema di tutela dei creditori sociali delle stesse e, ove esistenti, dei soci di minoranza a motivo della mancata protezione di tali soggetti offerta, alla stregua del diritto comune, dalla responsabilità per attività di direzione e coordinamento. E ciò, si badi, in una situazione in cui, per un verso, sono sicuramente ammesse – e si pensi al caso delle società in house – intrusioni sul piano gestorio e del risultato da parte della mano pubblica e, dunque, cresce esponenzialmente il rischio di comportamenti scorretti della stessa; e, per altro verso, neppure esiste la necessità di costituire una holding intermedia di partecipazione – che risulta, per questo, assente – non operando il divieto ex art. 3, comma 27°, l. 244/2007 nella sua versione rivista dall’art. 71 l. 69/2009 (in tal senso, per le società in house, Civetta, 199).

 

7) Problemi in tema di governance.

Come anticipato in particolare dal Prof. Patroni Griffi, dall’esonero dello Stato e, altresì, dalla limitazione della responsabilità per gli altri enti pubblici emerge un problema in tema di governance delle società pubbliche, vertente sulle intrusioni gestorie, da un canto, e sulle direttive agli organi amministrativi, dall’altro.

Con riguardo al primo profilo – quello delle intrusioni gestorie – l’esclusione di una responsabilità dello Stato pone il problema che le stesse rischiano di non essere contenute più nel limite, pur noto fin ora alla dottrina pubblicistica, della compressione dell’autonomia gestionale delle società partecipate [Ursi] ma estese, in aggiunta, alla stessa regolamentazione convenzionale della attività e, quindi, innanzitutto dell’oggetto sociale; dunque, sul piano programmatico e non più solo attuativo della gestione societaria. E’ ovvio che, mancando la sanzione risarcitoria (diretta) nei confronti delle Amministrazioni Statali in caso di abuso della direzione, gli organi di vertice della p.A. potrebbero essere indotti ad un esercizio eccessivo della stessa.

Identici rilievi possono essere formulati anche rispetto al problema della direttiva. E’ chiaro che l’assenza di una responsabilità ben potrebbe indurre la mano pubblica ad eccedere nell’analiticità di formulazione della stessa, con la conseguenza che tali atti potrebbero trasbordare da indirizzo dell’attività delle controllate, per il loro coordinamento operativo, in veri e propri ordini rivolti agli amministratori delle partecipate, specie mediante la holding controllante. Profilo, questo, per il quale una forma di tutela potrebbe pur sempre rinvenirsi, con riguardo agli atti di gestione posti in essere in esecuzione delle direttive, nella disciplina del conflitto di interessi c.d. “a catena”, ex art. 2373 c.c. e 2391, e, inoltre, nella responsabilità degli amministratori della holding pubblica [Portale, ove ultt. riff.; Cirenei; idea in Guaccero].

 

8) I riflessi sistematici.

L’esistenza dell’esonero e, comunque, della limitazione della responsabilità da direzione e coordinamento solleva, infine, delicati problemi di carattere sistematico, concernenti sia aspetti di diritto societario che di diritto dell’impresa.

L’art. 19, sesto comma, comporta, in effetti, un problema sistematico in tema di rispetto della causa del tipo “società”, in quanto, surrettiziamente, finisce con l’ammettersi un uso potenzialmente distorto dello strumento societario, divergente dalla causa lucrativa tipica del contratto, all’interno della struttura di gruppo; con il rischio – già rilevato da altri in dottrina – che si crei, pur senza alcuna modifica formale della causa del contratto, una (sorta di) azienda speciale, organica all’ente per alcuni fini istituzionali – e evidentemente corrispondenti, agli effetti pratici, ad atti di abusivo esercizio della influenza dominante – e separata per tutti gli altri (Fimmanò; e, sul punto, già Cirenei, 197 s., rilevando come anche il riconoscimento – non più sul piano delle “partecipazioni statali” quanto, invece, dell’esercizio del potere ordinario di gruppo – non consenta di per se di predicare una modifica della causa del contratto di società ai fini della risoluzione dei problemi tra gli interessi in questa protetti e l’interesse pubblico alla partecipazione).

Per il diritto dell’impresa, l’esistenza di precise disposizioni che limitano, per i soggetti pubblici che non sono istituzionalmente votati all’esercizio della direzione e del coordinamento, la responsabilità fa sorgere il pericolo che possa affermarsi in dottrina una corrente di pensiero che neghi, ad instar di quanto espressamente disposto per legge, l’applicabilità degli artt. 2497 ss. c.c. anche nei confronti di enti privati non societari; e tanto nonostante che l’opinione prevalente della dottrina sottolinei, allo stato, l’indifferenza a tal fine della natura giuridica dell’ente (Ibba, 10 s.; Colombo; B.G.H.).

 

8. (Segue): e la situazione attuale. Perplessità non minori sorgono, inoltre, nella situazione odierna. Oltre a quelli già individuati pro futuro, infatti, vengono in rilievo i seguenti punti, tutti inerenti i rapporti diretti dell’ente pubblico controllante con i soci ed i creditori delle controllate.

 

1) Diritto al risarcimento del danno e retroattività.

Particolarmente preoccupante appare essere, in primo luogo, la prospettiva, già affermata nel corso dei lavori preparatori, della retroattività dell’art. 19, sesto comma. Efficacia temporale, questa, che porrebbe in pericolo il diritto al risarcimento del danno già sorto in favore dei soci di minoranza e dei creditori; e ciò specie con riferimento alle ipotesi – di grave violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria – di etero-destinazione delle risorse a finalità extra-imprenditoriali [e cfr., in particolare, Interrogazione parlamentare 13 ottobre 2009 n. 5 – 01918 (Fluvi e altri), 87, ove accusa, grave, della volontà dello Stato di sottrarsi alle responsabilità eventualmente sorte con riferimento alla vicenda Alitalia, nei confronti dei piccoli azionisti e, a nostro avviso, anche dei creditori (cui le prestazioni pubbliche non sottraggono, secondo la giurisprudenza della S.C. – sistema di diritto scritto e non di equity – la tutela risarcitoria)].

Vero è, comunque, che, forse, in via interpretativa può rimediarsi a tale – aberrante – conclusione, rilevando come, dal punto di vista del diritto al risarcimento dei danni, questo debba ritenersi già acquisito ai soggetti privati e, dunque, insensibile alla sopravvenuta previsione di esonero dalla responsabilità.

 

2) Confronto con altre P.a.

Perplessità suscita, infine, la differenziazione, in punto di (esclusione dalla) applicabilità degli artt. 2497 ss. c.c., tra lo Stato e tutte le altre pubbliche Amministrazioni. Richiamando, invero, la differenza di disciplina esistente sul punto – e rinvio, in merito, alle mie considerazioni sulla natura della norma – risulta inspiegabile perché, mentre per lo Stato il legislatore speciale abbia disposto l’esonero totale dalla responsabilità da direzione e coordinamento, per gli enti pubblici diversi sia stata, invece, prevista esclusivamente una limitazione dell’ambito applicativo di quella disciplina. Situazione, questa, che risulta tanto più contraddittoria ove solo si rifletta sulla circostanza che, legandosi naturalmente la costituzione di società pubbliche alla erogazione di servizi pubblici – come ampiamente testimoniato dalla esperienza della gestione dei servizi pubblici locali da parte degli enti locali: Fimmanò; Montalenti, 17 –, dopo la modifica al Titolo V e nella prospettiva – allo stato ancora oscura – del (futuro) federalismo fiscale si dovrebbe caso mai assistere ad una devolution anche normativa; in una, alla equiparazione, in punto di disciplina, allo Stato degli altri enti.

 

9. Conclusioni. Mi avvio a questo punto – e scusandomi se, anche per l’inesperienza, ho prolungato oltre misura il mio intervento – alla conclusione del discorso.

Mi sembra che l’art. 19, sesto comma, costituisca una nota certamente stonata in un contesto in cui è sempre più frequente la partecipazione – organizzata (quasi) in forma di holding – degli enti pubblici tradizionali. E nota tanto più stonata – insisto – nella misura in cui essa rappresenta l’espressione di una logica – storicamente superata e, come vedremo tra un attimo, di dubbia validità – in cui il trattamento privilegiato viene concesso non con la differenziazione formale del ricorso a mezzi pubblicistici ma, in via diretta, in capo ad un certo soggetto (lo Stato), creando una posizione oggettivamente differenziata – come avevo già anticipato in precedenza – ma soggettivamente ridondante in un privilegio del tutto contrario alle regole di mercato [Colombo, 1331 s.; Massera, 890; Ibba, 23; nel diritto comparato, B.G.H.; Interrogazione parlamentare 13 ottobre 2009, n. 5 – 01918, (Fluvi e altri), 2]. In tale valutazione neppure può trascurarsi come, ad onta della loro pretesa osservanza [cfr. risposta 14 ottobre 2009 (Sott. Molgora), 91], appaiono, quindi, palesemente contraddette le raccomandazioni in tema di società pubbliche formulate dall’OCSE, secondo le quali la mano pubblica dovrebbe <<riconoscere i diritti di tutti gli azionisti…ed assicurarne l’uguale trattamento>> e, in particolare, proteggere <<le minoranze…da abusi da parte, ovvero nell’interesse, degli azionisti di controllo che agiscano sia direttamente che indirettamente>> assicurando loro <<effettivi mezzi di reazione>> [OCSE, 33].

Occorre, del resto, rilevare che, in ogni caso, tale intervento normativo è, da un canto, incoerente con la stessa natura funzionale assunta dalle società pubbliche, non apparendo necessario né per le c.d. semi-amministrazioni né per le c.d. società di mercato [Lombardi, 943 s.; Clarich; Massera, 894]; e che, dall’altro lato, esso neppure è richiesto nella prospettiva di funzionalizzazione delle società pubbliche ad interessi generali, prevista quale condizione (sottintesa) per la costituzione ed il mantenimento delle c.d. semi-amministrazioni e per le ampie deroghe allora consentite (ancora, Lombardi; Massera, 894; Montalenti, 16).

Credo, quindi, che, in definitiva sia possibile formulare le seguenti conclusioni:

1) allo stato, ravviso nella disposizione evidenti motivi di illegittimità costituzionale con riguardo all’art. 3 Cost., sul concorrente rilievo che l’attività di direzione e coordinamento può ben attingere, anche quando svolta da un ente pubblico, i caratteri di una attività di impresa, non differenziabile da quella di qualsiasi altro imprenditore privato che svolga l’attività di una holding, e che, con questa disposizione, si crea, in ogni caso, una arbitraria discriminazione dello Stato e degli altri enti pubblici, quando esercitano attività di direzione e coordinamento, rispetto a qualsiasi altro operatore economico che svolga identica attività, anche non imprenditoriale, ed in danno degli azionisti di minoranza e dei creditori sociali delle controllate privati della tutela risarcitoria normalmente accordata dall’art. 2497 (per indicazioni in tal senso, Colombo, 1332; ancora, Ibba, 23; B.G.H.; e, nel medesimo senso, Cirenei, 194, nt. 158).

2) nella situazione data è, altresì, seriamente prospettabile l’illegittimità comunitaria dell’art. 19, sesto comma, a motivo della sua riconduzione nel novero – eterogeno e complesso – dei c.d. “Aiuti di Stato” vietati (cfr. Loria; più deciso, Massera, 894, nt. 19, pur se con riferimento alle sole società c.d. miste) e, inoltre, per la violazione dei principi comunitari che esigono, anche per le società pubbliche, l’osservanza delle regole fondamentali del Trattato in tema di concorrenza e non ammettono disposizioni di favore neppure per lo statuto dell’impresa societaria pubblica (in argomento, i rilievi di Chiti, 1120).

3) la sopravvivenza della disposizione è possibile, quindi, solo a prezzo di una attenta revisione, che tenga conto anche dei profili critici ora evidenziati, della stessa e del suo (notevole) impatto sistematico. E si pensi, ad esempio, ad una modifica che preveda, ferma restando la facoltà della mano pubblica di perseguire interessi pubblici con strutture societarie, una riduzione della portata dell’art. 2497, primo comma, c.c. alla sola corresponsione del pagamento compensativo del pregiudizio così arrecato ai soci di minoranza ed ai creditori delle società partecipate (ex art. 2497, primo comma, ultima parte, c.c.; sul punto, già Cirenei). (*)

 

*Testo della relazione tenuta al convegno “Le società a partecipazione pubblica. Cambiare tutto per non cambiare niente ?” svoltosi a Bari il 16 e 17 aprile 2010 ed organizzato dalla Corte dei Conti, dalla Facoltà di Economia e dall’Ordine degli Avvocati di Bari. Il testo è aggiornato al 30 aprile 2010.

1Ma si tratta di un falso problema: così, ad esempio, nella esperienza francese la tesi sulla generale applicabilità anche nei confronti degli enti pubblici della action en complement du passif – e v. infra, § 3 – viene accompagnata, a livello normativo, dalla previsione di una particolare procedura per il pagamento (e cfr. Dufau, 244).

2Tale orientamento non deve, peraltro, ritenersi estraneo o sconosciuto al nostro diritto delle società. Costituisce, al proposito, rilievo corrente in dottrina – ed autorevolmente confermato anche dalla Rel. Min. al c.c., n. 998 – quello secondo il quale l’estrema laconicità della disciplina codicistica in materia di società pubbliche <<denota…[il] preciso intento degli artefici del codice civile…di assoggettare la società in mano pubblica, salvo quanto disposto dalle norme ora citate, alla medesima disciplina applicabile alla società in mano privata>> (così, Galgano, 449)

3Oltre che in tema di finanziamenti infragruppo ex art. 2497 quinuies: sul punto cfr. Corte dei Conti, Rassegna dell’attività consultiva delle Sezioni regionali di controllo – Anno 2009 / I° semestre, disponibile on line sul sito www.corteconti.it, pp. 45, 53 e 79 s.; Corte dei Conti / contr., 8 maggio 2009, n. 40/2009, disponibile on line sul sito www.corteconti.it, pp. 7 ss.; Corte dei Conti / contr., 29 giugno 2009, n. 385/2009, disponibile on line sul sito www.corteconti.it, pp. 9 e 13; nonché Corte dei Conti / contr., 4 febbraio 2010, n. 86/2010, disponibile on line sul sito www.corteconti.it, pp. 9 s.

*Testo della relazione tenuta al convegno “Le società a partecipazione pubblica. Cambiare tutto per non cambiare niente ?” svoltosi a Bari il 16 e 17 aprile 2010 ed organizzato dalla Corte dei Conti, dalla Facoltà di Economia e dall’Ordine degli Avvocati di Bari. Il testo è aggiornato al 30 aprile 2010.

Patriarca Camillo

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