La responsabilità civile del medico libero professionista e dipendente

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Le obbligazioni inerenti l’esercizio della professione sanitaria sono di comportamento e non di risultato, nel senso che il professionista assumendo l’incarico si impegna a prestare la propria opera intellettuale e scientifica per raggiungere il risultato sperato, ma non per conseguirlo. In conseguenza l’inadempimento del sanitario è costituito non già dall’esito sfortunato della terapia e dal mancato conseguimento della guarigione del paziente, ma dalla violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale.

La responsabilità civile del medico ricorre quando vengono lesi la vita o l’integrità psico-fisica di un soggetto. In termini generali, la norma, di riferimento per determinare la responsabilità del medico è l’art. 1218 e ss. c.c., con i temperamenti offerti dall’art. 2236 c.c. L’obbligazione del medico può derivare da un contratto d’opera intellettuale, da un contratto di lavoro subordinato, oppure, può avere origine non contrattuale. Il paziente che ritiene di aver subito un danno a causa di una condotta illecita del medico può agire per il risarcimento del danno, sia contrattuale sia extracontrattuale.

Ma qual è la natura del rapporto giuridico che si instaura tra il medico e il paziente?

 

Rapporto tra medico libero professionista e paziente

Sovente il rapporto sanitario si instaura tra il paziente e il medico libero professionista, ossia un soggetto che esercita la propria attività medica privatamente, senza servirsi di strutture pubbliche o private. La dottrina e la giurisprudenza concordano nel ritenere che il rapporto che si instaura in questo caso è di natura contrattuale. Quanto alla natura della responsabilità professionale del medico, osserva la Corte di Cassazione che, contrariamente a quanto avviene negli ordinamenti dell’area di Common law, ove persiste la tendenza a radicare la detta responsabilità nell’ambito della responsabilità aquiliana (torts), nei paesi dell’area romanistica, come nel nostro ordinamento, si inquadra detta responsabilità nell’ambito contrattuale (Cass. civ., 22 gennaio 1999, n. 589, in Danno e Resp., 1999, n. 3, 294 e ss.).

Il medico libero professionista nell’esercizio della propria attività può servirsi delle attrezzature e dei servizi di strutture sanitarie pubbliche, senza per questo che sussista un rapporto di lavoro dipendente con la struttura pubblica. In tali casi il chirurgo risponde dell’operato del personale di supporto messogli a disposizione dalla struttura sanitaria dalla quale il medico non dipende e la casa di cura è responsabile nei confronti del paziente per l’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal chirurgo, pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato che la leghi al primo.

I giudici di legittimità, sulla base di tale principio, hanno affermato la responsabilità solidale tra chirurgo e società titolare della casa di cura, fornitrice delle sole attrezzature e dei servizi occorrenti per l’intervento chirurgico, nella cui struttura era stato praticato un intervento operatorio di liposuzione agli arti inferiori di una paziente, poi colpita da infezione (Cass. civ., 14 giugno 2007, n. 13953).

 

Rapporto tra il medico dipendente di struttura sanitaria e paziente

La definizione del rapporto che sorge tra medico dipendente ospedaliero e paziente per molto tempo è stata oggetto di ampie discussioni in ambito dottrinario e giurisprudenziale. In particolare si è passati da un sistema “a doppio binario” (nel quale cioè alla responsabilità della struttura sanitaria si riconosceva origine contrattuale, mentre a quella del professionista si attribuiva natura aquiliana), ad un sistema che, al contrario, si caratterizza per l’affermazione della natura contrattuale sia della responsabilità della casa di cura (pubblica o privata) sia di quella del professionista.

La riforma Balduzzi (legge 189/2012) intervenendo in modo non chiaro a regolamentare la disciplina della responsabilità medica ha riaperto la discussione che sembrava in larga parte ormai essere stata risolta. La dottrina e la giurisprudenza più risalenti tendevano a ricomprendere la responsabilità del medico nell’ambito extracontrattuale, ritenendo che quest’ultimo fosse terzo rispetto al rapporto contrattuale instauratosi tra paziente ed ente ospedaliero con l’accettazione all’interno della struttura. Anche parte della giurisprudenza (Cass. civ., 8 marzo 1979, n. 1716; Cass. civ., 21 dicembre 1978, n. 6141; Cass. civ., 26 marzo 1990, n. 2428; Cass. civ., 13 marzo 1998, n. 2750) ha sostenuto tale tesi affermando che l’accettazione del paziente nell’ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d’opera professionale tra il paziente e l’ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del malato, l’obbligazione di compiere l’attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione patologica del paziente preso in cura. Poiché a questo rapporto contrattuale non partecipa il medico dipendente, che provvede allo svolgimento dell’attività diagnostica o terapeutica, quale organo dell’ente ospedaliero, la responsabilità del predetto sanitario verso il paziente per danno cagionato da un suo danno diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale, con la conseguenza che il diritto al risarcimento del danno spettante al paziente si prescrive in cinque anni.

 

La tesi dottrinaria che, seppur attraverso diversi riferimenti normativi, ha affermato la natura contrattuale di tipo professionale della responsabilità dell’ente ospedaliero, gestore di un servizio pubblico sanitario, e del medico suo dipendente per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica, ha trovato seguito nella giurisprudenza (Cass. civ., 1 marzo 1988, n. 2144; Cass. civ., 11 aprile 1995, n. 4152; Cass. civ., 27 maggio 1993, n. 5939; Cass. civ., 1 gennaio 1991, n. 977).

L’indirizzo in esame osserva che in questo caso si costituisce un rapporto giuridico tra i due soggetti, strutturato da un diritto soggettivo e da un correlato dovere di prestazione, per cui la responsabilità dell’ente pubblico verso il privato per il danno a questo causato per la non diligente esecuzione della prestazione non è extracontrattuale, essendo configurabile questo tipo di responsabilità solo quando non preesista tra il danneggiante ed il danneggiato un rapporto giuridico nel cui ambito venga svolto dal primo l’attività causativa del danno.

Pertanto nel servizio sanitario l’attività svolta dall’ente gestore a mezzo dei suoi dipendenti è di tipo professionale medico, similare all’attività svolta nell’esecuzione dell’obbligazione privatistica di prestazione, dal medico che abbia concluso con il paziente un contratto d’opera professionale. La responsabilità dell’ente gestore del servizio è diretta, essendo riferibile all’ente, per il principio dell’immedesimazione organica, l’operato del medico dipendente inserito nell’organizzazione del servizio, che con il suo operato, nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria, ha causato danni al privato che ha richiesto ed usufruito del servizio.

Il predetto orientamento, quando passa a valutare la natura della responsabilità del medico, osserva che, per l’art. 28 Cost., accanto alla responsabilità dell’ente esiste la responsabilità del medico dipendente. Tali responsabilità hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell’ambito dell’organizzazione sanitaria. Pertanto, stante questa comune radice, la responsabilità del medico dipendente è, come quella dell’ente pubblico, di tipo professionale e vanno applicate anche ad essa, analogicamente, le norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto d’opera professionale.

 

La stessa considerazione dell’unicità della “radice” è stata alla base dei tentativi di soluzione proposti da quella parte della dottrina che sostiene la natura contrattuale della responsabilità del medico pubblico dipendente. Si è, infatti, osservato da alcuni che la responsabilità del medico conseguirebbe all’applicazione della normativa relativa al contratto in favore di terzo, in quanto l’ente gestore del servizio sanitario – nel momento in cui si assicura la prestazione professionale del medico – stabilisce anche che il beneficiario di detta prestazione sia il paziente che successivamente richiederà la prestazione sanitaria.

 

La terza tesi c.d. intermedia considera sussistere nello stesso rapporto giuridico tra medico dipendente e paziente sia la natura contrattuale che extracontrattuale. Ne consegue che in caso di danno il paziente potrà, alternativamente o cumulativamente, esercitare l’azione contrattuale e/o aquiliana. Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, inoltre, possono concorrere tra loro, quando l’inadempimento sia lesivo anche di interessi del creditore tutelati nella vita di relazione. Il principio è stato affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione già con la sentenza n. 4441 del 14 maggio 1987 (c.d. sentenza Rotili) nella quale i giudici di legittimità dichiaravano che la configurabilità del concorso dell’azione extracontrattuale e di quella contrattuale – quando si tratti del medesimo fatto che violi contemporaneamente sia diritti che spettano alla persona in base al precetto del neminem laedere sia diritti che scaturiscano da un contratto o comunque da un particolare vincolo giuridico – costituisce ormai un affermato principio della giurisprudenza di questa Suprema Corte che ne ha tratto le relative conseguenze giuridiche.

 

Il concorso tra le due forme di responsabilità configura, secondo una parte della dottrina, un’ipotesi di concorso di norme, la cui applicazione è rimessa all’interessato; secondo altra parte della dottrina, in una forma di concorso di azioni. Nel primo caso, attraverso l’esercizio dell’azione, è il danneggiato che decide di far valere l’una o l’altra forma di responsabilità ed il giudice applicherà l’una o l’altra, attenendosi alla domanda di parte, naturalmente dopo avere identificato il tipo di azione esercitata sulla base del fatto posto a fondamento della domanda. Lo stesso risultato si consegue quando si parla di concorso di azioni, perché anche in questo caso è la parte che orienta la decisione del giudice nell’un senso o nell’altro. Solo quando l’attore chieda il risarcimento del danno sofferto, adducendo entrambi i fatti, appartiene al giudice la scelta del tipo di azione esercitata. Il giudice, a sua volta, non può scegliere l’azione più conveniente per l’una o per l’altra parte, anche se una scelta deve fare per non lasciare le parti prive di tutela.

 

Su tale ipotesi di concorso tra le forme di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale la giurisprudenza ha più volte affermato che è il danneggiato che decide di far valere l’una o l’altra ed il giudice applicherà l’una o l’altra (attenendosi alla domanda di parte) dopo avere identificato il tipo di azione esercitata sulla base del fatto posto a fondamento della domanda. Solo quando l’attore chieda il risarcimento del danno sofferto, adducendo entrambi i fatti, la scelta del tipo di azione esercitata appartiene al giudice, il quale non può scegliere quella più conveniente per l’una o l’altra parte, ma deve individuare (motivando in maniera congrua e logica sul punto) l’azione che, in base al fatto esposto, deve ritenersi in concreto sperimentata e da questa far derivare il termine prescrizionale (ordinario o speciale) eventualmente applicabile (Cass. civ., 29 settembre 2004, n. 19560, in Danno e Resp., 2005, 2, 213).

Pascale Gianluca

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