La recente pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunita’ europee non elimina i dubbi di compatibilità dell’Irap con la normativa comunitaria

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Dopo circa sette mesi dalla presentazione delle conclusioni dell’Avvocato generale Christine Stix – Hackl, la Corte di Giustizia si è pronunciata sulla questione oggetto della domanda di pronuncia pregiudiziale avanzata dalla Commissione tributaria provinciale di Cremona nel corso del contenzioso in essere tra la Banca popolare di Cremona e l’Agenzia dell’Entrate, riguardante la compatibilità dell’IRAP rispetto all’art. 33 della sesta direttiva CEE.

In particolare, ribaltando completamente i pronostici della vigilia, e confutando le tesi sostenute nelle conclusioni presentate dall’Avv. generale Jacobs, prima, e dall’Avv. generale Stix – Hackl[1], poi, la Grande Sezione della Corte, con la sentenza del 3 ottobre 2006, ha stabilito che “l’art. 33 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari […], come modificata dalla direttiva del Consiglio 16 dicembre 1991, n. 91/680/CEE, deve essere interpretato nel senso che esso non osta al mantenimento di un prelievo fiscale avente le caratteristiche dell’imposta di cui si discute nella causa principale.”[2]

Si ricorda che, nelle conclusioni presentate il 14 marzo 2006, l’Avvocato generale aveva ritenuto che un’imposta con le caratteristiche dell’IRAP, come descritte nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale, la quale: a) è riscossa su tutte le persone fisiche e giuridiche che esercitano abitualmente un’attività diretta alla produzione o allo scambio di beni o alla prestazione di servizi; b) colpisce la differenza tra i ricavi e i costi dell’attività tassabile; c) è applicata in ordine a ciascuna fase del processo di produzione e di distribuzione corrispondente ad una cessione o ad una serie di cessioni di beni o servizi effettuata da un soggetto passivo; d) impone, in ciascuna di tali fasi, un onere che è globalmente proporzionale al prezzo al quale i beni o i servizi sono ceduti, ricade nell’ambito del divieto di cui alla disposizione comunitaria citata, purché, per un campione rappresentativo di imprese assoggettate ad entrambe le imposte, il rapporto tra gli importi pagati a titolo d’IVA e gli importi pagati a titolo dell’imposta in questione risulti sostanzialmente costante[3].

In merito a quest’ultimo punto l’Avvocato generale aveva sostenuto che le differenti modalità di determinazione del valore aggiunto e, pertanto, la sua diversa quantificazione ai fini dell’applicabilità delle imposte considerate, non dovrebbero incidere sulla valutazione di compatibilità o meno dell’IRAP rispetto al sistema comune di IVA. Infatti, nelle ipotesi in cui il volume d’affari considerato ai fini IVA sia diverso da quello assoggettabile ad IRAP, e tale differenza rimanga costante, anche il rapporto tra le somme versate a titolo della prima imposta e quelle pagate a titolo della seconda risulterebbe invariabile. Ciò si traduce nella sussistenza di un parallelismo tra le due imposte, da cui si dovrebbe desumere “che vi è somiglianza sostanziale tra le due nozioni di valore aggiunto, poiché lo stesso effetto si potrebbe raggiungere adeguando le aliquote d’imposta piuttosto che la definizione della base imponibile.”[4]

Secondo la giurisprudenza della Corte, ribadita nella pronuncia in esame, le caratteristiche essenziali dell’IVA sono quattro: a) si applica in modo generale alle operazioni aventi ad oggetto beni e servizi; b) è proporzionale al prezzo percepito dal soggetto passivo quale contropartita dei beni e servizi forniti; c) viene riscossa in ciascuna fase del procedimento di produzione e di distribuzione; d) gli importi pagati in occasione delle precedenti fasi del processo sono detratti dall’imposta dovuta, cosicchè il tributo si applica, in ciascuna fase, solo al valore aggiunto della fase stessa, incidendo sostanzialmente sul consumatore finale. Quindi, l’imposizione di un tributo diverso dall’IVA che presenti le suddette caratteristiche dovrebbe ritenersi in contrasto con la disposizione comunitaria citata.

Ebbene, nel merito, la Corte ha osservato che l’IRAP è applicata sul valore netto della produzione dell’impresa nel corso di un certo periodo, risultante dalla differenza tra il valore e i costi della produzione, nei quali sono compresi elementi che non avrebbero alcun rapporto diretto con le forniture di beni o di servizi, come, ad esempio, le variazioni delle rimanenze, gli ammortamenti e le svalutazioni. Pertanto, si deve concludere nel senso che l’IRAP non può essere considerata proporzionale al prezzo dei beni forniti o dei servizi prestati.

Inoltre, la Corte ha evidenziato che l’imposta in esame non è neutrale nei confronti dei soggetti passivi che intervengono nelle diverse fasi della produzione o della distribuzione e, di conseguenza, l’onere di tale tributo non grava unicamente sul consumatore finale.

A tali conclusioni si deve replicare che l’inesistenza per l’IRAP di un meccanismo di deduzione “a cascata” (come per l’IVA), non esclude che il peso di tale imposta possa essere neutrale per i soggetti economici e gravare, invece, sul consumatore finale.

Infatti, l’importo dell’IRAP, calcolato sul valore aggiunto che l’imprenditore spera di conseguire, può essere incluso nel prezzo dei beni o dei servizi offerti.

In particolare, costui, determinato il costo del bene prodotto, comprensivo anche dell’IRAP applicata dai precedenti operatori economici e inclusa nel prezzo di acquisto dei diversi fattori produttivi, potrà individuare, sulla base dell’entità del profitto che intende conseguire, il valore aggiunto per singolo bene (rectius valore della produzione netta per singolo bene)[5] e, conseguentemente, calcolare l’imposta da includere nel prezzo di vendita del bene suddetto.

Quanto sopra consentirebbe di affermare che anche per l’IRAP l’imposta viene calcolata per ogni cessione di beni o prestazione di servizi e, cioè, in ogni fase del processo produttivo.

Ovviamente, affinchè si possa parlare di neutralità dell’imposizione, il valore aggiunto calcolato dall’imprenditore sul singolo bene o servizio non deve essere intaccato dal carico fiscale dell’IRAP.

A tal fine è necessario individuare quell’entità (valore aggiunto lordo) che, diminuita dell’IRAP su di essa calcolata, ci permetta di risalire al valore aggiunto netto che l’imprenditore intende conseguire, senza modificarne la consistenza. In altri termini, tale entità deve essere in grado di contenere l’imposta su di essa calcolata e il valore aggiunto netto.

Diversamente, quest’ultimo verrebbe eroso; infatti, se per assurdo il valore aggiunto netto fosse pari a € 50,00 e l’IRAP al 2%, applicando tale aliquota al primo si otterrebbe che l’importo dell’imposta è pari a € 1,00. Sommando tale imposta a € 50,00 si avrebbe un valore da aggiungere al costo del prodotto pari a € 51,00, che moltiplicato per la percentuale IRAP darebbe un’imposta da versare pari a € 1,02. In questo caso è evidente che il valore aggiunto netto verrebbe eroso di € 0,02, e cioè (€ 51,00 – € 1,02 = € 49,98).

Al contrario, si dovrebbe utilizzare la seguente formula:

Va = (Va + xVa) – t (Va + xVa)

Dove Va sta per valore aggiunto netto; x per la percentuale da applicare al valore aggiunto netto che ci permette di ottenere l’importo di IRAP calcolata su un’entità corrispondente alla somma tra la suddetta imposta e il valore aggiunto netto (Va lordo); t = aliquota IRAP.

Per fare un esempio:

se t = 2%

e Va = 50

Quale sarà il valore aggiunto lordo su cui calcolare l’IRAP da versare, senza intaccare le aspettative di guadagno dell’operatore economico?  

50 = (50 + x50) – 2%(50 + x50)
laddove (50 + x50) = y     e, pertanto valore aggiunto lordo = y
50 = y – 2%y
50 = y – 0,02y 
50 = y (1 – 0,02)
50 = y (0,98)
y = 50 / 0,98
y = 51,02
Pertanto, se y = (50 + 50x)
51,02 = 50 + x50
51,02 – 50 = x50
1,02 = x50
x = 1,02 / 50
x = 0,0204 e, cioè, 2,04%

In questo caso, applicando la percentuale su indicata al valore aggiunto netto si ottiene l’importo dell’IRAP che risulterebbe dall’applicazione dell’aliquota d’imposta sull’ammontare del valore aggiunto lordo.

Infatti:

€ 50,00 x 2,04% = € 1,02 che sommato al valore aggiunto netto ( € 50,00) dà un importo pari a € 51,02 (valore aggiunto lordo), che moltiplicato per l’aliquota di imposta t = 2%, dà € 1,02. Detraendo tale imposta dall’importo da aggiungere al costo del bene, e cioè € 51,02, non si intaccherebbe in alcun modo il valore aggiunto netto pari a € 50,00.

Nell’ipotesi in cui il bene non venga acquistato dal consumatore finale, il peso dell’IRAP addebitata dal cedente potrebbe comunque essere neutralizzata dall’operatore economico che interviene nella fase successiva della produzione o della commercializzazione.

Infatti, partendo dall’esempio su riportato, se il costo di acquisto fosse di € 151,02 (equivalente al prezzo al quale il cedente ha alienato il bene o il servizio, comprensivo dei costi di produzione – supposto che siano pari a € 100,00 – , del valore aggiunto netto e dell’IRAP da lui addebitata), l’aliquota IRAP t = 2% e il Va netto = 20, si otterrà che:

20 = (20 + x20) – 2% (20 + x20)
laddove (20 + x20) = y    e, pertanto, valore aggiunto lordo = y

20 = y – 2%y

20 = y – 0,02y

20 = y (1 – 0,02)

20 = y (0,98)

y = 20 / 0,98
y = 20,408
Pertanto, se y = (20 + x20)
20,408 = 20 + x20
20,408 – 20 = x20
0.408 = x20
x = 0,408 / 20
x = 0,0204 e, cioè, 2,04%.

In questo caso il Va lordo ammonta a € 20,408, l’IRAP è pari a € 0,408 (Va lordo € 20,408 x 2%) e il Va netto è di € 20,00.

Sommando il valore aggiunto lordo al costo di acquisto incrementato degli altri costi della produzione, si otterrà il prezzo del bene. Supponendo che gli altri costi della produzione siano pari a € 10,00, il prezzo di vendita sarebbe pari a € 181,428 (costo di acquisto € 151,02 + altri costi della prod. € 10,00 + Va lordo, comprensivo dell’IRAP addebitata, € 20,408).

Tale meccanismo, quindi, permette di determinare l’onere di IRAP da aggiungere al prezzo di ciascun prodotto, senza intaccare in alcun modo il valore aggiunto di cui beneficiano gli operatori economici.

Inoltre, attraverso questo meccanismo l’onere relativo all’IRAP inciderebbe sul consumatore finale[6] e diverrebbe neutrale per i diversi operatori economici, i quali andrebbero a versare l’imposta che viene loro corrisposta da un altro soggetto economico o dal consumatore finale attraverso il pagamento del prezzo di vendita[7].

Si deve chiarire che il meccanismo di detrazione dell’IVA previsto dall’art. 17, n. 2 della sesta direttiva[8], che autorizza i soggetti passivi a detrarre dall’imposta da essi dovuta quella già pagata sugli acquisti di beni, fa sì che l’imposta citata vada a colpire esclusivamente il valore aggiunto. Allo stesso modo, utilizzando il meccanismo precedentemente esposto, l’IRAP che il soggetto passivo deve versare all’erario consisterebbe esclusivamente di quella calcolata sul valore aggiunto.

Pertanto, alla luce delle considerazioni svolte, ritengo che la questione della compatibilità dell’imposta in questione rispetto alla disposizione contenuta nell’art. 33 della sesta direttiva CEE, non sia stata brillantemente risolta dalla pronuncia de qua; le argomentazioni poste dalla Corte a sostegno della legittimità dell’imposta in esame, superficiali e poco convincenti, prestano il fianco a diverse obiezioni, in particolare, per ciò che attiene alla mancata considerazione, nonostante la citazione riportata al punto 19, della ratio ispiratrice delle disposizioni comunitarie in tema di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri in materia di imposte sulla cifra d’affari, che va individuata nella “creazione di un mercato comune nel quale vi sia una concorrenza non alterata e che abbia caratteristiche analoghe a quelle di un mercato interno, eliminando le differenze di oneri fiscali che possono alterare la concorrenza ed ostacolare gli scambi.”[9]

Ora, che tutti gli operatori economici pongano in essere una scientifica attività di redistribuzione dell’onere fiscale dovuto all’IRAP sulle singole operazioni da loro effettuate utilizzando il meccanismo precedentemente illustrato appare francamente eccessivo, ma il fatto che alcuni o molti di essi possono neutralizzare il carico impositivo ponendolo in capo ai consumatori finali[10], avrebbe dovuto indurre la Corte ad una più attenta valutazione circa la legittimità di tale imposta rispetto al sistema comune di IVA.

 

                                                                       Dott. Massimo Sperduti

                                                                       Rag. commercialista
                                                                       Revisore Contabile
                                                                       massimo.sperduti@studenti.unicam.it


[1] Con riferimento alle conclusioni dell’Avv. Stix – Hackl, si veda Sperduti Massimo, “Illegittimita’ Irap. Rimborso «a tempo»”, in Diritto & Diritti – Rivista giuridica elettronica, pubblicata su Internet all’indirizzo https://www.diritto.it, ISSN 1127-8579, Aprile 2006, pag. https://www.diritto.it/materiali/tributario.

[2] Al riguardo si veda il testo integrale della sentenza pubblicato sul sito della Corte di Giustizia UE, all’indirizzo http://curia.europa.eu/jurisp/cgi-bin/form.pl?lang=it.

[3] Tutte le citazioni e i riferimenti eseguiti nel corso della presente trattazione alle conclusioni degli Avvocati generali presso la Corte di Giustizia UE, Christine Stix – Hackl e F. G. Jacobs sono state tratte dai testi integrali delle predette conclusioni, riportati sul sito della Corte, all’indirizzo http://curia.europa.eu/jurisp/cgi-bin/form.pl?lang=it.

[4] Si rinvia alla nota precedente.

[5] Nonostante le differenze stabilite dalle disposizioni fiscali per la sua determinazione ai fini IRAP ed ai fini IVA, sempre di valore aggiunto si tratta.

[6] A tal proposito si ricorda che la sussistenza di uno specifico obbligo normativo di trasferire l’imposta al consumatore finale non costituisce requisito necessario per giungere ad un giudizio di illegittimità di un’imposta nazionale rispetto alle disposizioni comunitarie in materia. Si veda la Sentenza della Quinta Sezione della Corte del 26 giugno 1997, cause riunite C-370/95, C-371/95 e C-372/95, riportata nella raccolta della giurisprudenza CE, 1997, p. I-03721, secondo cui “[…] l’art. 33 della sesta direttiva dev’essere interpretato nel senso che, affinché un tributo abbia il carattere d’imposta sulla cifra di affari, non è necessario che la normativa nazionale ad esso applicabile preveda espressamente la possibilità di trasferirlo al consumatore.”

[7] Al riguardo si rammenta che l’esposizione in fattura dell’imposta applicata, come avviene per l’IVA, non è requisito indispensabile per valutare l’incompatibilità di un tributo rispetto alla previsione contenuta nell’art. 33, n. 1 della sesta direttiva citata. A tal proposito, si veda la Sentenza della Corte di Giustizia del 31 marzo del 1992, causa n. C-200/90, riportata nella raccolta della giurisprudenza CE, 1992, p. I-02217.

[8] Si veda anche l’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

[9] Si rinvia alla nota 2.

[10] In merito, si veda la Sentenza della Corte di Giustizia del 31 marzo del 1992, citata alla nota n. 7, secondo cui “l’art. 33 della sesta direttiva 77/388, che vieta agli Stati membri di introdurre imposte, diritti e tasse aventi il carattere di imposte sulla cifra d’affari, ha lo scopo di evitare che siano istituiti imposte, diritti e tasse che, gravando sulla circolazione dei beni e dei servizi allo stesso modo dell’IVA, comprometterebbero il funzionamento comune di quest’ultima […].”

Dott. Sperduti Massimo

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