La prova scientifica in appello: obbligo di rinnovazione probatoria

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Indice

1. Il principio di completezza dell’istruzione di primo grado

I rapporti che legano il primo e il secondo grado di giudizio nell’impianto processualistico rappresentano il frutto di una disarmonia sistemica, palesata già all’indomani dell’entrata in vigore del codice di procedura penale.
Mettendone in luce i rispettivi tratti salienti, non può non notarsi, prima facie, che il giudizio di prime cure sia sostenuto dal principio del contraddittorio, nonché tendenzialmente uniformato al rispetto dei principi di oralità e immediatezza dal momento che la prova viene a formarsi, in dibattimento, davanti al giudice preposto alla decisione.
Nel giudizio di secondo grado ci troviamo di fronte ad un meccanismo prettamente cartolare in cui, il giudicante, viene reso edotto circa il quadro probatorio, prevalentemente attraverso la disamina (rectius lettura) di quanto emerso e formatosi in primo grado.
Un aspetto problematico che caratterizza il contemporaneo impianto processuale concerne la tipologia “qualitativa” del secondo grado d’appello.
L’attuale struttura del secondo grado di giudizio penale essendo caratterizzata da un’impostazione pressoché cartolare (e, dunque, scritta) non prevede l’assunzione di prove in contraddittorio tra le parti. Beninteso ciò comporta che il giudice debba limitarsi a decidere sulla base del materiale formatosi nel primo “segmento” processuale.
Un sistema così articolato, ha evidenziato sin da subito, profili di criticità: appare evidente come, un processo di appello impostato in tal modo, rappresenti una palese contraddizione non solo rispetto al metodo accusatorio, ma anche con riguardo al rispetto del principio di oralità del processo e del principio di immediatezza.
Al giudice che ha potuto direttamente apprendere e valutare le informazioni nel dibattimento, che si è visivamente confrontato con i testimoni, misurandone le parole, il tono di voce ed il linguaggio dei gesti, si sostituisce una Corte che assume una decisione, potendo ribaltare l’esito del primo grado, in base ad una mera rilettura “delle carte”.
Il rovesciamento di provvedimenti adottati in forza di una verifica espletata in contraddittorio in occasione di un giudizio di prime cure a carattere eminentemente “cartolare” ha prestato il fianco a numerose critiche: ad un primo grado caratterizzato, per sua natura, da oralità e immediatezza come presupposti per rendere il giudice consapevole prima di deliberare e per raggiungere un livello più alto di conoscenza giudiziale[1], fa da contraltare il giudizio di impugnazione basato sulla rilettura degli atti prodotti nel primo giudizio, operazione questa che, fondandosi su un quadro probatorio delineatosi davanti ad altro giudice, di per sé si mostra come meno affidabile.
Da questo punto di vista, il ribaltamento in appello, per un verso rende più evanescente il significato intimo del contraddittorio e affievolisce la sua stessa funzione di limitare il potere punitivo del giudice[2], dall’altro, non persuade la collettività all’accettazione del provvedimento adottato.
È opportuno considerare, inoltre, l’ipotesi in cui il ribaltamento in appello abbia ad oggetto una sentenza di assoluzione.
In siffatta ipotesi, la condanna, all’esito del giudizio di impugnazione, colpisce un imputato che alla luce di quanto previsto dal codice di rito, al quale, per la prima volta vinto nel processo, sarebbe precluso partecipare alla definizione del devolutum e non potrebbe depositare richieste di carattere istruttorio, nonché di regola impossibilitato ad accedere alla formazione in contraddittorio della prova davanti al giudice che decide: in definitiva, un imputato a cui non è consentito impugnare nel merito un provvedimento di condanna emesso in secondo grado.
I problemi testè esposti hanno portato ad annose dispute dottrinali e giurisprudenziali circa la compatibilità costituzionale e sistematica dell’appello del pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento.
Il contesto storico di riferimento è quello di un pensiero riformista che inizia a crescere alla luce delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, in cui inizia a maturale l’idea che, un imputato che venga prosciolto (rectius assolto) in un giudizio che si basa sul contraddittorio e sull’oralità non possa essere, poi, condannato in appello in un giudizio che, invece, si basa sulla “scrittura”.  Ci si chiedeva, infatti, se fosse mai pensabile che, un imputato, prosciolto proprio alla luce del metodo epistemico più attendibile, potesse essere, poi, condannato in appello sulla base della negazione di quegli stessi principi.
La querelle animata portò all’emanazione della l. n. 46 del 2006 (nota come “legge Pecorella”) attraverso la quale vennero introdotti penetranti limiti, al potere del pubblico ministero e all’imputato, per l’ impugnazione delle sentenze di proscioglimento emesse ex art. 443, comma 1, c.p.p., con la precipua ratio di porre fine alle contraddizioni sistemiche dovute alle condanne maturate per la prima volta in appello.
Non mancavano previsioni in grado di fare, del secondo grado, un vero e proprio novum iudicium, ma erano ipotesi eccezionali: una specifica deroga all’inappellabilità era rappresentata dalla proponibilità dell’appello nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive ex art. 603, comma 2, c.p.p. .

2. Le origini della “nuova” ipotesi di rinnovazione: le pronunce della Corte Edu

Il diritto dell’imputato alla riassunzione della prova nel giudizio di secondo grado ha progressivamente trovato cittadinanza nell’impianto processuale italiano, grazie all’attività ermeneutica della Corte Edu.
Dapprima questa ha avuto cura di soffermarsi sul diritto alla rinnovazione del contatto diretto tra giudice e prova che si esprime attraverso l’udienza pubblica anche durante il giudizio di seconde cure.
A tal proposito, imprescindibile è il richiamo alla pronuncia Ekbatani c. Svezia del 1988, con la quale i giudici di Strasburgo sono stati aditi per esprimersi in relazione ad un procedimento nazionale in occasione del quale i giudici nazionali avevano “declinato” la richiesta di fissare l’udienza d’appello all’imputato poi condannato in primo grado. La Corte, in questa sede, ha pronunciato una duplice posizione in merito all’eccepita violazione dell’art. 6, par. 1, C.e.d.u.: muovendo dalla rilevanza del contraddittorio (anche nei giudizi di impugnazione) ha ritenuto incompatibile il rigetto con il principio del giusto processo allorquando, da un lato, nell’ordinamento nazionale, al giudice dell’impugnazione sia attribuito il potere di analizzare il caso in fatto e in diritto e, dall’altro lato, l’oggetto devoluto concretamente alla sua cognizione attenga al giudizio di fatto sulla regiudicanda, nelle forme dell’integrale rivalutazione della responsabilità penale dell’imputato dichiaratosi innocente[3].
Res sic stantibus, i giudici di Strasburgo hanno attribuito all’imputato un diritto difensivo ad ottenere la rinnovazione della prova: se l’oggetto principale sottoposto all’attenzione di un giudice d’appello, preposto a valutare il caso anche in fatto, è costituito dalla complessiva valutazione della responsabilità dell’imputato.
La Corte di Strasburgo ha così enunciato, in diverse occasioni e a più riprese, che un processo in cui il giudice di seconde cure disponga la condanna di un imputato che assolto in primo grado, basando il proprio convincimento sulla sola rilettura del materiale probatorio precedentemente assunto, senza una percezione diretta dello stesso, sia da reputarsi incompatibile con i dettami sanciti dalla stessa, oltre che ai canoni indefettibili affinché un processo possa considerarsi equo e giusto.
Da ciò ne deriva l’obbligo per il giudice nazionale di attenersi ad essi al precipuo fine di scongiurare il rischio che la pronuncia abbia i presupposti per essere impugnata innanzi al giudice sovranazionale.
Da queste preliminari considerazioni si rileva già l’importanza dell’opera ermeneutica della Corte europea dei diritti dell’uomo che, nel tempo, ha dato vita ad un vero e proprio patrimonio giurisprudenziale consistente in un perimetro di regole ben precise all’interno del quale si devono muovere gli stati membri, tenuti a rispettare quanto stabilito e ad eseguire quanto deciso a livello sovra nazionale, evitando di vanificare l’operato della Corte Edu adottando provvedimenti in palese antinomia con i principi della Convenzione stessa, che costituiscono, in tal guisa, un vincolo.
In punto di rinnovazione della prova in secondo grado, per la giurisprudenza italiana, sino a poco tempo addietro, era sufficiente prevedere, in capo al giudice di secondo grado che fosse intenzionato a ribaltare l’esito del primo giudizio, un obbligo motivazionale rafforzato ed analitico in ordine al rifiuto ad assumente nuovamente prove già oggetto di acquisizione in primo grado.
La Corte suprema ammetteva, in particolare, la possibilità per il giudice di secondo grado di ribaltare l’esito assolutorio, richiedendo esclusivamente che l’eventuale riforma della sentenza in senso peggiorativo, qualora la stessa si basasse sulla mera rilettura del materiale probatorio già acquisito in primo grado, poggiasse su “argomenti dirimenti e tali da evidenziare carenze o insufficienze della decisione assolutoria che, deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, nemmeno nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza[4].
La motivazione della sentenza era, secondo la Corte, la modalità attraverso cui verificare la “validità” del ragionamento operato dall’organo giudicante.
L’art. 192 c.p.p., al comma 1, dispone che “il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di cassazione, in plurime pronunce, poggiando le proprie conclusioni sulla presunzione di completezza dell’indagine istruttoria svolta durante il primo grado, aveva ritenuto, in passato, sussistere esclusivamente un onere di natura motivazionale rafforzato, quando il giudice si trovava a disporre la rinnovazione, dovendo in tal caso solo dimostrare la corretta direzionalità del suo potere, il quale deriva dall’acquisita consapevolezza di “non poter decidere allo stato degli atti”.
Tuttavia, recentemente, la Suprema Corte ha iniziato ad adeguarsi ai dettami della Corte europea e, in alcune pronunce, ha previsto un obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello “qualora il giudice intenda operare un diverso apprezzamento di attendibilità della prova orale ritenuta in primo grado non attendibile[5], al fine di evitare una denuncia avanti ai giudici di Strasburgo per violazione dell’art. 6 C.e.d.u.
Il concetto di processo equo (“fair hearing”) non può che essere strettamente connesso al diritto di difesa nella sua massima estrinsecazione anche in sede di secondo grado di giudizio. Il contradditorio dibattimentale non può prescindere dal rispetto del principio dell’oralità ai fini della ricerca della verità giudiziale, salvo che non siano proprio le parti a ritenere di potervi rinunciare, optando per i riti alternativi.
Principio strettamente collegato all’oralità, come si è avuto modo di anticipare, è quello dell’immediatezza, secondo il quale le prove devono essere assunte direttamente dal giudice deputato alla decisione.
La sentenza Dan c. Moldavia[6] può essere certamente considerata la “decisione madre” con cui la Corte di Strasburgo ha affermato che quando il giudice di secondo grado intenda utilizzare una dichiarazione di un testimone in modo difforme da un precedente giudice, per riformare in peius una sentenza assolutoria, debba necessariamente rinnovare l’istruzione dibattimentale poiché in assenza di rinnovazione dell’istruttoria la rivalutazione circa l’attendibilità della prova dichiarativa rischierebbe di risultare arbitraria, pregiudicando il corretto accertamento dei fatti.

Approfondisci l’argomento: Contraddittorio tecnico-scientifico e tutela del diritto di difesa

3. Le sentenze delle Sezioni unite: “Dasgupta” e “Patalano”

Il tema della rinnovazione probatoria in appello è tornato al centro del dibattito italiano, dapprima giurisprudenziale e in seguito anche legislativo, a seguito delle pronunce della Corte europea che hanno riconosciuto la violazione del diritto all’equo processo.
La casistica sovranazionale, dalla quale deriva il principio oggi positivizzato dal comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p., come visto, inerisce ad una fattispecie ben circostanziata: la condanna in appello, in riforma di una sentenza di proscioglimento, pronunciata sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni testimoniali ritenute decisive; un overturning compatibile con i principi convenzionali solo a condizione che il giudice di appello abbia proceduto all’assunzione diretta della prova dichiarativa ritenuta “diversamente attendibile” rispetto al giudice di primo grado.
Il principio trova, quindi, la propria ragion d’essere nel duplice presupposto riguardante la prova dichiarativa: la sua decisività in relazione al ribaltamento della sentenza assolutoria ed il contrasto, tra primo e secondo giudice, in ordine all’attendibilità del dichiarante.
È evidente che la differente valutazione in ordine all’attendibilità della prova dichiarativa decisiva assume un ruolo fondamentale che non può essere svolta mediante una semplice lettura del contenuto delle dichiarazioni come riportate nei verbali delle audizioni.
Questa rigorosa osservazione del dettato convenzionale è stata ricostruita dalle “pronunce guida” delle Sezioni unite che ne hanno sanzionato il recepimento interno, che elaborano il tema della rinnovazione: la sentenza del 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta; la sentenza del 19 gennaio 2017, n. 18620, Patalano.
Il giudice nomofilattico ha manifestato, in tale occasione, il suo orientamento evidenziando la necessità, da quel momento in poi, di avvicinare l’interpretazione della normativa interna ai dettami della Corte di Strasburgo in punto di esegesi del disposto convenzionale di cui all’art. 6, par. 3, lett. d, C.e.d.u. .
In linea di principio con i dettami europei, si sono poste in tal modo, le Sezioni unite, in merito ai principi del contraddittorio, dell’oralità, dell’ immediatezza non mancando di valorizzare, altresì, il principio della motivazione rafforzata e dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Si è affermata anche con queste pronunce, dunque, l’esigenza di assicurare un “contatto diretto” tra giudice di appello e fonte dichiarativa, anche nel caso in cui il giudice di primo grado non abbia avuto alcun contatto con le fonti dichiarative per espressa scelta dello stesso imputato di essere giudicato allo stato degli atti.
Secondo i giudici di legittimità a nulla rileva che gli apporti cognitivi in primo grado fossero derivati solo da atti di indagine o da integrazioni probatorie a norma degli artt. 438, comma 5, e 441, comma 5, c.p.p., posto che ciò che conta, e che di conseguenza fa scattare l’obbligo di rinnovazione, è la differente valutazione operata dal giudice di appello in punto di attendibilità o inattendibilità delle fonti dichiarative decisive rispetto a quella effettuata dal giudice di prime cure.
Il collegio ha affermato che, tale obbligo di rinnovazione, discende prima ancora che da indiscutibili esigenze di interpretazione conforme ai principi della C.e.d.u. così come espressi dalla Corte di Strasburgo, dal criterio generalissimo della regola dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” che ispira la decisione del giudice penale.

4. L’intervento del legislatore: il comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p.

Il principio di derivazione giurisprudenziale su cui ci si è soffermati nei precedenti paragrafi, invalso dapprima nella giurisprudenza della Corte europea e, successivamente, recepito attraverso le pronunce guida delle Sezioni unite della Corte di cassazione, Dasgupta e Patalano, è stato trasposto da parte del legislatore italiano nella disposizione di cui al comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p., introdotto  per effetto dell’art. 1 comma 58, l. n. 103 del 2017 (c.d. “Riforma Orlando”), che ha prescritto l’obbligatorietà della rinnovazione ogni qual volta vi sia stata un’impugnazione da parte del pubblico ministero di una sentenza di proscioglimento in primo grado, fondata su una censura della valutazione della prova dichiarativa operata dal giudice di prime cure.
Tale comma è stato inserito in controtendenza rispetto allo spirito della riforma Orlando (basti pensare al ripristino del concordato sui motivi d’appello ex art. 599 c.p.p. o all’irrigidimento del filtro di ammissibilità attraverso la modifica dell’arti. 581 c.p.p., di segno opposto) che mirava a istituire nuovi strumenti di snellimento procedurale.
L’art. 603 c.p.p. si presentava quale norma foriera di panorami interpretativi diversi nella prassi. Non vi era, perciò, uniformità nello scenario giurisprudenziale.
Prima dell’inserimento del comma 3 bis, infatti, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale relativamente alle prove già acquisite nel giudizio di primo grado, poteva essere disposta su richiesta di parte e soltanto, in base a quanto previsto dal comma 1, qualora il giudice d’appello ritenesse “ di non essere in gradi di decidere allo stato degli atti” ovvero poteva decidere d’ufficio, laddove il giudice ritenesse la rinnovazione “assolutamente necessaria”.
L’art. 603, comma 3, bis c.p.p. dispone che “Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”.
Orbene, stando alle posizioni offerte dalla dottrina[7] e dalla giurisprudenza[8], la nuova norma testè richiamata non attribuisce al giudice di appello l’obbligo di procedere ad una rinnovazione completa dell’attività istruttoria espletata nel giudizio di primo grado, ben potendo quest’ultima riguardare solo la fonte la cui dichiarazione sia oggetto di una specifica censura da parte del pubblico ministero attraverso la richiesta di una nuova valutazione da parte del giudice di appello, operando poi, nel caso in cui a seguito di tale rinnovazione dovesse apparire “assolutamente necessario” lo svolgimento di ulteriore attività̀ istruttoria, la disciplina ordinaria prevista dall’art. 603, comma 3, c.p.p.
È bene evidenziare, infatti, per dovere di precisione, che il legislatore con la nuova formulazione di cui al comma 3 bis non intendeva prevedere a suo carico l’obbligo di rinnovazione integrale dell’attività istruttoria, ma con essa mirava a riconoscergli la possibilità di assumere solo prove dichiarative reputate dal giudice d’appello “decisive” per l’accertamento della responsabilità.
La ratio della nuova norma, perciò, non è quello del “corretto giudizio” tutelato dal metodo di ragionamento, dal vizio di motivazione e dal libero convincimento del giudice bensì quello di garantire la genuinità e la completezza probatoria.

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Il presente testo affronta in modo completo e approfondito la disciplina del processo penale, permettendo uno studio organico e sistematico della materia. L’opera è aggiornata alla L. n. 7 del 2020 di riforma della disciplina delle intercettazioni, al D.L. n. 28 del 2020 in tema di processo penale da remoto, ordinamento penitenziario e tracciamento di contatti e contagi da Covid-19 e alla più recente giurisprudenza costituzionale e di legittimità.   Giorgio SpangherProfessore emerito di procedura penale presso l’Università di Roma “La Sapienza”.Marco ZincaniAvvocato patrocinatore in Cassazione, presidente e fondatore di Formazione Giuridica, scuola d’eccellenza nella preparazione all’esame forense presente su tutto il territorio nazionale. Docente e formatore in venti città italiane, Ph.D., autore di oltre quattrocento contributi diretti alla preparazione dell’Esame di Stato. È l’ideatore del sito wikilaw.it e del gestionale Desiderio, il più evoluto sistema di formazione a distanza per esami e concorsi pubblici. È Autore della collana Esame Forense.

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5. L’ approdo delle Sezioni unite (“Pavan”): il carattere dichiarativo della prova scientifica

A fronte dell’introduzione del comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p., è alla sentenza della Corte di cassazione a Sezioni unite Pavan[9] che si deve il merito di aver fatto luce sul contenuto della novità legislativa introdotta dalla riforma Orlando.
Nella fattispecie, con ordinanza n. 41737 del 2018, era stata rimessa alle Sezioni unite la seguente questione di diritto “se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice di appello avrebbe l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa”.
La risposta dell’autorevole Consesso è stata affermativa. La questione controversa si è posta sulla base di due diversi ed opposti orientamenti:
in base al primo orientamento (che sostiene il superamento del dogma della neutralità della perizia ed è condiviso dagli ermellini nella sentenza in oggetto) il giudice d’appello che intenda riformare la sentenza assolutoria sulla base di una diversa valutazione dei risultati delle indagini tecniche, perizia e consulenza tecnica, debba rinnovare l’istruttoria dibattimentale; secondo un diverso orientamento, la prova scientifica non può essere assimilata alla prova dichiarativa. Pertanto, in questo caso, non si tratterebbe di stabilire l’attendibilità del dichiarante.
La perizia rappresenterebbe, infatti, una prova “neutra” vale a dire non classificabile né a carico né a discarico e, pertanto, sottratta alle strategie dell’accusa e della difesa.
Il giudice, secondo quest’ultima impostazione, potrebbe scegliere, tutt’al più, quale tesi condividere tra quelle prospettate dai diversi periti e consulenti tecnici, restando fermo l’obbligo di motivazione.
Secondo i fautori dell’orientamento, da cui la sentenza Pavan prende le distanze, l’assimilazione dell’esame peritale alla testimonianza non sembrerebbe tenere conto delle differenze di struttura e funzione tra prova scientifica e dichiarativa.
Diversa sarebbe, ad esempio, la finalità: mentre la prova dichiarativa è diretta a riversare nel processo dati percepiti in ambiente extraprocessuale, quella scientifica serve a veicolare elementi di conoscenza non “acquisibili” o “valutabili” con le sole competenze giuridiche.
Anche la procedura di acquisizione della prova è differente in quanto quella dichiarativa si raccoglie attraverso interviste giudiziali (unilaterali o in contraddittorio), mentre quella scientifica si forma attraverso un articolato procedimento a più fasi: conferimento dell’incarico, operazioni peritali, esame del perito e dei consulenti, acquisizione della relazione.
La distinzione tra attività percettiva comune ed attività tecnico-scientifica sarebbe essenziale per inquadrare i contenuti veicolati dal perito entro lo statuto della prova dichiarativa, piuttosto che in quello della prova scientifica: soltanto sui primi, il perito, sarebbe sottoposto alla scansione valutativa tipica della testimonianza che prevede il vaglio dell’attendibilità intrinseca rispetto ai dati che possono essere percepiti da chiunque.
Differente sarebbe il caso in cui, all’esperto, venga attribuito il compito di acquisire dati attraverso specifiche attività che impongono il ricorso a competenze tecniche: il riferimento è a quelle attività che richiedono competenze non comuni, ragion per cui riconducibili all’area peritale non potendosi inquadrare nell’area percettivo-sensoriale, che rappresenta l’antefatto della stessa testimonianza.
Da ultimo, sempre secondo i sostenitori della tesi che difende la natura neutra della perizia, testimone ed esperto sarebbero due figure differenti poiché sottoposti anche a due diverse tipologie di esame: il primo sottoposto al vaglio dell’attendibilità intrinseca, il secondo valutato in base all’autorevolezza acquisita nel settore scientifico di riferimento.
La Corte di Cassazione, con la sentenza Pavan, ha deliberato, con chiarezza inedita, circa la non neutralità della perizia sostenendo che le teorie scientifiche si atteggiano sempre come favorevoli o contrarie all’interesse delle parti, che nessun metodo scientifico, per la sua fallibilità intrinseca può dimostrare la verità di una legge scientifica[10] e, ritenendo consolidata, in sede europea, l’equiparazione della figura peritale con quella del testimone, si è pronunciata sul concetto di prova dichiarativa stabilendo che, in questa, dovesse ricomprendersi anche la perizia.
Quanto sopra esposto è il “terreno” sul quale la sentenza Pavan ha innestato l’abbandono del dibattuto dogma della neutralità della perizia.
Al quesito principale posto con ordinanza di rimessione la Corte ha dato, definitivamente, riscontro precisando che sia la perizia che la testimonianza sono due mezzi di prova i quali, trovano il loro totale compimento nel contraddittorio delle parti, mediante il linguaggio verbale.
Precisamente viene statuito che: “Il dato oggettivo che accomuna i due mezzi di prova è la circostanza che sia il testimone che il perito trasmettono le informazioni di cui sono a conoscenza nel corso del dibattimento davanti ad un giudice, nel contraddittorio delle parti avvalendosi del linguaggio verbale, ossia di quel mezzo di comunicazione che attua e garantisce i principi di oralità ed immediatezza che, come si è detto, sono alla base dell’introduzione del comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p”.
Ebbene, è proprio il linguaggio verbale, come sancito dalla Corte di Strasburgo, a garantire l’attuazione dei principi di immediatezza e oralità, annunciatore dell’introduzione del comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p. .
La suprema Corte si è, perciò, preoccupata di chiarire esaustivamente l’accesa questione, relativa a quel “labile confine” , ormai superato, di quando si configura o meno la c.d. “prova dichiarativa”.
In questa pronuncia la Sezioni unite hanno, pertanto, tracciato le caratteristiche fisiologiche della prova orale, le quali devono ricorrere unitamente: deve trattarsi di una prova avente ad oggetto sia dichiarazioni valutative sia percettive, in quanto una limitazione di queste implicherebbe una riduzione delle garanzie disposte dalle norme della Corte europea dei diritti dell’uomo sul giusto processo e deve essere espletata mediante linguaggio verbale. La prova dev’essere stata, inoltre, posta dal giudice di primo grado a fondamento della questione, vale a dire deve essere stata decisiva ai fini dell’emanazione dell’esito processuale in senso assolutorio e, infine, il giudice d’appello dev’essere intenzionato a valutare la prova in senso inverso rispetto a quello di primo grado.
Ad avviso della giurisprudenza, come già più volte detto nel corso del presente contributo, le prove delle quali si chiede la rinnovazione devono essere decisive, e tanto vale per la testimonianza, quanto per la perizia.
Testualmente viene affermato che “La dichiarazione resa dal perito nel corso del dibattimento costituisce una prova dichiarativa. Di conseguenza, ove risulti decisiva, il giudice di appello ha l’obbligo di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione  sulla base di un diverso apprezzamento di essa”.
Anche per quanto riguarda la figura del consulente tecnico, secondo la Corte, varrebbe quanto evidenziato in relazione al perito. Ove, infatti, la consulenza resa in esame sia stata ritenuta decisiva dal giudice di prime cure, la stessa va considerata quale “prova dichiarativa” e, pertanto, assoggettata agli effetti di cui all’art. 603, comma 3 bis, c.p.p. .
La ragion d’essere del comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p. si ravvisa nell’esigenza di evitare che l’imputato possa essere pregiudicato dalla riforma di una sentenza di assoluzione. Assume, pertanto, valenza decisiva non tanto il contenuto delle dichiarazioni, quanto il fatto che la ripetizione delle stesse costituisca baluardo dei diritti dell’imputato.

6. La prova scientifica cartolare: l’eccezione all’obbligo

La relazione peritale ex art. 227 c.p.p. è autenticata dal perito nel corso del dibattimento, contribuendo a divenire parte fondamentale dell’esame a cui il perito stesso viene poi sottoposto.
Da quanto disposto dall’art. 511, comma 3, c.p.p. , risulta esplicito che il veicolo della prova tecnico-scientifica sia la deposizione del perito in fase di  dibattimento svolgendo, la relazione, un ruolo sussidiario, essendo, il più delle volte, tale deposizione a costituire la reale misura di attendibilità dell’esperto.
Ciò detto, la Corte di cassazione, nella sentenza Pavan, specifica che, qualora sia l’imputato a rinunciare, in primo grado, al pieno espletamento del contraddittorio tra le parti, acconsentendo alla mera lettura della dichiarazione peritale, il giudice del secondo grado non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale.
Tale circostanza può concretarsi qualora ci sia stato un accordo tra le parti in causa sulla base degli artt. 495, comma 4 bis e 511, comma 2, c.p.p. ovvero quando ne sia stata data lettura senza il previo consenso delle parti e queste, non avendone eccepito la nullità, ne abbiano determinato la sanatoria ex art. 183, comma 1, lett. a, c.p.p. .
Non sarebbe doveroso, quindi, procedere alla rinnovazione istruttoria proprio perché il contraddittorio (attuandosi nella sola forma cartolare) non lascerebbe spazio a prove, le cui informazioni, come si è avuto modo di chiarire, sono veicolate nel processo attraverso il linguaggio verbale.
Nella sentenza si legge specificamente che “Ove, nel giudizio di primo grado, della relazione peritale sia stata data la sola lettura senza esame del perito, il giudice di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, condanni l’imputato assolto nel giudizio di primo grado, non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame del perito”.
Quanto appena osservato non esclude la rinnovazione di una perizia, poiché, alla luce degli ulteriori commi di cui all’art. 603 c.p.p., al giudice sarebbe comunque consentita l’introduzione di una prova ex officio, qualora non sia in grado di decidere allo stato degli atti ovvero qualora l’elemento di prova sia emerso a seguito della conclusione del giudizio in primo grado.
Per concludere, pare ormai pacifico che, l’obbligo di rinnovazione dibattimentale è riservato tassativamente alle prove dichiarative. Ne consegue che, la semplice lettura della relazione peritale costituirebbe una mera prova cartolare. In questo caso la regola di cui al comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p. non si applicherebbe difettando la natura dichiarativa della prova che, nascendo su carta, non è veicolata attraverso l’eloquio.

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  1. [1]

    P. Ferrua, Imputato e difensore nel nuovo processo penale, in Studi sul processo penale, vol. II, Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, Giappichelli, 1992.
    [2] R. Orlandi, Trasformazione dello Stato e crisi della giustizia penale, in AA.VV.,  Il tramonto della modernità giuridica. Un percorso interdisciplinare, a cura di M. Vogliotti, Torino, Giappichelli, 2008.
    [3]  Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, 2 6 maggio 1988, Ekbatani c. Svezia, ric. n.10568/83, in www.echr.ketse.com .
    [4] Cass., Sez. VI, 3 novembre 2011, Galante.
    [5] Cass., Sez. VI, 26 febbraio 2013, Caboni.
    [6] Corte eur. dir. uomo, Sez. III, 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, ric. n. 8999/07.
    [7] P. Bronzo, La nuova ipotesi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, in AA. VV., Le recenti riforme in materia penale, a cura di G. M. Baccari – C. Bonzano – K. La Regina – E. M. Mancuso, Padova, Cedam, 2017.
    [8] Cass., Sez. V., 16 aprile 2019, in Cass. pen., 2020.
    [9] Cass., Sez. Un., 28 gennaio 2019, Pavan.
    [10] V. Pazienza, Prova scientifica e sistema delle impugnazioni, in AA.VV., Prova scientifica e processo penale, a cura di G. Canzio – L. Luparia, Padova, Cedam, 2018.

Francesca Carrozzo

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