La privatizzazione dei beni culturali: un primo approccio al problema

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1. Introduzione;

2. Una definizione di “privatizzazione”;

3. Privatizzazione: il dato normativo;

4. La scelta delle forme di gestione.

 

 

1. Negli ultimi anni sono emersi in Italia accesi dibattiti circa la possibilità di “privatizzare” il patrimonio storico-artistico del nostro Paese, ovvero di introdurre forme di gestione dei beni culturali che vedano la partecipazione dei soggetti privati in un settore tradizionalmente pubblico qual è quello dei beni e delle attività culturali. Tante, infatti, e di diverso tenore, sono state le obiezioni che nell’ultimo decennio si sono accompagnate al dibattito su tale tematica. Tali obiezioni hanno fondamentalmente una origine comune nell’idea che le politiche di gestione dei beni culturali (musei, monumenti, aree archeologiche) tendano a collocarsi lungo due modelli opposti: da un lato le politiche che privilegiano la conservazione, lo studio e la ricerca, dall’altro le politiche che puntano sulla fruizione di massa, la divulgazione e la promozione culturale. Le prime concepiscono il museo essenzialmente come un luogo speciale di protezione (il museo-tempio), le seconde lo configurano piuttosto come un ambito di commercializzazione e di comunicazione (il museo-impresa).

Le due cose, però, non sono del tutto separabili.

Occorre, infatti, considerare che l’attività che svolge l’istituzione museale non è semplicisticamente quella di “conservare” un bene culturale, ma è anche e soprattutto quella di rendere tale bene fruibile al popolo, proprio perché è attraverso tale fruizione che si svolge un’attività educativa. Ora, il dato normativo che emerge dalla Costituzione e dal Codice dei beni culturali pone un vincolo alla destinazione del patrimonio culturale di appartenenza pubblica: tale vincolo è la fruizione della collettività. Il combinato disposto degli artt. 2, ultimo comma, e 3, primo comma, del Codice dei Beni Culturali (Decreto Legislativo n. 42 del 2004) fa emergere come la funzione di tutela, costituzionalmente affidata allo Stato (e più in generale al soggetto pubblico, non essendo delegabile a ciò il privato), e che consiste nell’esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette ad individuare i beni culturali, e a garantirne la protezione e la conservazione, abbia come finalità e come vincolo stesso la pubblica fruizione. Proprio la finalità della pubblica fruizione costituisce, tra l’altro, l’elemento adatto a ricondurre ad unità la divisione effettuata tra tutela e valorizzazione con la riforma del Titolo V della Costituzione[1].

L’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., nella riforma attuata con L. cost. n. 3 del 2001, ha compreso la tutela dei beni culturali tra le materie di competenza esclusiva dello Stato, mentre il comma successivo ha annoverato tra le materie di legislazione concorrente la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione di attività culturali. La fruizione collettiva del patrimonio culturale diventa allora elemento da rendere comune sia alla tutela che alla valorizzazione: si individua, si protegge e si conserva il bene affinché possa essere offerto alla conoscenza e al godimento collettivi. Ciò consente di comprendere che l’attività di tutela non può, se vuole raggiungere il suo obiettivo – che è quello della fruibilità collettiva – , scindersi dall’attività di valorizzazione in quanto entrambe complementariamente indirizzate al perseguimento di un unico obiettivo, quello costituzionalmente garantito dello sviluppo della cultura (art. 9, primo comma, Cost.) e della formazione personale e culturale dell’individuo (artt. 2 e 33 Cost.).

Se, dunque, tutela e valorizzazione sono due facce della stessa medaglia e se entrambe sono finalizzate alla fruizione collettiva, perché rifiutare l’idea che oltre al servizio pubblico – svolto per garantire la fruibilità del bene culturale – ci possano essere una serie di servizi, di natura economica (e dunque economicamente produttivi) che possono coesistere con esso e che anzi migliorano la fruibilità stessa del bene da parte del pubblico? Se è vero che non ci si può fermare alla mera conservazione del patrimonio culturale (a che pro conservare i beni culturali se poi non li si mettono a disposizione della collettività e non generano conoscenza e memoria?) occorre incentivare tutti quei servizi che consentono alla collettività di fruire del bene culturale, senza però togliere al soggetto pubblico le risorse per svolgere il suo ruolo fondamentale di “tutore”. Ciò è realizzabile solamente affidandosi alle capacità non solo economiche, ma anche creative, innovative, in una sola parola “imprenditoriali”, dei privati.

 

2. Per evitare di incorrere in falsi ideologismi occorre, dunque, convergere su un concetto unitario, e “giuridicamente realizzabile” di privatizzazione.

Bisogna, anzitutto, partire da un presupposto fondamentale: privatizzazione non significa mera sostituzione di un soggetto pubblico con un soggetto privato; si tratta, invero, di una graduale e differenziata introduzione nell’ambito dei beni culturali di attori, interessi e obiettivi privati, di tipo imprenditoriale e non-profit.

Graduale in quanto non può pretendersi che il privato, sostituendosi al pubblico nell’erogazione di un servizio pubblico, possa da solo “responsabilizzarsi” circa la necessaria sottomissione dei propri interessi alla supremazia dell’interesse pubblico, né può pretendersi da parte dello stesso privato, qualora non agisca per puro mecenatismo, che questi svolga il servizio affidatogli senza cercare di sfruttare “economicamente” la propria attività e i beni su cui tale attività si svolge. È dunque necessario che il processo di privatizzazione (e non potrebbe essere altrimenti nel nostro ordinamento[2]) non consenta la totale esclusione del pubblico ma si identifichi in una partnership solidale in cui al privato venga demandato il compito di intervenire a valorizzare il bene culturale e a gestirlo in funzione della sua valorizzazione (che significa migliore fruizione da parte della cittadinanza) sotto lo stretto controllo e vigilanza da parte del soggetto pubblico che sarà, invece, deputato a garantirne la conservazione.

L’introduzione del privato nell’ambito dei beni culturali non solo deve essere graduale ma necessita anche di essere differenziata, ovvero di adeguarsi alla realtà territoriale. Il territorio dei beni culturali è, infatti, la base dell’intervento privato sui beni culturali. La “strategia della privatizzazione” non può raggiungere risultati efficaci e condivisi se non è opportunamente integrata con progetti di trasformazione e di sviluppo territoriale di iniziativa sia pubblica che privata.

 

3. L’art. 117 della Costituzione, come visto, riserva l’ambito della tutela dei beni culturali, e quindi le funzioni di protezione e conservazione del patrimonio culturale, alla competenza esclusiva dello Stato, demandando invece alle Regioni di dettare la disciplina di dettaglio in materia di valorizzazione[3], nel rispetto dei principi generali stabiliti dalla legislazione nazionale. Quest’ultima, adottata con il decreto legislativo n. 42 del 2004 (il cd. Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), prevede agli artt. 111 e ss. una serie di norme relative alla valorizzazione dei beni culturali che indirizzano e delimitano la successiva legislazione regionale.

Essa, cioè, traccia i confini interni ed esterni dell’esternalizzazione della gestione dei beni culturali.

Ad una prima analisi la valorizzazione risulterebbe l’unica funzione concernente i beni culturali concretamente esternalizzabile all’interno del Codice. Infatti, non tutta la “gestione del bene culturale” è esternalizzabile, ma soltanto la gestione delle attività di valorizzazione. Resterebbero, così, fuori dall’area dell’esternalizzazione sia la tutela che la fruizione, che sono chiamate a svolgere una “funzione di controllo” sull’attività di valorizzazione. La prima in quanto affidataria di un ruolo che il Codice (ma già prima la Costituzione) le assegna come misura di attuazione delle altre funzioni; la seconda in quanto finalità e vincolo al tempo stesso.

Gli artt. 112 e 115 del Codice dei beni culturali, e per la loro collocazione e per i contenuti, si inseriscono proprio nell’area della “valorizzazione”, materia questa che conosce un duplice riparto di competenze legislative: orizzontale (allo Stato la disciplina dei beni di sua appartenenza e disponibilità ex comma 2 degli artt. 102 e 112[4]) e verticale (per gli altri beni riparto fra Stato e Regioni secondo lo schema della legislazione concorrente ex art. 117, comma 3, Cost.). Ciò comporta che gli artt. 112 e 115 del Codice, nel disciplinare in termini generali la “valorizzazione” e la “gestione” dei beni culturali di appartenenza pubblica, pongono una disciplina destinata a valere, allo stesso tempo, integralmente per i beni dello Stato, e limitatamente ai soli principi fondamentali per gli altri beni (essendo il resto di spettanza regionale) [5].

Risulta, dunque, di fondamentale importanza individuare puntualmente i principi fondamentali contenuti nella normativa codicistica al fine di rintracciare i “vincoli” per la legislazione regionale.

Ad un’analisi di sistema, dall’art. 112 del Codice emergerebbero, innanzitutto, tre importanti principi:

1) il principio della cooperazione fra soggetti pubblici e quello dell’accordo come sua traduzione operativa (ex commi 4, 6 e 9). Tali principi, che possono essere declinati anche in forme istituzionalizzate, attraverso la creazione degli appositi soggetti di cui ai commi 5 e 9, si pongono come criteri guida nella progettazione e nello svolgimento delle funzioni e delle attività di valorizzazione dei beni culturali pubblici;

2) il principio della collaborazione fra pubblico e privato nella valorizzazione dei beni culturali pubblici (ex comma 8);

3) il principio della integrazione degli interventi di valorizzazione. Tale principio è da intendersi in un duplice senso: nel senso che tali interventi possono riguardare contestualmente sia beni culturali pubblici che beni culturali privati (ex commi 4 e 8) e nel senso che la politica di valorizzazione deve tendere a saldarsi con altre politiche territoriali, concernenti le infrastrutture ed i settori produttivi (ex comma 4).

Esclusi tali principi, le altre previsioni che riguardano l’organizzazione o l’attività dello Stato (ad es. il comma 7), o quelle disposizioni che si presentano come svolgimento di tali principi (ad es., la qualità non profit delle persone giuridiche private coinvolte ex comma 8) sono da considerarsi normativa di dettaglio (e quindi non vincolante le Regioni con riferimento ai beni di loro pertinenza).

All’interno dell’art. 115 possono, poi, individuarsi ulteriori principi generali della materia:

1) il principio per cui le Regioni (e gli enti locali) possono, nell’ambito della propria autonomia organizzativa, organizzare il servizio culturale sia come servizio “a rilevanza economica” (utilizzando la forma tradizionale della concessione a terzi di cui al comma 3) sia come servizio “privo di rilevanza economica” (secondo la configurazione che l’art. 113 bis del T.u.e.l.[6] proponeva);

2) la possibilità della gestione in forma diretta o indiretta (ex commi 2 e 3), quando il servizio culturale sia organizzato come servizio “privo di rilevanza economica”[7];

3) il principio di autonomia (scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile) della struttura nel caso di gestione in forma diretta (ex comma 2);

4) il principio della procedura ad evidenza pubblica per la scelta del terzo concessionario, nel caso di servizio organizzato “a rilevanza economica” (ex comma 3);

5) il principio per cui, nel caso di servizio “senza rilevanza economica”, il contratto di servizio fra ente e concessionario indichi «i livelli essenziali che devono essere comunque garantiti per la pubblica fruizione del bene» (ex comma 5).

Le relative disposizioni, dunque, possono trovare applicazione anche per i servizi regionali o locali. Viceversa le altre previsioni, in particolare quelle che individuano le forme organizzative in cui si realizzano la gestione diretta e quella indiretta (commi 2 e 3) e i relativi presupposti di utilizzo (comma 4), non sembrano configurarsi come norme-principio perché non risultano connesse a caratteri propri dei beni culturali.

 

4. La scelta delle forme di gestione dei beni e servizi connessi alla sfera culturale non può che avvenire all’interno dei modelli che la normativa in materia oggi consente e sempre e comunque nel rispetto dei principi costituzionali e comunitari.

Considerata la consistenza del patrimonio culturale (soprattutto museale) degli enti locali[8], si impone come necessario un riferimento alle possibilità di scelta tra vari modelli di gestione che il T.u.e.l. e il Codice dei beni culturali consentono a queste amministrazioni[9]. Prima della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 113 bis T.u.e.l. del 2000 ad opera della sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 2004, i profili problematici dei modelli di gestione delle attività di valorizzazione delle autonomie locali investivano anzitutto la compatibilità delle forme di gestione dei servizi culturali con le forme di gestione dei generali servizi pubblici locali. Ciò, di conseguenza, produceva dei dubbi circa l’applicabilità della disciplina codicistica rispetto a quella specificamente prevista per i servizi pubblici locali in genere. Sia la disciplina sui servizi pubblici degli enti locali (d. lgs. n. 267 del 2000) che quella specificamente dettata per i beni culturali (d. lgs. n.  42 del 2004) concorrevano, infatti, nel definire le modalità di gestione dei beni culturali. In particolar modo, mentre il Codice dei beni culturali limitava la disciplina ai soli servizi pubblici delle attività di valorizzazione dei beni culturali, prevedendo conseguenzialmente un regime speciale rispetto alla generalità dei servizi pubblici, nel T.u.e.l. la disciplina dei servizi culturali era inserita all’interno del genus dei servizi pubblici privi di rilevanza economica. Ne conseguiva che rispetto ai due testi normativi, nonostante l’identità dell’oggetto, fosse soltanto la qualitas del soggetto (centrale o locale) titolare del servizio pubblico a differenziare il regime giuridico di quello stesso servizio.

Da ciò derivava, inoltre, che ove i servizi culturali avessero assunto una rilevanza economica, le disposizioni del T.u.e.l. avrebbero prevalso su quelle del Codice, in quanto le norme a tutela della concorrenza, che presiedono le modalità di scelta del gestore del servizio, devono considerarsi inderogabili anche da parte della disciplina speciale codicistica in tema di beni culturali.

Viceversa, ove il servizio culturale avesse assunto rilevanza non economica, la disciplina codicistica avrebbe dovuto considerarsi prevalente su quella del T.u.e.l., dal momento che quest’ultimo faceva salve “le disposizioni previste per i singoli settori”[10].

Con la sentenza della Corte Costituzionale n. 272 del 2004[11], i descritti problemi relativi alla compatibilità tra i modelli di gestione previsti nel T.u.e.l. e quelli del Codice dei beni culturali sembrano dissolversi integralmente, non essendo più le autonomie locali vincolate ai tipi previsti dal legislatore statale. Non si pone più, pertanto, un problema di compatibilità tra la disciplina del d. lgs. 267/00 e la disciplina codicistica, quanto meno tutte le volte in cui il servizio culturale non assuma rilevanza economica. Di conseguenza, le Regioni saranno libere di disciplinare nuovi schemi giuridici per la gestione dei servizi pubblici che non abbiano rilevanza economica, ivi inclusi quelli culturali. Ovviamente, in attesa dell’emanazione della normativa regionale, escludendo la formazione di un “vuoto normativo”, gli enti locali potranno disciplinare l’organizzazione ed il funzionamento dei beni culturali di loro pertinenza mediante l’esercizio della potestà regolamentare, in attuazione dell’art. 117, comma 6, seconda parte, Cost.[12].

Il quadro normativo risulta notevolmente semplificato anche a seguito dell’intervento correttivo ed integrativo delle disposizioni codicistiche attuato con il d. lgs. n. 156 del 2006. Con esso viene meno, in primo luogo, la preclusione contenuta nella previgente formulazione dell’art. 115, comma 6, che escludeva per le autonomie locali diverse (dallo Stato e) dalle Regioni la modalità della concessione a terzi, concependo l’affidamento diretto come modalità ordinaria e la gestione indiretta come scelta residuale[13].

Nel nuovo dettato normativo (solo marginalmente toccato dalla successive modifiche intervenute con il più recente d. lgs n. 62 del 2008) le amministrazioni sono chiamate a scegliere tra due modalità di gestione delle attività di valorizzazione dei bb. cc.: quella diretta e quella indiretta.

Per quanto riguarda la gestione diretta, essa rappresenta poco più di una chimera richiedendo l’esistenza e la capacità di strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di adeguata economia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e provviste di idoneo personale tecnico. In realtà, la novella del 2006 prevede anche la possibilità di attuare la gestione diretta in forma consortile pubblica, aprendo la possibilità di forme associative di gestione che potrebbero rappresentare un adeguato strumento di attuazione di quella gestione diretta individuata al comma 2 dell’art. 115 Codice.

La gestione indiretta si attua tramite «concessione a terzi dell’attività di valorizzazione, anche in forma congiunta e integrata, da parte delle amministrazioni cui i beni pertengono o dei soggetti giuridici costituiti ai sensi dell’art. 112, comma 5» qualora siano conferitari dei beni, mediante procedure di evidenza pubblica, sulla base della valutazione comparativa di specifici progetti[14]. Nel nuovo modello gestionale introdotto nel 2006, dunque, quale alternativa alla gestione diretta per tutti gli enti pubblici viene prefigurata unicamente la concessione a terzi, cui possono ricorrere direttamente l’amministrazione ovvero i diaframmi intermedi rappresentati dai soggetti giuridici costituiti ai sensi dell’art. 112, comma 5, Codice[15].

La scelta tra le due modalità di gestione (diretta o indiretta) dovrà avvenire da parte delle amministrazioni sulla base di valutazioni comparative che tengano conto della sostenibilità economico-finanziaria e dell’efficacia, sulla base di obiettivi preventivamente definiti.

La novità di rilievo sembra, però, un’altra. Il combinato disposto degli artt. 112 e 115 Codice concepisce un sistema gestionale basato su accordi ed incentrato su un ambito territoriale non sempre coincidente con un preciso ente locale, e in ogni caso aperto ad una pluralità di siti culturali per la cui valorizzazione integrata il Codice propone, appunto, accordi tra diversi livelli di governo, centrale e locale. Il sistema delineato da tali articoli specifica e gradua il principio di doverosità della valorizzazione pubblica da parte dello Stato, delle Regioni, città metropolitane, province e comuni, presente nel Codice, sia in forma espressa – art. 1, comma 3 – sia in forma implicita tra i principi fondamentali della legislazione concorrente della Regione – art. 111, comma 3 – .

Ma l’adesione a siffatti accordi presuppone da parte degli enti locali una sorta di “condivisione” delle regole contenute nel Codice (e quindi il rispetto del complesso sistema delineato dagli accennati artt. 112 e 115) e l’abbandono dei più agili modelli gestionali previsti nel T.u.e.l. – ovvero nella normativa che le singole Regioni emaneranno nell’esercizio della propria potestà legislativa esclusiva riconosciuta dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 272 del 2004 – . Nella normativa degli enti locali del 2000 infatti non è prevista alcuna disciplina speciale per la gestione dei servizi culturali, dipendendo la scelta del modello gestorio unicamente dalla rilevanza economica o meno del servizio stesso; le preclusioni soggettive ed oggettive indicate nel combinato degli artt. 112 e 115 del Codice dei beni culturali non sono, infatti, riprodotte pure nel T.u.e.l..

In definitiva, in assenza di disposizioni di legge regionale che disciplinino le relative forme di gestione, l’ente locale potrà configurare il servizio “privo di rilevanza economica” oppure “a rilevanza economica”. Nel primo caso la scelta della forma di gestione potrà cadere tra quelle che sulla base del T.u.e.l. o del codice civile risultano idonee allo svolgimento di un servizio configurato con tale carattere (si pensi in particolare all’istituzione, al consorzio, all’associazione, alla fondazione pura e a quella di partecipazione). Il tutto nel rispetto, ai fini dell’affidamento del servizio, del quadro comunitario e giurisprudenziale interno, che “suggeriscono”, quando si dia luogo alla creazione di organismi misti o si ricorra all’esternalizzazione, un momento di evidenza pubblica.

Nel secondo caso (servizio “a rilevanza economica”) dovrà tenersi conto della connessione sussistente tra l’art. 115 del Codice e l’art. 113 del T.u.e.l.. Se quest’ultimo prevede che un servizio con tale carattere possa essere gestito solo da una società di capitali (a capitale privato, misto o pubblico), individuata in base a procedura di evidenza pubblica (art. 113, comma 5, lett. a e b, T.u.e.l.) oppure, a certe condizioni, direttamente dall’ente (lett. c), l’art. 115 del Codice, nello stabilire per la scelta del terzo la procedura ad evidenza pubblica, pone, sotto questo profilo, una deroga alla previsione del T.u.e.l.. Ne deriva che come soggetto gestore del servizio culturale non si potrà che fare ricorso a “terzi”, intesi come società di capitali (quale che sia la composizione dei soci), in ogni caso scelti con procedura ad evidenza pubblica.

In conclusione, stante la diversità dei principi cui si ispirano le due normative speciali, gli enti pubblici territoriali potrebbero essere indotti a preferire comunque modelli ispirati al più collaudato schema dell’art. 113 bis T.u.e.l., con la conseguenza di lasciare semplicemente inapplicate le disposizioni sugli accordi ex art. 112 Codice, che presupporrebbero comunque un’accettazione delle regole codicistiche[16]. Tutto ciò è l’inevitabile conseguenza dell’abrogazione dell’art. 113 bis T.u.e.l., che ha comportato per gli enti locali l’eliminazione dei limiti all’utilizzo di modelli organizzativi per l’erogazione di servizi pubblici locali privi di rilevanza economica, consentendo agli stessi enti di ricorrere anche a forme non previste negli artt. 113 e 113 bis T.u.e.l., in linea con l’idea della centralità del territorio e delle sue soluzioni specifiche nel sistema dei servizi pubblici locali.

 

 


[1] Riforma introdotta con la L. cost. n. 3 del 2001.

[2] Il legislatore del Codice richiama, tra le norme costituzionali, l’art. 9 della Costituzione, alla cui attuazione è chiamata la Repubblica, che «tutela e valorizza il patrimonio culturale in coerenza con le attribuzioni di cui all’art. 117 della Costituzione» (art. 1). Tale ultimo articolo, modificato nel 2001 dalla legge costituzionale n. 3, che ha più largamente riformato il Titolo V della Costituzione, suddivide la materia dei beni culturali in due submaterie – tutela e valorizzazione – appartenenti l’una alla legislazione esclusiva dello Stato e l’altra alla legislazione concorrente, risultando scissa anche la potestà regolamentare che spetta allo Stato nelle sole materie di legislazione esclusiva, come nel campo della tutela, e non in quello della valorizzazione. All’interno di questo nuovo riparto di competenze, che risponde a logiche proprie del c.d. federalismo amministrativo (nozione introdotta nel nostro ordinamento con la normativa Bassanini e che vede in uno stato “leggero” il primo passo verso una maggiore efficienza della sua attività), la valorizzazione è la funzione su cui è concentrato il processo di devoluzione dello Stato sia verso le Regioni sia verso soggetti di natura privata.

[3] Ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., infatti, la materia della valorizzazione dei beni culturali e ambientali e quella della promozione e organizzazione delle attività culturali è materia di legislazione concorrente. Nell’ambito, dunque, lo Stato stabilirà i principi generali (cosa che ha fatto con l’emanazione del d. lgs. n. 42 del 2004) mentre alle Regioni spetterà la potestà legislativa e regolamentare relativamente alla disciplina di dettaglio.

[4] Sul punto cfr. le sentenze n. 94 del 2003 e n. 26 del 2004 della Corte Costituzionale.

[5] È interessante rilevare come la Corte cost., nella pronuncia n. 272 del 2004, abbia chiarito che in tema di servizi pubblici locali non si configurano per la legislazione statale che specifici titoli di intervento: per i servizi a rilevanza economica, l’intervento dello Stato è, infatti, giustificato dalla competenza in tema di “tutela della concorrenza” (art. 112, comma 2, lett. e, Cost.), mentre per quelli privi di rilevanza economica, tale intervento statale può spingersi solo sino alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (art. 112, comma 2, lett. m, Cost.). L’interprete, pertanto, è indotto a valutare come principi nell’art. 115 solo i disposti normativi che si colleghino a caratteri propri dei beni culturali, ossia che considerino i servizi culturali locali (e per analogia regionali) non tanto, o comunque non solo, come servizi pubblici, quanto piuttosto come servizi culturali, servizi cioè segnati dalla specificità dei beni cui fanno riferimento. In altre parole, la competenza regionale di tipo residuale in tema di servizi pubblici locali (e regionali) si riflette in una lettura “restrittiva” dei principi desumibili dall’art. 115. Tenendo conto anche di questo criterio interpretativo, risulta necessario individuare dei principi fondamentali all’interno della normativa codicistica.

 

[6] Testo unico degli enti locali (Decreto legislativo n. 267 del 2000).

[7] Nel caso di servizio “a rilevanza economica” l’art. 113, comma 5, T.u.e.l. impone, invece, modalità di gestione in forma indiretta.

[8] Per “museo locale” si intende, in un’accezione restrittiva, unicamente un museo di pertinenza di uno o più enti locali, mentre in un significato più ampio esso denota una istituzione culturale che presenta un determinato legame con il territorio in quanto espressione di valori culturali della realtà circostante, indipendentemente dall’ente proprietario: in quest’ultimo senso, museo locale può essere anche un museo privato ovvero un museo pubblico che non sia necessariamente di proprietà di un ente locale. Una definizione di museo, oltre ad essere contenuta nell’art. 101 del Codice dei beni culturali e del paesaggio e nel Codice di deontologia professionale, adottato dalla 15.a Assemblea generale dell’International Council of Museum riunita a Buenos Aires, Argentina, il 4 novembre 1986, si ritrova più compiutamente nel d. m. 10 maggio 2001 recante “Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei”, in cui si definiscono i diversi profili della struttura museale: status giuridico; assetto finanziario; struttura; personale; sicurezza; gestione delle collezioni; rapporti con il pubblico e relativi servizi; rapporti con il territorio. Deve precisarsi, però, che nonostante tali indicazioni (derivanti da fonti di soft law), la normativa nazionale non stabilisce i requisiti di accreditamento in presenza dei quali una certa struttura è qualificabile o meno come museo, con tutte le conseguenze giuridiche che ne derivano.

[9] Limitando il riferimento ai musei che, com’è noto, rappresentano soltanto uno degli istituti e dei luoghi della cultura di cui all’art. 101 Codice, deve osservarsi che nel 2005, la Corte dei conti (delib. N. 8/AUT/2005 del 30 novembre 2005) ha censito in Italia la presenza di 3.430 musei appartenenti a 1.785 enti locali (precisamente, trattasi di 1.124 Comuni con più di 8.000 abitanti, 779 con meno di 8.000 abitanti, 77 Province e 14 Regioni). La rilevanza dei musei degli enti locali è testimoniata altresì dal raffronto con i musei appartenenti allo Stato: ben il 72% dei musei appartiene ai Comuni, mentre solo il 20% afferisce allo Stato e alle sue diverse articolazioni ministeriali.

[10] Recita(va), infatti, l’art. 113 bis T.u.e.l.: «Ferme restando le disposizioni previste per i singoli settori, i servizi pubblici locali privi di rilevanza economica sono gestiti mediante affidamento diretto a: a)istituzioni; b)aziende speciali, anche consortili; c)società a capitale interamente pubblico […]».

[11] Come è noto, la Consulta con la sentenza in questione ha dichiarato l’illegittimità della disciplina statale in materia di servizi pubblici locali privi di rilevanza economica che, non afferendo alla tutela della concorrenza, resta riservata alla potestà legislativa esclusiva regionale. Sul punto si vedano le Osservazioni critiche di R. IANNOTTA in Foro Amm.-CdS, 2004, p. 1974; A. POLICE – W. GIULIETTI, Servizi  pubblici, servizi sociali e mercato: un difficile equilibrio, in Servizi pubblici e appalti, 2004, p. 831 e ss.; la pronuncia è altresì annotata da G. SCIULLO, Gestione dei servizi culturali e governo locale dopo la pronuncia n. 272 del 2004 della Corte Costituzionale, in Aedon, n. 3/2004.

[12] Cfr. A.L. TARASCO, La gestione dei beni culturali degli enti locali: profili di diritto dell’economia, in Foro Amm.-CdS, 2006, p 2388.

[13] Come fa notare TARASCO, op. cit., essendo state soppresse le figure soggettive tipiche di gestione “esternalizzata” (fondazioni, istituzioni, società, ecc., previste all’art. 115, comma , lett. a, Codice), prevedendosi ora unicamente la concessione a terzi, almeno l’istituzione sembrerebbe difficilmente configurabile quale “terzo” cui concedere la gestione delle attività di valorizzazione, dal momento che l’art. 114, secondo comma, T.u.e.l. definisce quest’ultima come un mero “organismo strumentale dell’ente locale” privo di personalità giuridica distinta da quella dell’ente locale, per quanto dotato di autonomia gestionale. Nel contempo, deve comunque ricordarsi che ai sensi dell’art. 112, secondo comma, Codice, la disciplina di dettaglio delle attività di valorizzazione dei beni presenti negli istituti e luoghi della cultura non statali appartiene alla potestà legislativa (concorrente) regionale. Con la conseguenza che sia in virtù dell’art. 113 T.u.e.l. che dell’autonomia normativa regionale riconosciuta dal secondo comma dell’art. 112 del Codice, anche la forma dell’istituzione potrebbe comunque risultare compatibile con il tessuto ordinamentale.

[14] Secondo la migliore dottrina si tratta di concessione avente natura non costitutiva ma traslativa di beni e servizi. Il riferimento alle valutazioni comparative e agli specifici progetti presentati corrispondono ad indirizzi giurisprudenziali e dottrinari ed era già presente nella formulazione originaria del 2004.

[15] Si tratta di quei soggetti giuridici, di cui si dirà più avanti, che possono essere costituiti, nel rispetto delle disposizioni vigenti, dallo Stato, dalle Regioni e dagli enti pubblici territoriali, al fine di elaborare e sviluppare i piani strategici di sviluppo culturale.

[16]  E ciò nella misura in cui, ai sensi dell’art. 112, comma 5, ultima parte, Codice, «in assenza di accordo, ciascun soggetto pubblico è tenuto a garantire la valorizzazione dei beni di cui ha comunque la disponibilità». Ne consegue che la mancata stipula degli accordi implica l’applicazione – per le autonomie locali – delle regole specificamente previste dalla legislazione regionale ed in mancanza dai rispettivi atti regolamentari, ai sensi dell’art. 117, comma 6, seconda parte, Cost.

Abbate Giuseppe Ugo

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