La modifica della destinazione d’uso delle parti comuni

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1. La disciplina precedente alla riforma del condominio.

 

Prima della riforma del condominio, la giurisprudenza individuava nell’art. 1102 c.c. i limiti al diritto dei singoli condòmini ad utilizzare le parti comuni. Tale norma, che disciplina l’istituto della comunione, al primo comma dispone che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.”

In buona sostanza, l’orientamento costante della giurisprudenza era nel senso di affermare che l’utilizzo delle cose comuni non doveva comunque né causare una modificazione d’uso, e né impedire agli altri condòmini di farne altrettanto uso nei limiti del loro diritto (Cass.: 172/2003 e 2722/1987). Per la precisione, se si ponevano in essere atti tali da modificare la funzione a cui il bene era stato in origine destinato, allora si consideravano tali atti come in grado di causare (non più delle semplici mutazioni ma) delle vere e proprie innovazioni, con l’ulteriore conseguenza che la norma di riferimento diveniva l’art. 1120 c.c., così che tale tipo di utilizzo risultava vietato al singolo condòmino (Cass.: 9498/1994).

Per quel che riguarda il “pari uso”, la giurisprudenza (Cass.: 15523/2011) ha chiarito che con tale espressione non si intende un uso completamente uguale e nemmeno contemporaneo, perché le varie esigenze dei condòmini devono essere contemperate. Semmai, si intende la facoltà di poter utilizzare la cosa nel modo più intenso possibile, fermo restando, naturalmente, il rispetto dei diritti degli altri condòmini. Inoltre, la Corte di Cassazione (Cass.: 3374/1968 e 1764/1976) ha altresì stabilito che ciascun condòmino non deve tenere un comportamento tale che agli altri condòmini diventi più difficile o comunque impossibile utilizzare la cosa stessa.

Dunque, il limite all’uso della cosa comune veniva individuato sulla base di due ordini di ragioni:

1) non modificare la destinazione originaria del bene,

2) non impedire agli altri condòmini di fare altrettanto uso, nei limiti del loro stesso diritto.

 

2. La disciplina successiva alla riforma del condominio.

 

Oggi la riforma del condominio, che in gran parte ha codificato l’orientamento giurisprudenziale precedente, ha introdotto il nuovo art. 1117 ter c.c., rubricato “Modificazioni delle destinazioni d’uso”.

La modifica d’uso delle parti comuni, è dunque oggi espressamente ammessa dal primo comma del summenzionato art. 1117 ter, c.c.. Tale modifica deve essere approvata dall’assemblea con una maggioranza che rappresenti “i quattro quinti dei partecipanti al condominio e i quattro quinti del valore dell’edificio”.

È possibile, altresì, notare una differenza tra il quorum richiesto dalla suddetta norma, con quella prevista per la nomina e la revoca dell’amministratore (art. 1136, quarto comma, c.c.). Per nominare e revocare l’amministratore, è infatti necessaria “la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio” (art. 1136, secondo comma). Nell’art. 1117 ter, c.c., dunque, il legislatore ha imposto un quorum deliberativo più elevato di quelli ordinari.

Un’altra differenza tra le due norme, consiste nella constatazione che quest’ultima norma richiede i quattro quindi dei partecipanti al condominio. Il secondo comma (richiamato dal quarto comma) dell’art. 1136 c.c. richiede, invece, la maggioranza degli intervenuti.

L’art. 1117 ter, c.c., prevede anche alcuni obblighi procedurali, che devono essere rispettati affinché la convocazione dell’assemblea possa dirsi validamente eseguita.

Anzitutto, il secondo comma della stessa norma, prevede l’assolvimento di un particolare onere, che è evidentemente finalizzato a far si che venga garantita un’adeguata pubblicità a tale convocazione. Dispone, infatti, tale secondo comma che “La convocazione dell’assemblea deve essere affissa per non meno di trenta giorni consecutivi (…)”. Oltre a prevedere per quanto tempo tale convocazione deve rimanere affissa, con la stessa disposizione il legislatore ha avuto cura di precisare anche in quali luoghi bisogna provvedere a tale affissione. Ciò, chiaramente, contribuisce al raggiungimento del suddetto principio di pubblicità della convocazione. Precisamente, lo stesso secondo comma dispone che la convocazione deve essere affissa “nei locali di maggior uso comune o negli spazi a tal fine destinati…”.

Ma non basta la sola affissione del summenzionato avviso nei luoghi sopracitati. Infatti, affinché la convocazione possa ritenersi correttamente effettuata, la norma prevede l’assolvimento di un altro onere, anch’esso chiaramente finalizzato non solo al raggiungimento del suddetto principio di pubblicità, ma pure a quello della effettiva conoscibilità della convocazione stessa.

Ai sensi dello stesso secondo comma, la convocazione deve perciò “effettuarsi mediante lettera raccomandata o equipollenti mezzi telematici (…)”, sarebbe dunque ammessa la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata. Comunque, la convocazione, o con l’una o con l’altra modalità di comunicazione, deve “pervenire almeno venti giorni prima della data di convocazione”. Chi ha inviato tale comunicazione, resta però onerato dall’obbligo di provare la tempestiva ricezione da parte dei destinatari. Con riferimento ai suddetti venti giorni, si ritiene (Sforza) che devono essere intesi come “giorni liberi interi”, e quindi si deve escludere il giorno in cui al destinatario giunge l’avviso di convocazione.

Vi sono poi due importanti elementi che devono essere contenuti nella convocazione, in quanto sono previsti a pena di nullità (terzo comma, art. 1117 ter, c.c.):

1) l’indicazione di quali saranno “le parti comuni oggetto della modificazione”.

2) “la nuova destinazione d’uso” a cui saranno destinate le suddette parti comuni, evidentemente dopo la loro modifica.

Nella deliberazione bisognerà poi “indicare espressamente che tutti i suddetti adempimenti sono stati effettuati” (quarto comma, dell’art. 1117 ter, c.c.).

Da quanto sopra detto, è evidente che, per il caso in cui all’ordine del giorno sia prevista la discussione in assemblea circa la modifica d’uso delle parti comuni, il legislatore ha introdotto una procedura rafforzata per la convocazione della assemblea.

Infatti, si possono rilevare queste differenze:

1) 30 giorni per l’affissione della convocazione, 20 giorni è il termine entro il quale la convocazione deve pervenire (invece, per l’art. 66 disp. att. l’avviso di convocazione deve essere comunicato almeno 5 giorni prima dell’assemblea).

2) Maggioranze più elevate: 4/5 dei partecipanti e che rappresentino i 4/5 del valore.

 

Tutto ciò per far si che, tenuto conto della specifica importanza della deliberazione, quest’ultima sia il frutto di una volontà che, se pur non unanime, è comunque particolarmente elevata.

L’ultimo comma dell’art. 1117 ter c.c., pone la sicurezza, la stabilità ed il decoro architettonico, come limiti all’esercizio del suddetto diritto di modificare la destinazione d’uso delle parti comuni. Dispone, infatti, tale comma che “Sono vietate le modificazioni delle destinazioni d’uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterano il decoro architettonico.” Pare, dunque, potersi affermare che tale divieto sorgerebbe anche qualora tale pregiudizio fosse anche solo meramente possibile.

In conclusione, può essere interessante rilevare il fine che l’art. 1117 ter, c.c., prevede affinché l’assemblea possa validamente deliberare la modificazione d’uso delle cose in comune. Tale fine emerge dal primo comma della suddetta norma, dove espressamente si stabilisce che “Per soddisfare esigenze di carattere condominale (…) l’assemblea (…) può modificare la destinazione d’uso.” Pertanto, a modesta opinione dello scrivente, secondo un’analisi letterale di tale disposizione, l’assemblea, pur con le maggioranze che la stessa norma impone, non sarebbe comunque legittimata a votare una modificazione delle parti comuni, quando ciò risponda all’esigenza di un solo condòmino.

Pugliese Marcello

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