La lite temeraria: analisi dell’art. 96, commi 1 e 2, c.p.c.

Redazione 18/04/19
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di Martina Mazzei

Sommario

1. Il principio del victus victori e la responsabilità aggravata o per c.d. lite temeraria

2. L’art. 96, comma, 1 c.p.c. Il presupposto soggettivo (malafede e colpa grave) e oggettivo (soccombenza totale)

3. L’art. 96, comma 2, c.p.c. Il presupposto soggettivo (colpa lieve) e oggettivo (inesistenza del diritto)

3.1. Analisi casistica

L’art. 91 c.p.c. a norma del quale «il giudice, con sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa» sancisce, per il processo di cognizione, il principio della soccombenza.

Tale principio, noto anche con il brocardo victus victori[1], costituisce una specificazione della regola secondo cui «la necessità di ricorrere al giudice non deve tornare a danno di chi abbia ragione»[2] chiamando, quindi, colui il quale è stato dichiarato soccombente dal giudice al pagamento delle spese di lite e degli onorari di difesa.

La ratio di questa norma è, quindi, quella di «ristabilire un corretto riequilibrio del rapporto fra le parti, che non devono (o almeno non dovrebbero) subire un pregiudizio per il fatto di essere state costrette a convenire o per essere state convenute in giudizio quando il giudice abbia poi concluso riconoscendo il loro buon diritto»[3].

L’obbligo di refusione derivante dalla soccombenza, per tale ragione, non ha carattere sanzionatorio bensì indennitario in quanto l’agire e il resistere in giudizio sono espressione di un diritto costituzionale tale per cui le parti sono sempre pienamente libere di ricorrere al giudice.

Il principio generale della soccombenza opera, tuttavia, fino a che tale diritto non si trasformi in abuso e, in particolare, quando l’abuso sia perpetrato dalla parte risultata vincitrice.

Su questi presupposti si fonda la responsabilità aggravata[4] o per c.d. lite temeraria[5] prevista all’art. 96 c.p.c.

Tale disposizione, infatti, vieta espressamente l’uso distorto dell’azione e della difesa in giudizio configurando una forma di responsabilità aggravata[6].

Naturalmente, poiché il risarcimento dei danni presuppone un fatto illecito è evidente che tale responsabilità si potrà configurare solo quando il comportamento di colui che ha agito o resistito in giudizio, ed ha poi avuto torto, abbia assunto modalità tali da attribuirgli i caratteri dell’illeceità. Ciò può realizzarsi, trattandosi dell’esercizio di un diritto, solo in quanto si ponga in essere un abuso di quel diritto[7], ossia un suo esercizio al di fuori del suo schema tipico o al di là dei limiti determinati dalla sua funzione.

L’art. 24 Cost., infatti, sancendo che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» conferisce, da un lato, il diritto inviolabile di difesa e, dall’altro un potere di azione che la parte può esercitare a tutela dei suoi diritti. Ove, tuttavia, si accerti che tale potere è stato esercitato a tutela di pretese infondate la parte sarà chiamata a rispondere del suo operato che, inevitabilmente, ha ingenerato un danno.

Infatti «poiché la ragione per cui l’agire o il resistere in giudizio è riconosciuto come diritto anche a colui al quale il giudice darà torto sta nel fatto che al momento in cui si decide di agire o resistere non si può ancora sapere se si avrà ragione o torto, quando viceversa dovesse risultare certo che la parte, che ha agito o resistito, era ben consapevole del suo torto ed ha agito per spirito di emulazione od altre ragioni analoghe o resistito con intenti dilatori o defatigatori, questa situazione di malafede sarebbe rilevatrice di un abuso del diritto d’azione e perciò di un comportamento illecito»[8].

La legge, quindi, accorda protezione e garanzia solo a coloro i cui diritti o interessi siano stati realmente lesi o violati mentre chi agisce o resiste in giudizio temerariamente, utilizzando in maniera distorta il processo, non ha diritto ad essere garantito bensì punito in quanto, impegnando ingiustamente la giustizia, viola il principio dell’economia processuale e della ragionevole durata del processo.

La ratio della previsione di cui all’art. 96 c.p.c. è, quindi, quella di risarcire il danno causato dal riprovevole comportamento processuale dell’altra parte e di costituire un monito in grado di condizionare il comportamento delle parti nel processo.

Secondo autorevole dottrina[9] la norma sanziona con la condanna al risarcimento dei danni, in aggiunta alla refusione delle spese di lite, il c.d. illecito processuale, caratterizzato da un elemento materiale, vale a dire un contegno relativo ad una controversia e, da un elemento soggettivo, ossia il fatto che l’autore rivesta necessariamente la qualità di parte nel processo.

Anche la giurisprudenza qualifica detta responsabilità come processuale in quanto la stessa scaturisce da un comportamento doloso o colposo posto in essere nel processo (sia esso cognitivo, cautelare, esecutivo o di volontaria giurisdizione) oppure da un comportamento connesso al processo (trascrizione di domanda giudiziale) ovvero successivo al processo (iscrizione di ipoteca giudiziale).

Per queste ragioni, a discapito della rubrica della norma, gli studiosi si riferiscono all’istituto ribattezzandolo «responsabilità processuale aggravata». È, infatti, innegabile che l’art. 96 c.p.c. configuri una fattispecie di illecito il cui elemento materiale consiste nello svolgimento di un’attività processuale o che, quantomeno, trae origine dal processo.

Secondo dottrina e giurisprudenza maggioritaria l’art. 96 c.p.c. configura un’ipotesi speciale di responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.

La Suprema Corte, infatti, ha più volte affermato che «l’art. 96 c.p.c. si pone con carattere di specialità rispetto all’art. 2043 cod. civ. di modo che la responsabilità processuale aggravata, – ad integrare la quale è sufficiente nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 96 c.p.c. la colpa lieve, come per la comune responsabilità aquiliana, – pur rientrando concettualmente nel genere della responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue possibili ipotesi, sotto la disciplina normativa contenuta nel citato art. 96 c.p.c., né è configurabile un concorso, anche alternativo, dei due tipi di responsabilità»[10].

La specialità delle ipotesi di responsabilità configurate dall’art. 96 c.p.c., rispetto alla fattispecie generale di cui all’art. 2043 c.c., è costituita dal presupposto della soccombenza (richiesto dalle prime e non dalla seconda) e dalla peculiarità del fatto illecito dannoso rappresentato dalla violazione di una norma di diritto processuale (ove, invece, il generale illecito aquiliano è basato sulla violazione di una norma di diritto sostanziale). Inoltre, il risarcimento ex art. 2043 può essere chiesto in un processo diverso da quello nel quale si è prodotto il danno, mentre l’art. 96 c.p.c. presuppone che il danno sia liquidato nella sentenza che chiude il processo nel quale esso si è verificato. La domanda di cui all’art. 96 c.p.c, tanto per l’an che per il quantum, è, infatti, inammissibile se non formulata di fronte allo stesso giudice competente per il merito della causa cui i pretesi danni si riferiscono.

Sulla base di tali considerazioni si può affermare che l’art. 96 c.p.c. contiene la disciplina integrale e completa della c.d. «responsabilità processuale aggravata» tale per cui è preclusa ogni possibilità di invocare, con domanda autonoma e concorrente, i principi generali della responsabilità per fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., poiché tra le due fattispecie vi è un rapporto di specialità che rende inconfigurabile il concorso tra le due norme. Pertanto – non essendo possibile il concorso tra la fattispecie generale ex art. 2043 c.c. e quella speciale ex art. 96 c.p.c. – il danno riconducibile alla scorretta condotta processuale è soggetto esclusivamente alla disciplina speciale di cui all’art. 96 c.p.c.

[1] L’espressione è stata coniata da CHIOVENDA G., Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1928, 46 ss.

[2] Così CHIOVENDA G., La condanna alle spese giudiziali, II, Roma, 1953, p. 147.

[3] Così E. M. BARBIERI, La concezione polifunzionale della responsabilità civile e l’art. 96 comma 3 c.p.c., in www.aulacivile.it, 2019.

[4] In generale sull’argomento v. C. CALVOSA, La condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1954, p. 378; E. GRASSO, p>, in Riv. dir. proc., 1959, p. 270; E. GRASSO, Della responsabilità delle parti, in Comm. c.p.c diretto da E. Allorio, I, Torino, 1973, p. 109; G. BONGIORNO, Responsabilità aggravata, in Enc. Giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991; A. GIUSSANI, Responsabilità aggravata (dir. proc. civ.), in Diritto on line Treccani, 2012; S. DE LUCIA, P ercorsi di giurisprudenza – La lite temeraria tra indennità e sanzione, in Giur. It., 2019, 1, 212; C. MANDRIOLI – A. CARRATTA, Diritto processuale civile. Nozioni introduttive e disposizioni generali, vol. I, Torino, 2015, p. 430 ss.

[5] L’espressione lite temeraria con la quale è meglio ricordato il disposto dell’art. 96 c.p.c. era adoperata espressamente nel codice previgente all’art. 370 il quale disponeva «la parte soccombente è condannata alle spese del giudizio, e trattandosi di lite temeraria, può inoltre essere condannata al risarcimento dei danni.»

[6] Non bisogna, tuttavia, cadere nell’errore di identificare la lite temeraria con la disciplina dell’abuso del processo. Si tratta, infatti, di fattispecie diverse in rapporto di strumentalità e trasversalità. La lite temeraria e, in particolare, il nuovo terzo comma dell’art. 96 c.p.c. (comma aggiunto dall’art. 45, comma 12, della L. 69/2009) viene considerato dalla giurisprudenza come uno strumento volto a sanzionare l’abuso del processo.

[7] Sull’abuso del processo v. in dottrina A. DONDI – A. GIUSSANI, Appunti sul problema dell’abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 193 ss; MONTANARI M., p>, in Corr. Giur., 2011, 556; G. NICOTINA, L’abuso del processo civile, Roma, 2005; L. P. COMOGLIO, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, 319; L. P. COMOGLIO, Abuso dei diritti di difesa e durata ragionevole del processo: un nuovo parametro per i poteri direttivi del giudice? (Nota a Cass. S. U., 3 novembre 2008, n. 26373, Foschini c. Soc. servizi tecnici), in Riv. dir. proc, 2009, 1686, V. ANSANELLI, Abuso del processo, in Dig. civ., Agg., I, Torino, 2007; A. DONDI, Abuso del processo (dir. proc. civ.), in Enc. dir. Annali, III, Milano, 2010; M. TARUFFO, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 117; M. FORNACIARI, L’abuso dell’abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2017, 6, 1456; A. CARRATTA, L’abuso del processo e la sua sanzione: sulle incertezze applicative dell’art 96 comma 3 c.p.c., in Fam e dir., 2011, 814; F. CORDOPATRI, L‘abuso del processo, Padova 2000;

[8] Si esprime in questi termini C. MANDRIOLI – A. CARRATTA, Diritto processuale civile. Nozioni introduttive e disposizioni generali, vol. I, Torino, 2015, p. 430-431.

[9] Cfr. E. GRASSO, Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali, in Comm. c.p.c. Allorio, I, Torino, 1973, 1030, ID., p>e, in Riv. dir. proc., 1959, 270 e ID., Individuazione delle fattispecie di illecito processuale e sufficienza della disciplina dell‘art. 96 c.p.c ., in Giur.it., 1961, I, 93.

[10] Così Cass. civ. sez. II, 12 marzo 2002, n. 3573. Recentemente nello stesso senso cfr. Cass. civ. sez. VI – 3, Ord. 16 maggio 2017, n. 12029 ove si legge che «le ipotesi di responsabilità configurate dall’art. 96 c.p.c. (quanto meno nei primi due commi, e prescindendo dal terzo comma di più recente introduzione) costituiscono fattispecie speciali di responsabilità civile in rapporto a quella generale prevista dall’art. 2043 c.c. e la loro specificità (che ne giustifica la particolare disciplina, anche sul piano della tutela giudiziale) è costituita proprio dal peculiare fatto illecito dannoso, rappresentato da una condotta processuale (consistente, per quanto riguarda la fattispecie di cui dell’art. 96 c.p.c., comma 1, nell’avere agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave). Ne consegue che, non essendo possibile concorso tra la fattispecie generale di cui all’art. 2043 c.c. e quella speciale di cui all’art. 96 c.p.c., il danno riconducibile alla scorretta condotta processuale è soggetto esclusivamente alla speciale disciplina di cui all’art. 96 c.p.c ». La giurisprudenza, sul punto, è costante: cfr., in proposito, Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5069; Cass. civ. sez III, 24 luglio 2007, n. 16308; Cass. civ. sez. III, 20 luglio 2004, n. 13455; Cass. civ., sez. III, 23 aprile 2001, n. 5972; Cass. civ., sez. sez. I, 19 maggio 1999, n. 4841; Cass. Sez. Un. civ., 6 febbraio 1984 n. 874. In dottrina v. E. GRASSO, Individuazione della fattispecie di illecito processuale e sufficienza dell’art. 96 cod. proc. civ., in Giur. it. 1961, I, 1, 93. In senso contrario F. CORDOPATRI, Un principio in crisi: victus victori, in Riv. dir. proc., 2011, 265 ss

2. L’art. 96, comma, 1 c.p.c. Il presupposto soggettivo (malafede e colpa grave) e oggettivo (soccombenza totale)

L’art. 96 c.p.c. al primo comma stabilisce che «se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza».

L’affermazione di responsabilità processuale aggravata della parte soccombente, secondo tale previsione normativa, richiede la sussistenza di tre elementi: il carattere totale della soccombenza; l’elemento soggettivo consistente nell’aver agito con mala fede o colpa grave e l’elemento oggettivo rappresentato dalla dimostrazione della concreta ed effettiva esistenza di un danno subito dalla controparte come conseguenza diretta ed immediata di detto comportamento processuale[11].

Presupposto indefettibile della responsabilità processuale aggravata è la totale soccombenza nel giudizio[12].

La responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., infatti, integrando una particolare forma di responsabilità processuale, a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, richiede necessariamente la totale soccombenza della parte.

Secondo la giurisprudenza, infatti, non si può ricorrere all’applicazione dell’art. 96 co. 1 c.p.c. quando non si sia verificato il requisito della totale soccombenza[13].

Per quanto concerne, invece, l’elemento soggettivo la dottrina distingue la malafede dalla colpa grave individuando la prima nella «coscienza di operare slealmente o nella piena consapevolezza di avere torto» e, la seconda, nella «mancanza di diligenza della parte nel valutare se il diritto sia sussistente o se l’atto sia rituale».

La giurisprudenza, invece, tende a far rientrare l’elemento soggettivo all’interno del concetto unitario di temerarietà che consiste nella ignoranza colpevole, nel mancato doveroso impiego della necessaria diligenza, nella consapevolezza del proprio torto, nella volontà di servirsi del processo per scopi estranei ai suoi fini istituzionali.

La Suprema Corte afferma, infatti, che «l’elemento soggettivo deve ravvisarsi in tutti quei casi in cui vi sia conoscenza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute ovvero difetto della normale diligenza nell’acquisizione di detta conoscenza».

Recentemente, inoltre, la Corte di Cassazione[14] ha affermato che «in materia di responsabilità civile aggravata condotte sintomatiche dell’elemento soggettivo della mala fede o della colpa grave non si ravvisano soltanto nella consapevolezza della infondatezza in jure della domanda, ma anche nella omessa deduzione di circostanze fattuali dirimenti ai fini della corretta ricostruzione della vicenda controversa

Il comportamento sanzionato dalla norma in commento si caratterizza, quindi, dal punto di vista soggettivo, per la mala fede e la colpa grave della parte che agisce o resiste in giudizio con la consapevolezza dell’infondatezza della propria pretesa o difesa, cioè abusando del diritto d’azione o per spirito di emulazione o per fini dilatori ovvero con la mancanza di quel minimo di diligenza o prudenza necessarie per rendersi conto dell’infondatezza della propria pretesa e per valutare le conseguenze dei propri atti.

Il presupposto oggettivo dell’entità del danno comporta, invece, l’esistenza di un danno e la prova da parte dell’istante sia dell’an che del quantum debeatur in modo da consentire al giudice di identificarne concretamente l’esistenza e di disporne la relativa liquidazione[15].

Ciò, tuttavia, non osta a che l’interessato possa dedurre, a sostegno della sua domanda, «condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, potendosi desumere il danno subito da nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.) e della legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l’id quod plerumque accidit ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali (quali quelli di essere costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario sovente in una sede diversa da quella voluta dal legislatore e per di più non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente), causano ex se anche danni di natura psicologica, che per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa»[16].

La liquidazione del danno può operarsi, anche d’ufficio, in via equitativa ma ciò non scalfisce l’onere della prova, gravante sulla parte che richiede il risarcimento, sia della concreta esistenza di un pregiudizio sia della sua quantificazione.

L’art. 96, 1 comma, c.p.c. configura, quindi, una forma di responsabilità che, andando oltre la normale responsabilità di rimborso come pura conseguenza obiettiva della soccombenza, si aggrava in quanto fondata su un illecito. Tale responsabilità dà diritto al risarcimento di tutti i danni che conseguono all’aver dovuto partecipare ad un giudizio obiettivamente ingiustificato.

In sostanza al soccombente temerario verranno addossati, oltre al normale rimborso delle spese, anche quegli ulteriori oneri che il vincitore ha subito in conseguenza del processo: come ad es. le quote non ripetibili, eventuali spese di viaggio, interessi di un tasso superiore a quello legale, eventuali lucri cessanti ecc.

Inoltre, dal momento che l’illecito si concreta nell’abuso di uno strumento processuale, la domanda del conseguente risarcimento è configurabile soltanto nell’ambito di quel processo, sicchè essa non costituisce oggetto di un’autonoma azione ma si esaurisce in un potere endo-processuale collegato e connesso all’azione (o alla resistenza) esercitata in quel processo[17] o in quel grado di giudizio[18].

[11] In giurisprudenza cfr. Cass. civ. sez. III, 29 settembre 2016, n. 19285; Cass. civ. sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645; Trib. Modena, sez. II, 13 aprile 2012, n. 620.

[12] Si esprime in questi termini Cass. civ. sez. I, 28 luglio 2000, n. 9897.

[13] Cfr. in tal senso Cass. civ. sez. II, 14 aprile 2016, n. 7409; Cass. civ. sez. I, 2 marzo 2001, n. 3035; Cass. civ. sez. II, 12 ottobre 2009, n. 21590.

[14] Cass. civ. sez. VI – 3 Ord., 21 febbraio 2018, n. 4136.

[15] Cfr. Trib. Milano, sez. I, 18 aprile 2008, n. 5119; Trib. Bari, sez. II, 28 novembre 2005, n. 2597; Cass. civ. sez. I, 4 novembre 2005, n. 21393; Cass. civ. sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27383.

[16] Così Cass. civ. sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645.

[17] Cfr. Cass. civ. sez. III, 18 febbraio 2007, n. 9297 ove si è affermato che: «In tema di responsabilità aggravata, la norma dell’art. 96, cod. proc. civ., nell’affidare al giudice avanti al quale si è “agito o resistito” (primo comma) ed a quello che ha compiuto l’accertamento “l’inesistenza del diritto” (secondo comma) il compito di essere investito della relativa istanza, non pone una regola di competenza, cioè non indica avanti a quale giudice si può esercitare un’azione di cui l’istanza è espressione, ma disciplina un fenomeno che si colloca all’interno di un processo già pendente e che si esprime nell’esercizio da parte del litigante di un potere all’interno di esso – quello di formulazione di un’istanza (e non della proposizione di un’azione) – il cui esercizio impone al giudice di provvedere sull’oggetto della richiesta, la quale, dunque, è strettamente collegata e connessa all’agire od al resistere in giudizio. Ne discende che il potere di rivolgere l’istanza, essendo previsto come potere endo processuale collegato e connesso all’azione od alla resistenza in giudizio, non può essere considerato (salvo il caso eccezionale che il suo esercizio sia rimasto precluso in quel processo da ragioni attinenti alla sua struttura e non dipendenti dall’inerzia della parte) come potere esercitatile al di fuori del processo e, quindi, suscettibile di essere esercitato avanti ad altro giudice, cioè in via di azione autonoma. Pertanto, quando tale esercizio avvenisse non ricorrerebbe una situazione di esercizio di un’azione davanti ad un giudice diverso da quello che sarebbe stato competente, bensì, l’esercizio di un’azione per un diritto non previsto dall’ordinamento, il quale appunto prevede il diritto di vedersi liquidare il danno da responsabilità aggravata (nelle due ipotesi previste dai due commi dell’art. 96) soltanto come diritto espressione del diritto di azione esercitato in un processo a tutela della situazione giuridica soggettiva principale che vi sia dedotta e, quindi, come diritto che di tale situazione è conseguenza e che, perciò lo è anche dell’azione con cui essa è fatta valere (in via attiva o passiva).»

[18] Per quanto riguarda la proponibilità della domanda ex art. 96 c.p.c. nel giudizio d’appello cfr. Cass. civ. sez. VI, 21 gennaio 2016, n. 1115 ove si afferma che «la domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. può essere proposta per la prima volta nella fase di gravame solo con riferimento a comportamenti della controparte posti in atto in tale grado del giudizio, quali la colpevole reiterazione di tesi giuridiche già reputate manifestamente infondate dal primo giudice ovvero la proposizione di censure la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata in modo da evitare il gravame, e non è soggetta al regime delle preclusioni previste dall’art. 345, comma 1, c.p.c., tutelando un diritto conseguente alla situazione giuridica soggettiva principale dedotta nel processo, strettamente collegato e connesso all’agire od al resistere in giudizio, sicché non può essere esercitato in via di azione autonoma». Nello stesso senso v. Cass. civ. sez. III, 16 giugno 2016, n. 12413; Cass. civ. sez. III, 30 dicembre 2014, n. 27534; Cass. civ. sez. VI – 3, 18 novembre 2014, n. 24546 e Cass. civ. sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22226. La domanda di condanna al risarcimento dei danni ex art 96 c.p.c. può essere proposta anche in sede di legittimità cfr. Cass. civ. sez. lav. 11 dicembre 2012, n. 22659 secondo cui «la domanda di condanna al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., può, in linea di principio, essere proposta anche in sede di legittimità, per i danni che si assumono derivanti dal giudizio di cassazione. In particolare, se tale domanda si riferisce a danni conseguenti alla proposizione del ricorso, deve essere formulata, a pena di inammissibilità, con il controricorso. Tuttavia, l’accoglimento della domanda, per avere la controparte processuale agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave, presuppone l’accertamento sia dell’elemento soggettivo dell’illecito (mala fede o colpa grave), sia dell’elemento oggettivo (entità del danno sofferto), con la conseguenza che, ove dagli atti del processo non risultino elementi obbiettivi dai quali desumere la concreta esistenza del danno, nulla può essere liquidato a tale titolo, neppure ricorrendo a criteri equitativi».

3. L’art. 96, comma 2, c.p.c. Il presupposto soggettivo (colpa lieve) e oggettivo (inesistenza del diritto)

Lo stesso concetto di abuso del diritto di azione analizzato sta alla base della disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 96 c.p.c. a norma del quale «il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente».

L’istituto della responsabilità aggravata viene, qui, applicato all’esercizio dell’azione esecutiva e all’esercizio della fase esecutiva dell’azione cautelare o ad altre iniziative o trascrizioni di provvedimenti.

Il legislatore, in questi casi, ha ritenuto opportuno disciplinare separatamente e più severamente alcuni comportamenti che, per la loro aggressività, rischiano di creare danni a chi li subisce e, in relazione ai quali, sono necessarie maggiori cautele.

La responsabilità aggravata, di cui all’art. 96, secondo comma, c.p.c., sussiste, infatti, solo se, in aggiunta all’elemento soggettivo della violazione dei canoni di normale prudenza, sia accertato anche l’elemento oggettivo ossia l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare ovvero è stata trascritta domanda giudiziale ovvero è stata iscritta ipoteca giudiziale ovvero l’esecuzione forzata è stata iniziata e/o proseguita.

Rispetto all’agire temerario di cui al primo comma, per i comportamenti tipizzati in questo secondo capoverso, sono fissati dei requisiti ben differenti ai fini dell’integrazione dell’illecito processuale. Infatti, abbandonato il generico riferimento alla soccombenza, il presupposto di ordine oggettivo è rappresentato dalla inesistenza del diritto a tutela del quale erano stati compiuti gli atti indicati dalla norma.

Inoltre non si richiede l’elemento soggettivo della mala fede o della colpa grave bensì il difetto della normale prudenza che è espressione comunemente intesa di culpa lievis ossia «la ragionevole ed oggettiva prevedibilità, secondo l’ordinaria diligenza del buon padre di famiglia, del successivo accertamento dell‘inesistenza del diritto

Il secondo comma dell’art. 96 c.p.c., quindi, riferendosi alla parte che abbia agito senza la normale prudenza, abbassa la soglia dell’illecito alla colpa lieve.

La norma è, infatti, più severa rispetto alla norma di cui al primo comma in quanto la legge vuole evitare che si faccia un uso indiscriminato ed incauto di quella particolare normativa che, anticipando il giudizio, consente di agire, malgrado non sia stata ancora definitivamente accertata l’esistenza del diritto. L’ordinamento, in questi casi, per esigenze di rapidità ad immediata efficacia, mette a disposizione delle parti un’arma il cui uso è a rischio e pericolo di chi se ne avvale.

La ragione del maggior rigore risiede, dunque, nella necessità di tutelare in modo più efficace chi si trovi ingiustamente colpito da tali procedure le quali incidono sulla sfera patrimoniale dei soggetti passivi toccando la disponibilità dei beni loro appartenenti.

Per quanto riguarda, infine, il rapporto tra il primo e il secondo comma dell’art. 96 c.p.c. si suole affermare sia in dottrina[19] che in giurisprudenza[20] che, poiché la portata dell’art. 96 esaurisce ogni ipotesi di responsabilità aggravata, e poiché, d’altra parte, il 2 comma della norma suddetta contempla ipotesi specifiche e ben delineate, ogni altra ipotesi di responsabilità aggravata non risultante tra queste ultime, ancorché concernente il processo esecutivo o cautelare, rientri nella portata del 1 comma.

[19] Cfr. E. GRASSO, Della responsabilità delle parti, in Comm. c.p.c diretto da E. Allorio, I, Torino, 1973, p. 1035. L’opinione, tuttavia, non è pacifica: in senso contrario v. L. MONTESANO, Sulla speciale responsabilità per imprudente esecuzione in materia di istruzione preventiva, in Giur. it., 1956, I, 1, 1037.

[20] Cfr. Cass. civ. sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902 secondo cui «la previsione di cui al 1 comma dell’art. 96 c.p.c. non riguarda esclusivamente il processo di cognizione, ma ha natura generale e può ricomprendere anche illeciti processuali maturati all’interno delle ipotesi previste dal comma 2 dello stesso articolo, fuori dell’ipotesi speciale tipizzata dell’inesistenza del diritto

3.1. Analisi casistica

L’art. 96, secondo comma, c.p.c. disciplina ipotesi di responsabilità aggravata tra loro eterogenee: esecuzione di un provvedimento cautelare; trascrizione di domanda giudiziale; iscrizione di ipoteca giudiziale; inizio o prosecuzione dell’esecuzione forzata.

Appare utile, pertanto, passare brevemente in rassegna le principali fattispecie attraverso l’analisi delle più rilevanti pronunce della Suprema Corte.

Per quanto riguarda il settore dell’esecuzione delle misure cautelari la giurisprudenza ha affermato la sussistenza della responsabilità aggravata in diverse ipotesi: nell’ipotesi in cui venga chiesta una misura cautelare ad un giudice che l’istante sappia incompetente, il quale sia indotto maliziosamente a concedere il mezzo cautelare con una fuorviante documentazione incompleta e nell’ipotesi in cui sia chiesta ed ottenuta una misura cautelare a tutela di un credito che, se pur esistente, sia all’esito del giudizio, di gran lunga inferiore alla somma per la quale il mezzo cautelare è stato eseguito[21].

Secondo la Corte, infatti «ai fini della condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata, ex art. 96, comma 2, c.p.c., della parte soccombente che abbia chiesto ed ottenuto, provvedendo poi ad eseguirle, misure cautelari a tutela di un diritto inesistente, siffatta nozione di inesistenza è da ritenere comprensiva anche della p>.»

Sussiste, inoltre, responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, secondo comma, c.p.c. nel caso di trascrizione di una domanda giudiziale che, in concreto, non poteva essere trascritta.

La Suprema Corte ha affermato, infatti, che «l’azione di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della trascrizione di una domanda giudiziale trova il suo titolo giuridico nell’art. 2043 c. c. nella ipotesi di domanda non trascrivibile, in quanto non compresa in nessuno dei casi previsti dagli art. 2652 e 2653 c. c., dovendosi nell’eseguita trascrizione ravvisare un vero e proprio fatto illecito, e nell’art. 96, 2° comma, c. p. c., nella ipotesi di domanda che pure essendo suscettibile di trascrizione, in concreto non poteva essere trascritta, non sussistendo il diritto con essa fatto valere: con la conseguenza in quest’ultimo caso che è improponibile la domanda con la quale si chieda al giudice della causa del merito, che è investito dell’esclusiva competenza, il solo accertamento della responsabilità con la liquidazione del danno in separata sede»[22].

Per quanto riguarda, invece, l’iscrizione di ipoteca giudiziale ex art. 2818 c.c. si applica il secondo comma dell’art. 96 c.p.c. laddove la suddetta iscrizione avvenga in totale carenza di diritto mentre si è asserito che si applicherebbe il primo comma dell’art. 96 se, avvenuta l’iscrizione su beni, il valore ecceda di gran lunga l’importo del credito garantito[23] o se il creditore resista con malafede o colpa grave nel giudizio per la riduzione delle ipoteche proposto dal debitore.

La giurisprudenza ha affermato, inoltre, che «l’iscrizione di ipoteca in base a decreto ingiuntivo, dichiarato provvisoriamente esecutivo dal giudice che lo ha emesso, è fonte di responsabilità processuale aggravata a norma dell’articolo 96, comma 2, del c.p.c. ove venga accertata l’inesistenza del diritto di credito fatto valere dal giudice dell’opposizione, purché concorra l’elemento soggettivo del difetto della normale prudenza, mentre, ove il detto giudice accerti che la clausola di provvisoria esecuzione non poteva essere concessa per mancanza del periculum in mora e l’ipoteca essere iscritta, è configurabile responsabilità a norma del comma 1 dello stesso articolo nel concorso dell’elemento soggettivo da tale norma richiesto, a prescindere dall’esistenza del credito»[24].

Sussiste, infine, responsabilità aggravata, ai sensi dell’art. 96 comma 2 c.p.c., per l’inizio o il compimento dell’esecuzione forzata in mancanza di titolo esecutivo, originaria o sopravvenuta, a seguito dell’accertamento dell’inesistenza del diritto di procedere in via esecutiva. In questi casi, secondo la Corte, la richiesta di condanna «può essere proposta soltanto al giudice del giudizio di merito nel quale il titolo esecutivo si è formato, ovvero dinanzi al giudice dell’opposizione all’esecuzione e non davanti al giudice dell’opposizione agli atti esecutivi»[25].

[21] Cass. civ. sez. III, 2 febbraio 1994, n. 1037.

[22] Così Cass. civ. sez. II, 20 ottobre 1990, n. 10219.

[23] Cfr. Cass. civ. sez. I, 28 maggio 2010, n. 13107; Cass. civ. sez. III, 24 luglio 2007, n. 16308; Cass. civ. sez. III, 7 maggio 2007, n. 10299; Cass. civ. sez. III, 4 aprile 2001, n. 4968.

[24] Cfr. Cass. civ. sez. III, 23 maggio 2003, n. 8171. In senso conforme v. Cass. civ. sez. I, 15 novembre 2016, n. 23271.

[25] Così Cass. civ. sez. III, 23 gennaio 2013, n. 1590.

Redazione

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