La giustizia contrattuale: quale compromesso fra autonomia privata e mercato?

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Il contratto ha rappresentato da sempre lo strumento preferenziale di regolazione dei rapporti interprivati: l’oggettiva difficoltà del legislatore di disciplinarne l’intera gamma e l’opportunità di affidare ai singoli utenti la gestione dei propri interessi, ne spiegano gli effetti vincolanti accordati dall’ordinamento giuridico. E’ chiaro tuttavia che il potere dei privati in tal senso, seppure lontanamente “normativo”, non può andare completamente esente dal controllo in ordine alla meritevolezza dell’interesse perseguito[1] ed alla rispondenza agli standards che il legislatore stesso ha curato di dettare per la definizione della sfera di autonomia affidata alla loro iniziativa.
 
«Il contratto è l’accordo fra le parti per costituire, regolare o estinguere fra loro un rapporto giuridico patrimoniale» (art. 1321 c.c.).
 
Il riconoscimento e l’intangibilità dell’autonomia privata, sicuramente fra le più autorevoli ed orgogliose conquiste del pensiero liberale, a loro modo “giustificano” il tradizionale disinteresse di dottrina e giurisprudenza per l’equilibrio fra le prestazioni nel sistema delle pattuizioni private.
Il contratto era, e rimane sostanzialmente, un affare privato[2], espressione della volontà delle parti, libero dal controllo dell’autorità giudiziaria, anche laddove a ciò faccia seguito una sproporzione fra le prestazioni. L’intervento eteronomo sul regolamento contrattuale era limitato alla valutazione di contrasto con la legge o alla disciplina delle disfunzioni del mercato.
Esistono nel sistema del codice numerose disposizioni che limitano o escludono la forza vincolante dell’autonomia negoziale[3]: al di là, comunque, di queste situazioni tipiche, non esiste un principio di giustizia fra le prestazioni, operando le norme dedicate alla determinazione del rapporto sinallagmatico, come regole suppletive in mancanza della volontà privata.
Accanto al riscontro positivo, ad ulteriore sostegno dell’insindacabilità dell’equilibrio contrattuale, si adduceva l’indeterminatezza delle nozioni di giustizia ed equità, quale modello ideale di giusto equilibrio economico-normativo, che avrebbe rappresentato un fattore di rischio per la sicurezza delle transazioni commerciali[4].
L’evoluzione dei tempi e dei rapporti, il progresso del pensiero giuridico e dell’assetto normativo, hanno indotto il superamento dell’impostazione tradizionale, anche di fronte all’intensificarsi delle transazioni commerciali e al lento esaurimento dei correttivi automatici che il mercato offriva agli squilibri contrattuali.  
Si è superato l’assunto dell’irrilevanza dell’ingiustizia contrattuale al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dal legislatore, fino, addirittura, a sostenere da una parte della dottrina, probabilmente la più “eversiva”, la sussistenza di un interesse superiore dell’ordinamento giuridico all’equità contrattuale, indipendentemente dalla posizione di debolezza di una delle parti: la rilevanza ex se dell’equilibrio contrattuale[5].
La “rivoluzione copernicana”[6] che ha interessato il diritto dei contratti, ha privato l’autonomia negoziale della centralità e del vigore che la caratterizzavano: le nuove regole dettate dal legislatore, intervenendo sui rapporti quantitativamente e socialmente più rilevanti, hanno messo a nudo la “finzione” dell’uguaglianza fra i contraenti e hanno segnato il definitivo abbandono della libertà contrattuale come regola e della sua assenza come eccezione.[7]
Il nuovo diritto dei contratti presume l’ineguaglianza di forza fra le parti, deducendola da una considerazione empirica e statistica, e fondando la tutela del contraente debole sulla buona fede e sull’equità.
Non si è tuttavia di fronte ad un nuovo sistema, ma si è assistito piuttosto all’adeguamento del vecchio alle nuove istanze di tutela del contraente debole, aggiornando i tradizionali rimedi contro gli abusi.
In quest’ottica è confermata la piena validità del contratto come l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale: l’autonomia delle parti ne rimane l’essenza, così come la libertà la regola, e la sua menomazione l’eccezione[8]; ma gli aggiornati bisogni sociali, impongono la ricerca di nuove fonti del diritto, la giurisprudenza, in prima linea, per l’attitudine che le è propria a superare dialogicamente lo scontro fra interessi contrapposti. Ai giudici spetta il compito di risolvere le antinomie e di colmare le lacune di un sistema insufficiente a far fronte alle sfide di una società in continuo mutamento: la giurisprudenza è in grado di fornire soluzioni, hic et nunc, e di comporre esigenze diversificate in un incessante dialogo[9].
Il contratto è la principale espressione dell’autonomia riconosciuta ai privati di regolare da sé i propri interessi: essa implica la libertà di scegliere se e come disciplinarli e si traduce nella libertà di stipulare accordi anche al di fuori dei tipi previsti dalla legge, di contrattare scegliendo la controparte, di stabilire il contenuto e le varie clausole dell’accordo, di non contrattare affatto.
 
«Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico» (art. 1322 c.c.).
 
Al fine di conseguire gli effetti predeterminati dalla norma, dunque, gli operatori economici e giuridici possono avvalersi preferenzialmente delle forme negoziali tipizzate dal nomoteta: la qualificazione delle fattispecie astratte ha luogo in via preliminare ad opera del legislatore.
Anche i contratti atipici, non inquadrabili in un preciso schema legale, sono da considerarsi produttivi di effetti, a condizione che i regolamenti d’interessi liberamente plasmati dalle parti, siano comunque riconducibili nelle maglie delle statuizioni legali[10], nella misura in cui perseguano finalità giuridicamente suscettibili di tutela.
Gli artt. 41 e 43 della Costituzione anticipavano già la necessità di un intervento pubblico nell’economia, con cui si mirasse alla «sovrapposizione ai meccanismi di mercato di un modello giuridico di sviluppo definito dalla volontà politica»[11], alla stregua di una concezione statalista dell’ordinamento delle relazioni economiche.[12] Lo Stato funzionalizzava la proprietà e l’impresa agli obbiettivi che intendeva conseguire; i singoli rilevavano come semplici destinatari delle sue decisioni: le sole in grado di stabilire ciò che è bene per la società. Questo modello “dirigistico” dell’economia, entra in crisi con la partecipazione dell’Italia alle Comunità Europee, prima, e all’Unione Europea, poi. Il mutamento sembra abbia fatto leva sulla rinnovata consapevolezza, maturata nella società civile, del valore dell’iniziativa e della responsabilità individuale nel campo economico. Si è quindi affermata una cultura che riconosce nel mercato l’ambito nel quale i singoli autoregolano i propri interessi mediante lo scambio di beni e di servizi.[13]
Il mercato diventa il luogo d’esercizio dell’autonomia soggettiva, dunque, dell’attitudine del soggetto a determinare gli obbiettivi della propria azione e a disciplinarsi in funzione del loro raggiungimento; sebbene l’accelerazione che l’economia moderna ha impresso alla vita di relazione abbia mortificato le tradizionali forme di scambi individuali ed abbia imposto esigenze di standardizzazione e massificazione dei rapporti, potendosi addirittura parlare di contrattattazione senza accordo.[14]
Lo scambio dei beni e dei servizi economici non può prescindere dallo strumento contrattuale e pertanto la regolazione dei contratti è un momento decisivo della regolazione del mercato.[15]
Nelle società moderne compito primario ed ineludibile del legislatore è proprio quello di regolare il mercato, ferme restando le insindacabili istanze di libera iniziativa economica, al fine di realizzare l’obiettivo della giustizia e dell’efficienza dei rapporti.
Il legislatore prende atto di una realtà economica fortemente strutturata, dove gli scambi si realizzano secondo una precisa trama di prassi e consuetudini commerciali, di modelli uniformi di contratti atipici, rivelatori dell’attitudine dei singoli a regolare da sé la propria condotta. 
E’ di tutta evidenza che nella nostra epoca globalizzata, il rispetto di un patto, di un contratto, non nasce dal solo comando eteronomo della legge, bensì dalla cogenza del vincolo stesso e, quindi, dalla capacità delle parti di mantenere la parola data.[16]
In questa temperie, un legislatore accorto dovrebbe adoperarsi a che l’autoregolamentazione possa esercitarsi in condizioni di equilibrio fra gli operatori economici, agendo sulla correttezza e sulla trasparenza delle loro negoziazioni e sulla stabilità degli accordi che essi raggiungono.
Si tratta, esemplificativamente, di colpire le asimmetrie informative che impediscono agli agenti negoziali di potersi impegnare alla luce delle effettive cognizioni necessarie; di contrastare le disparità in ordine alla programmazione ed esecuzione del regolamento negoziale che negano la sinallagmaticità fra le prestazioni; di combattere i monopoli, le intese e le concentrazioni collusive fra imprese, che ostacolano l’instaurarsi di un’effettiva concorrenza; di rafforzare l’inderogabilità degli impegni contratti, sanzionando la leggerezza nei traffici commerciali mediante il riferimento all’autoresponsabilità individuale.[17]
Il diffuso bisogno di giustizia che permea di sé i più svariati ambiti della vita di relazione, non ha sottratto al proprio vaglio neppure la materia contrattuale, a maggior ragione all’esito delle ultime evoluzioni e delle neonate figure contrattuali. La scarna disciplina codicistica che ruota attorno all’istituto della rescissione per lesione come risposta alle più tradizionali esigenze di giustizia contrattuale, appare di gran lunga sorpassata dalla recente tendenza ad indagare sulla congruità dello scambio contrattuale e sui suoi eventuali squilibri o sproporzioni.[18]
Se ed in quale misura il legislatore può intervenire nella materia contrattuale a correggere il tiro delle scelte private?
In dottrina si sono registrate a tal proposito profonde oscillazioni circa l’opportunità di sottoporre ad un controllo così penetrante, fino addirittura ad espropriarle, le prerogative delle parti: la spasmodica ricerca di un equilibrio tra le prestazioni è persino giunta ad equiparare la sua mancanza o la non perfetta equivalenza, alla mancanza di causa. Superati questi eccessi è necessario ammettere che un legislatore attento non avrebbe potuto disinteressarsi della giustizia dello scambio contrattuale, ricollegandolo tuttavia ai più “duttili” principi di buona fede, congruità ed equità, proporzionalità ed adeguatezza del rapporto obbligatorio.[19]
«Il nuovo diritto dei contratti è senz’altro un diritto che si ispira a questa problematica di fondo, il ruolo della persona nel mercato, la funzione del mercato per la persona».[20]
“Giustizia contrattuale” è formula oggi largamente usata, pur non trovando un diretto riscontro nelle fonti positive. Continua ad essere correntemente adoperata dalla dottrina civilistica italiana e non solo, e non può negarsi che apra all’indagine dell’interprete suggestivi orizzonti.[21]
Il fascino di questa ricerca deriva anche dalla seria difficoltà di ricondurre tale nozione ad un significato univoco: vi convergono prospettive ideologiche, etiche, economiche, sociologiche oltre che giuridiche naturalmente.
Così, nel discorso che su di essa svolgono i giuristi, non è agevole distinguere le une dalle altre.
Conviene tuttavia soffermarsi su alcune considerazioni preliminari per la stessa ricchezza d’implicazioni della formula e per la complessità delle connessioni tematiche. A nulla varrebbe il suo impiego, disgiunto dai circoscritti problemi di disciplina dei rapporti cui essa si riferisce, la varietà dei quali non ammette un dibattito che sia al tempo stesso attendibile, e tuttavia indifferenziato.[22]
Una seria analisi sulla giustizia contrattuale non può prescindere dal sindacato che i giudici potrebbero esercitare sul contratto[23] e sul suo stesso oggetto, nella specie sulle condizioni economiche dello scambio, su quelle normative del rapporto, ovvero su entrambe, nelle loro correlazioni ed interazioni.[24] Si pensi anche ad una valutazione sul contenuto del contratto che ne analizzi la compatibilità con i valori della persona: i termini e i criteri del controllo potrebbero concernere valori etici di giustizia, commutativa o distributiva, e di solidarietà sociale, ovvero essere desunti da parametri economici e normativi, ancorati agli stessi indici offerti dal mercato e dalle prassi contrattuali.
Gli elementi e le circostanze dell’accordo potrebbero consistere nell’assetto economico-normativo, così come risultante dalla convenzione, rapportata ad un ideale modello di equilibrio giusto. Le stesse componenti potrebbero desumersi dalla relazione causale che sussisteva tra le condizioni soggettive e oggettive delle parti e le condotte da esse tenute nella fase negoziale e formativa[25], e il contenuto delle pattuizioni che ne sia stato l’effetto successivo e conseguente. Il controllo di giustizia potrebbe coivolgere sia determinate categorie di contratti e di contraenti, sia la generalità dei rapporti contrattuali.
Con queste avvertenze ed, anzi, proprio in vista delle inevitabili articolazioni problematiche, può cogliersi un significato unitario e comprensivo della giustizia contrattuale.
Questa, nella sua letteralità, potrebbe comprendere la stessa forza vincolante del contratto e le regole che la assicurano, assumendosi lo stesso pacta sunt servanda quale precetto etico espressivo di valori di giustizia.
Ma il significato che appare implicato dall’uso corrente della formula sembra piuttosto esprimere una contrapposizione, o quantomeno una tensione, una conflittualità potenziale, tra vincolo contrattuale e giustizia, tra osservanza del contenuto delle pattuizioni e salvaguardia di interessi che sono da esse pregiudicati e che sia invece giusto proteggere.[26] Non ha avuto modo di affermarsi nella nostra tradizione la costruzione dall’insieme di queste regole, di un principio generale, di una portata che le trascendesse, sul quale fondare un controllo circa la conformità del contratto ad un modello ideale di giusto equilibrio economico-normativo e un conseguente controllo e adeguamento giudiziale delle condizioni convenute dalle parti.
Pertanto, rispetto a tali regimi, la formula “giustizia contrattuale” non sembra possa avere altro significato che quello di una loro sintesi descrittiva.[27]
Si è andati alla ricerca di un fondamento di diritto positivo[28] per un concetto, quello della giustizia contrattuale, pur così vicino alle coscienze e al comune sentire, che tuttavia, come abbiamo visto, non necessariamente implica valori giuridici in senso strettamente tecnico.
Ed è naturale che i fautori di tendenze innovative, in mancanza di precetti più definiti dai quali trarre il principio, si siano volti al valore costituzionale di solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.) ed alla clausola generale di buona fede, onde fruire di più estesi spazi d’argomentazione.[29]
Di là da queste implicazioni, è necessario chiarire se si vada alla ricerca di un precetto di contenuto etico, pur destinato ad essere trasferito nell’ordine giuridico, o di un precetto da mutuarsi dall’ordine economico.
O piuttosto alla ricerca di un valore etico destinato ad essere attuato mediante il riferimento a parametri economici? E – secondo la distinzione aristotelica, che nei discorsi dei giuristi, oltre che in quelli degli studiosi di filosofia morale e di teoria della giustizia, mostra una persistente attualità – vuole assumersi una qualificazione di giustizia in senso distributivo o commutativo?[30]
Quando si parla di equilibrio contrattuale in rapporto a parametri economico-normativi, la soluzione più corretta sembrerebbe quella di ricollegare la giustizia nello scambio, alla giustizia commutativa. Può considerarsi inopportuno in questa sede assumere il contratto quale strumento per modificare gli assetti distributivi della ricchezza in senso perequativo.[31]
Il controllo giudiziale sul contratto è inidoneo alla realizzazione di finalità di giustizia distributiva, e tuttavia non totalmente incompatibile con le finalità di giustizia commutativa: alle normative d’ordine fiscale, previdenziale o simili possono affiancarsi anche regole di diritto dei contratti che impongano imperativamente prezzi e condizioni normative. Non mancano, infatti, tentativi di stabilire connessioni tra giustizia contrattuale commutativa e distributiva, e di valorizzare la seconda, anche rispetto ad un sindacato giudiziale sui contenuti del contratto.
Una pluralità di contratti sperequati può nuocere ad una giusta distribuzione della ricchezza tra i consociati, particolarmente nei confronti di quei soggetti e di quei ceti già penalizzati.
La giustizia commutativa, pur consentendo così di contrastare il deterioramento delle sperequazioni distributive, non può comunque considerarsi lo strumento efficace per correggerle.
La tendenza più recente del diritto dei contratti[32] è, però, quella di ricondurre il sindacato su di essi, ai canoni della giustizia distributiva, tenuto conto dei profondi squilibri che si registrano nella prassi commerciale. Il trend è nel senso di controllare i trasferimenti di ricchezza, mirando ad evitare che i più ricchi, per ciò solo dotati di maggiore forza contrattuale, si avvantaggino a danno dei più poveri,[33] ciò che è generalmente noto come “il divieto di abuso di posizione dominante”.
A tal fine gli interpreti hanno sempre specificato ed ampliato gli obblighi derivanti dalle clausole generali di buona fede ed equità, affidandogli un ruolo imperativo e addirittura derogatorio della stessa volontà dei contraenti.[34]
La crisi dello Stato Sociale, come già si diceva in premessa, e l’ampliamento degli scopi della legislazione privatistica[35], sempre più attenta al mantenimento ed allo sviluppo degli equilibri sociali, richiederebbero uno sforzo nuovo, diretto a rifondare, su basi di giustizia distributiva, una moderna teoria generale del contratto.
Può la nozione di “giustizia” contrattuale considerarsi coincidente con quella di equilibrio contrattuale?
«Da un lato, un assetto contrattuale equilibrato è, con alta probabilità, anche giusto, dall’altro, un contratto squilibrato sotto il profilo normativo e/o economico non è sempre in sé iniquo, essendo, al contrario, giustificabile in concreto».[36]
La valutazione di conformità a giustizia dell’equilibrio economico-normativo stabilito dai contraenti è suscettibile di essere ancorata a parametri differenti: un modello ideale di equilibrio contrattuale giusto o, viceversa, valori e standards espressi, in concreto, dal mercato.
«Il ricorso ad un criterio etico-equitativo aprirebbe all’interprete spazi indefiniti di apprezzamento, conducendo ad un giudicato disomogeneo ed imprevedibile.
D’altra parte, anche i dati offerti dal mercato sottoporrebbero il giudizio al rischio di risultati iniqui, poiché non tutti i fattori d’iniquità sono stati effettivamente rimossi dalle norme che presiedono al funzionamento del mercato».[37]
La ricerca di criteri economici, scientificamente provati, che consentano di determinare un fondamento unitario e stabile al valore oggettivo dei beni, dei servizi e delle condizioni normative che ne accompagnano lo scambio, non appartiene alla moderna analisi economica: del resto, se si ritenesse a priori contrario a giustizia, in senso economico ed etico, l’equilibrio contrattuale che si discosti da tali valori, si finirebbe con l’ignorarne le ragioni, ed una valutazione di conformità a giustizia non può assolutamente prescinderne.[38]
Può pertanto condividersi la scelta degli interpreti di adottare, come criterio di giudizio, i parametri derivanti dai dati di mercato, pur apportandone i doverosi correttivi: le clausole ricorrenti nelle transazioni commerciali, omogenee a quelle da sottoporre a valutazione, sempre che non derivino da comportamenti abusivi, ma siano il frutto di un corretto funzionamento del mercato.
Chi opera la comparazione dovrà altresì considerare il complesso delle circostanze e delle condotte in cui l’operazione in concreto s’inserisce: le condizioni soggettive delle parti, gli interessi perseguiti dalle stesse, il loro comportamento in fase di trattativa e di formazione del contratto; l’eventuale difformità delle condizioni contrattuali rispetto a quelle correnti nel mercato, potrebbe giustificarsi proprio alla luce della situazione concreta da cui nessun giudice può arbitrariamente prescindere.
                                                                                                       
                                                                                                        Dott.ssa Bruna FRANCIONE
                                                                                     francionebruna@libero.it               
 
 
 
 
 
 
 
Bibliografia
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[1] Costanza M., Meritevolezza degli interessi ed equilibrio contrattuale, in Contr. e impresa, 1987, p. 423 e ss.
[2] Bianca C. M., Il contratto, Diritto civile, vol. III, Milano, 1987, p. 463 e ss.
[3] Scalfi G., Corrispettività e alea nei contratti, Milano-Varese, 1960, p. 70 e ss.
[4] Caringella F., Studi di diritto civile, tomo II, Giuffrè editore, Milano, 2005, p. 1314.
[5] Roppo V., Il contratto del duemila, Torino, 2002, p. 495.
[6] Nanni L., La clausola generale di buona fede, in Clausole e principi generali dell’argomentazione giurisprudenziale degli anni novanta, Padova, 1998, p. 332 e ss.
[7] Patti G. e S., Responsabilità precontrattuale e contratti standard, in Il codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1993, p. 323 e ss.
[8] Benedetti G., Tutela del consumatore e autonomia contrattuale, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 1999, p. 809 e ss.
[9] Serra M. P., La giurisprudenza al tempo di internet, in www.AmbienteDiritto.it
[10] Sacco R. e De Nova G., Il contratto, in Tratt. di dir. civ. Sacco, III ed., Torino, 2004, p. 22 e ss.
[11] Mengoni L., Autonomia privata e Costituzione, in Banca, Borsa e titoli di credito, 1997, I, p. 3 e ss.
[12] Irti N., Teoria generale del diritto e problema del mercato, in Riv. dir. e proc. civ., 1998, p. 14 e ss.
[13] Perlingieri P., Il nuovo diritto dei contratti fra persona e mercato, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 1999, p. 827 e ss.
[14] Irti N., Scambi senza accordo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, p. 347 e ss.
[15] Lanzillo R., Regole del mercato e congruità dello scambio contrattuale, in Contr. e impr., 1985, p. 309 e ss.
[16] Galgano F., Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, in Contr. e impr., 2000, p. 205 e ss.
[17] Tolone S., L’ordine della legge ed il mercato. La congruità dello scambio contrattuale, Torino, 2003, p. 122 e ss.
[18] Volpe F., La giustizia contrattuale fra autonomia e mercato, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2004, p. 9 e ss.
[19] D’Angelo A., La buone fede, in Il contratto in generale, tomo IV, in Tratt. di dir. priv. Bessone, Torino, 2004, p. 160 e ss.
[20] Perlingieri P., Il nuovo diritto dei contratti fra persona e mercato, op. cit., p. 832 e ss.
[21] Volpe F., La giustizia contrattuale fra autonomia e mercato, op. cit., p. 28 e ss.
[22] D’Angelo A., La buone fede, mon. cit., p. 160 e ss.
[23] Barcellona M., La buona fede e il controllo giudiziale del contratto, in Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo. A cura di S. Mazzamuto, Torino, 2002, p. 310 e ss.
[24] Camilletti F., Profili del problema dell’equilibrio contrattuale, Giuffrè, Milano, 2004, p. 4 e ss.
[25] D’Amico G., Regole di validità e di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 49 e ss.
[26] D’Angelo A., mon. cit., p.160 e ss.
[27] Camilletti F., Profili del problema dell’equilibrio contrattuale, op. cit., p. 24 e ss.
[28] Marini G., Ingiustizia dello scambio e lesione contrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1986, p. 257 e ss.
[29] Russo D., Sull’equità dei contratti, Quaderni della Rassegna di diritto civile diretta da P. Perlingieri, Edizioni Scientifiche Italiane, 2001, p. 58 e ss.
[30] Barcellona P., Intervento statale ed autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, p. 26 e ss.
[31] Barba A., Libertà e giustizia contrattuale, in Studi in onore di P. Rescigno, II, Milano, 1998, p. 11 e ss.
[32] Alpa G., Brownsword R., Iudica G., Relazione all’incontro di studi sulla Buona Fede. Equità. Equity., tenutosi presso l’Università Bocconi di Milano, nell’ambito del seminario Autonomia privata ed equilibrio contrattuale, 5 maggio 1999;
in http://www.jus.unitn.it/cardozo/Review/Contract/Lord1.html
[33] Galgano F., Squilibrio contrattuale e malafede del contraente forte, in Contr. e Impr., 1997, p. 420 e ss.
[34] Riccio A., La clausola generale di buona fede è, dunque, un limite generale dell’autonomia contrattuale, in Contratti, 1999, p. 803 e ss.
[35] Vettori G., Autonomia privata e contratto giusto, in Riv. dir. priv., 2000, p. 20 e ss.
[36] D’Angelo A., Il contratto in generale. La buona fede, in Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, XIII, 4, Torino, 2004, p. 155 e ss.
[37] D’Angelo A., op. ult. cit., p. 169 e ss.
[38] Caringella F., Studi di diritto civile, tomo II, Giuffrè editore, Milano, 2005, p. 1310 e ss.

Francione Bruna

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