La fonte primaria del rapporto obbligatorio: il contratto

Scarica PDF Stampa

I. Premessa: brevi cenni introduttivi

Quando si parla di obbligazioni e, più nello specifico, di fonti da cui ha origine un rapporto di natura obbligatoria il dato normativo da tenere a mente è l’art. 1173 c.c.. Quest’ultimo statuisce espressamente che le obbligazioni possono derivare da “contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”.

Nonostante la chiarezza espositiva della norma in commento, non si è fatto attendere l’intervento della giurisprudenza, il cui intento è stato quello di definirne non solo i confini interpretativi ma anche l’ambito applicativo. In particolare, i giudici di legittimità hanno inteso porre l’accento su profili complessi ed involgenti settori disciplinati anche da norme di natura settoriale. Dalle prestazioni non giuridiche di mera cortesia e le prestazioni gratuite sino all’annosa questione inerente la mancata o tardiva attuazione di direttive comunitarie.

Relativamente alle prestazioni animate da sentimenti di benevolenza o di condiscendenza, vale ancora oggi la classificazione operata dagli orientamenti tradizionali[1], secondo cui occorre distinguere le prestazioni non giuridiche di mera cortesia da quelle gratuite in senso stretto.

Le prime si inseriscono in rapporti di norma non rilevanti nella sfera giuridica; le seconde, invece, vanno inquadrate nell’alveo dei rapporti giuridici obbligatori, di natura contrattuale, nel cui ambito l’attuazione della prestazione va intesa quale adempimento, divenendo così fonte di responsabilità ex art. 1218 c.c..

Dunque, la prestazione gratuita ha carattere contrattuale, dovendosi ritenere sussistente un vincolo negoziale seppur a titolo non oneroso. Ancor più, si ritiene che affinchè possa individuarsi una prestazione gratuita, e non di mera cortesia, è necessaria la ricorrenza di determinati elementi.

In primo luogo, occorre che la prestazione assolva ad una funzione economico-sociale rilevante e meritevole di tutela; in secondo luogo, è necessario che la prestazione sia suscettibile di valutazione economica, dovendo comportare un beneficio di natura patrimoniale per il destinatario; infine, deve ricollegarsi ad un interesse di chi la esegue, seppur mediato o indiretto[2].

Per quanto concerne la seconda problematica, ovvero l’omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano di direttive comunitarie, va detto che la giurisprudenza è intervenuta più volte sul punto, adottando posizioni assolutamente concordi.

Un caso emblematico è quello che ha riguardato la mancata attuazione da parte del legislatore italiano, nel termine prescritto, delle direttive comunitarie riguardanti la retribuzione della formazione dei medici specializzandi[3], con riferimento ai soggetti che avevano seguito i corsi di specializzazione medica dal 1 gennaio 1983 sino all’anno accademico 1990-1991.

La Cassazione ha ritenuto che in tali ipotesi veniva a profilarsi una responsabilità per inadempimento dell’obbligazione ex lege in capo allo Stato; dunque, gli interessati avevano diritto al risarcimento dei danni, stante la perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando la pretesa risarcitoria assoggettata al termine prescrizionale di natura decennale[4].

Profilo altrettanto importante sul quale i giudici sono intervenuti ha riguardato la valutazione dei danni. In particolare, gli Ermellini hanno ritenuto che fra questi andassero ricompresi anche i pregiudizi connessi alla mancata percezione, da parte del medico specializzando, di una adeguata remunerazione. E, dunque, non solo quelli conseguenti alla inidoneità del diploma di specializzazione al riconoscimento negli altri Stati membri e al suo minor valore, sul piano interno, per l’accesso ai profili professionali[5].

Ne è conseguito che lo Stato fosse considerato l’effettivo responsabile dell’inadempimento e, dunque, l’unico soggetto legittimato passivo, con conseguente esclusione di una responsabilità di tipo solidale delle Università presso le quali la specializzazione venne acquisita[6].

 

II. Sulla definizione del contratto: norme e giurisprudenza a confronto

Il contratto è considerato la fonte primaria da cui ha origine un rapporto di natura obbligatoria. Le norme che permettono una definizione del contratto e, ancor più, della responsabilità contrattuale (rectius: da inadempimento contrattuale) possono scindersi in due gruppi: da un lato, gli artt. 1321 e ss. c.c.; dall’altro, gli artt. 1218 e ss. c.c..

Partiamo dal primo gruppo di norme.

L’art. 1321 c.c. si sofferma sulla nozione di contratto, sancendo che esso si sostanzia in un accordo intercorrente tra due o più parti volto alla costituzione, regolazione o estinzione di un rapporto giuridico di natura patrimoniale.

Molteplici sono i profili che vengono in rilievo già ad una prima lettura del dato normativo in oggetto, i quali possono essere così catalogati: l’accordo, la formazione progressiva del contratto, la disciplina del contratto preliminare, il collegamento negoziale e l’efficacia del contratto.

L’accordo è propriamente un elemento essenziale e, come tale, necessario ai fini dell’esistenza di un regolamento contrattuale. Non a caso, l’art. 1325 c.c. nell’elencare i requisiti del contratto, fa espresso riferimento all’accordo delle parti, quale presupposto necessario alla conclusione del contratto. Volendo essere ancor più precisi, il legislatore stabilisce che il contratto si intende concluso e, dunque, perfezionato, nel momento in cui colui che ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte (cfr. art. 1326 c.c.)[7].

Dunque, il contratto si fonda sul binomio proposta-accettazione. Proposta che deve sicuramente essere idonea a determinare, nel concorso dell’adesione del destinatario, la conclusione di un valido contratto. Sul punto, non si sono fatti attendere interventi della giurisprudenza, i quali si sono rivelati concordi nel sostenere che in tema di contratti, affinchè possa dirsi configurabile una proposta, occorre che la dichiarazione del proponente sia completa (ovvero, contenere tutti gli elementi del futuro contratto) e che non sia accompagnata da riserve sul suo carattere impegnativo. Detto altrimenti, è necessario che la proposta, quale dichiarazione unilaterale, manifesti una decisione, laddove in caso contrario non sarebbe in grado di conferire al destinatario il potere di determinare, mediante l’accettazione, l’effetto conclusivo del contratto[8].

Ciò in ragione del fatto che il regolamento contrattuale si considera perfezionato solo nel momento in cui il proponente viene a conoscenza dell’accettazione altrui. Di qui, l’ulteriore necessità che l’accettazione sia conforme alla proposta, altrimenti equivarrà a nuova proposta (cfr., quinto comma, art. 1326, c.c.). Pertanto, anche l’accettazione assume una valenza significativa, tanto che in merito ad essa è intervenuta più volte la giurisprudenza di legittimità, con un fine preciso. Quello di delimitarne la natura giuridica.

Al riguardo, va detto che risulta prevalere l’idea per la quale l’accettazione, al pari della proposta, debba intendersi quale atto di natura recettizia, in quanto consistente nella totale ed incondizionata adesione alla proposta, così che il contratto possa ritenersi concluso solo se si realizza la piena congruenza tra proposta ed accettazione. Congruenza che deve estendersi anche alle clausole accessorie.

È necessario, quindi, l’incontro e la fusione di una proposta e di una accettazione perfettamente coincidenti sia per le clausole principali che per quelle accessorie[9].

Tuttavia, è fuori dubbio che la proposta e l’accettazione vadano ad inserirsi in quella che la dottrina ha inteso definire quale fase di “formazione progressiva del consenso”. Difatti, nei contratti ove l’accordo delle parti sulle clausole si raggiunge gradatamente, il momento perfezionativo del negozio è quello dell’accordo finale, fatta salva l’ipotesi in cui le parti abbiano inteso vincolarsi agli accordi raggiunti sui singoli punti riservandosi, invece, sulla disciplina degli elementi secondari.

Pensiamo alle puntuazioni o alle minute, le quali si pongono su un piano diametralmente opposto rispetto a quello del contratto preliminare

La minuta o puntuazione[10] di contratto assolve ad una precisa funzione: documentare l’intesa raggiunta su alcune parti del contratto, il quale potrà essere concluso allorquando si sarà successivamente raggiunto l’accordo sugli ulteriori punti da trattare. Dunque, la conclusione del contratto viene ad essere rinviata per il mancato raggiungimento di un comune accordo nella definizione degli ulteriori punti. Detto altrimenti, il perfezionamento del vincolo contrattuale viene differito ad una successiva manifestazione di volontà. In questo modo, le parti conservano la libertà di recesso dalle trattative, con l’unico limite della responsabilità precontrattuale prevista dall’art. 1337 c.c..

Il contratto preliminare, invece, presuppone che le parti si obblighino a prestare il loro consenso alla conclusione di una successiva contrattazione definitiva, ma con una peculiarità. Nel preliminare vengono già ad essere delineati tutti gli elementi, sia essenziali che accidentali; solo la produzione degli effetti slitta, nel senso che è rinviata al momento della stipulazione del definitivo (art. 1351, c.c.).

È fuori luogo, dunque, che vi siano dei profili di differenziazione tra puntuazioni e minute nonché contratto preliminare. Ancor più, volendo essere maggiormente precisi, è opinione ormai costante quella secondo cui il preliminare è negozio preparatorio[11] e/o propedeutico nonché dotato di ampia duttilità. Difatti, se per un verso, prepara le parti alla successiva e definitiva contrattazione, per altro, invece, è applicabile in diversi rami o campi di attività, ben potendo assumere anche contenuti diversi rispetto al mero obbligo di stipulare un contratto successivo.

Può, pertanto, discorrersi di un vero e proprio arricchimento contenutistico del contratto preliminare (appoggiato, invero, anche in campo giurisprudenziale), senza dimenticare che gli interessi devono essere pur sempre meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Ovvero, devono rispondere positivamente allo scrutinio di meritevolezza, così come imposto dal secondo comma dell’art. 1322 c.c..

 

III. Uno sguardo alla “causa” del contratto: i recenti orientamenti giurisprudenziali

Non va sottaciuta l’importanza della causa, quale elemento che il legislatore costruisce in termini di presupposto essenziale e, come tale, necessario ai fini della validità di una operazione contrattuale.

In proposito, va detto che più volte i giudici si sono soffermati sulla valenza incisiva di tale requisito, sottolineando in diverse occasioni la necessità di una valutazione della causa c.d. “concreta”, al fine di poter definire quando un dato regolamento di interessi potesse considerarsi pienamente valido e, dunque, lecito.

Pensiamo alla vexata quaestio inerente la validità del preliminare di preliminare.

In passato, erano andati profilandosi orientamenti confliggenti, che avevano condotto all’emersione di due diverse ricostruzioni. Un primo orientamento, di stampo tradizionale, che aveva guardato con favore alla fattispecie giuridica del preliminare di preliminare, ritenendola assolutamente legittima.

Diversa impostazione, invece, aveva optato per una nullità assoluta del preliminare di preliminare, sull’assunto che obbligava le parti a concludere non già un contratto definitivo bensì un successivo preliminare, con conseguente alterazione dell’essenziale presupposto di natura causale. In sostanza, stando a questo secondo filone interpretativo, si trattava di una figura illegittima in quanto conduceva i contraenti alla conclusione di un secondo preliminare, rinviando di fatto il perfezionamento del contratto in senso definitivo.

La suesposta querelle è stata risolta positivamente nel 2015 dalle Sezioni Unite, le quali hanno inteso aderire all’orientamento tradizionalistico e, dunque, propendere per una liceità del preliminare di preliminare. Il motivo? A detta degli Ermellini, anche alla frammentazione della volontà negoziale si deve attribuire valore funzionale, di guisa che anche il preliminare di preliminare è passibile di tutela giuridica.

Ancor più, il Supremo Consesso è andato ben oltre una mera indagine del profilo causale, sottolineando, inoltre, la necessità di procedere ad una revisione della tradizionale teoria oggettiva della causa. Anziché limitarsi ad una adesione della concezione oggettiva (per cui, la causa è da intendersi quale funzione economico-sociale cui deve tendere il contratto) – sostengono i giudici – occorre guardare alla funzione concreta della pattuizione. Il giudice, in sostanza, deve verificare l’effettivo e concreto assetto di interessi sottesi all’operazione economico-contrattuale.

Ancora, pensiamo alle recente pronuncia  della Cassazione[12] in tema di divieto del patto commissorio e contratto di sale and leasing back.

In particolare, il Supremo Consesso ha statuito che il contratto in oggetto è da considerarsi nullo, per illiceità della causa, se diretto a perseguire le finalità proprie di clausola commissoria. La ratio è facilmente comprensibile: il patto commissorio è vietato ex lege (2744 c.c.) perchè finalisticamente diretto a determinare uno squilibrio contrattuale, atteso che, in caso di inadempimento del debitore, il creditore finirebbe con l’appropriarsi di un bene il cui valore potrebbe rivelarsi anche superiore rispetto all’effettivo ammontare del credito. Dunque, non verrebbe salvaguardata l’effettiva coincidenza tra valore del bene immobile, offerto in garanzia, e valore del credito, dedotto a fondamento del rapporto obbligatorio, creandosi così una alterazione del nesso di corrispettività. Per ovviare a tale problematica, basterebbe procedere ad una previa stima del bene. Ed è proprio in tal senso che si muove il diverso patto marciano. Quest’ultimo, infatti, prevede che al termine del rapporto si proceda ad una valutazione del bene, in modo da tutelare l’equilibrio contrattuale ed evitare che il debitore subisca un pregiudizio in conseguenza del trasferimento del bene.

Di qui, la soluzione offerta dalla Cassazione Civile, per cui la clausola marciana ben può atteggiarsi a valido strumento di negoziazione in quanto idoneo a scongiurare una illiceità del contratto di sale and lease back. Il motivo è semplice: siffatta clausola prevede che in caso di inadempimento del pagamento dei canoni, il concedente dovrà appropriarsi di un bene il cui valore sia adeguatamente proporzionato all’ammontare del credito rimasto inadempiuto. Scongiurandosi, in tal modo, una alterazione del sinallagma contrattuale ed assicurando, al contempo, una maggiore tutela al debitore. Dunque, anche in tali ipotesi, si rende necessaria una valutazione del contratto in rapporto alla sua funzione tipica, ovvero alla causa non già in astratto bensì in concreto. Nel senso che il contratto di sale and lease back dovrà assolvere alla funzione di scambio e non già di alienazione a scopo di garanzia. Dovrà, in sostanza, non contrastare con il disposto di cui all’art. 2744 c.c. e, dunque, non contenere una clausola compromissoria, altrimenti nullo per illiceità della causa c.d. “concreta”.

 

IV. Brevi riflessioni finali

Dai diversi orientamenti emerge chiaramente l’esigenza di dare attuazione ad una opera di revirement, non dovendosi più optare per una adesione incondizionata alla teoria della funzione economico-sociale del contratto. La ragione giustificatrice risiede essenzialmente nel fatto che quest’ultima tesi prende in debita considerazione la causa solo da un punto di vista astratto e, quindi, finisce con il sostenere che la tipicità di un contratto dipenda esclusivamente dalla liceità della causa. In realtà, come hanno recentemente e più volte evidenziato i giudici di legittimità, la situazione è ben diversa.

Difatti, un contratto seppur atipico non può definirsi in automatico illecito; il giudice dovrà effettuare una valutazione che tenga conto della causa in concreto, cioè che non trascuri gli interessi concreti dei contraenti. Dunque, una valutazione per cui il contratto atipico (seppur non riconducibile ad un tipo e/o schema negoziale codificato a livello normativo) dovrà considerarsi pur sempre lecito se gli interessi vantati dalle parti risultino meritevoli di tutela giuridica[13].

 

 

[1] Cfr. Cass, 22 gennaio 1976, n. 185

[2] Sulla medesima scia Cass., 15 giugno 1973, n. 1752. Il giudice, in tal caso, ha distinto il trasporto gratuito di persona da quello di mera cortesia, stabilendo che nel primo caso il vettore ha un interesse di natura contrattuale, sia pure mediato, ma giuridicamente rilevante, ad eseguire la prestazione; mentre nel secondo, manca sia l’interesse che il vincolo di natura negoziale.

[3] Nello specifico, le direttive comunitarie n. 75/362/CEE, n. 82/76/CEE, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi.

[4] Ciò in ragione del fatto che la pretesa risarcitoria è finalizzata all’adempimento di una obbligazione riconducibile allo schema paradigmatico della responsabilità contrattuale, ex art. 1218 c.c.. Al riguardo, si veda Cass., S.U., n. 9147/2009

[5] Sul punto Cass., sez. I, 10 marzo 2010, n. 5842

[6] Cfr. Cass., sez. III, 11 novembre 2011, n. 23558

[7] Sul punto, è intervenuta la Cassazione, per la quale la perfezione del contratto è governata dal principio di cognizione. Per cui, il contratto si intende concluso nel momento e le luogo in cui si perfeziona l’accettazione e questa, a sua volta, si perfeziona nel luogo e nel tempo in cui venga a conoscenza del proponente. Altresì, è opinione ormai costante quella secondo cui, perché risulti osservato il principio di “conoscenza”, è sufficiente che il proponente conosca l’accettazione della controparte in qualsiasi modo, anche ad esempio mediante esibizione del documento che la contiene. (Cass. n. 5971/1980; Cass., n. 6105/2003)

[8] Cfr. Cass., sez. II, 7 luglio 2009, n. 15964. I giudici sottolineano che la proposta non possa rivolgersi ad un soggetto solo per intavolare una trattativa ovvero per esprimere una disponibilità dell’autore (senza la volontà di costui) di esporsi al vincolo contrattuale se non dopo ulteriori passaggi valutativi. Dunque, deve avere natura decisionale.

[9] Si vedano, Cass., 18 MARZO 1999, N. 2472;Cass., 28 febbraio 1985, n. 1718; Cass., sez. II, 4 dicembre 2007, n. 25290.

[10] Sul punto, cfr. Cass., 17 ottobre 1992, n. 11429. In particolare, i giudici di legittimità hanno statuito che la c.d. puntuazione o minuta non ha in via generale carattere vincolativo ma solo una funzione essenzialmente storica e probatoria della fase delle trattative contrattuali, in quanto con essa le parti intendono documentare l’intesa raggiunta solo su alcuni punti. Di qui, la conclusione del contratto è rinviata al successivo accordo sugli ulteriori e diversi punti. Volendo essere, poi, maggiormente precisi, va menzionata anche la sentenza n. 10276 del 2002, ove la Cassazione ha evidenziato due diverse nozioni di minuta o puntuazioni del contratto. In particolare, bisogna distinguere l’ipotesi in cui i documenti contengano intese parziali in ordine al futuro regolamento di interessi da quella in cui, invece, i documenti predispongano con completezza un accordo negoziale in funzione preparatoria del medesimo. Nel primo caso, verrà a profilarsi la c.d. puntuazione di clausole; nel secondo caso, la puntuazione completa di clausole.

[11] Di qui, il collegamento con ulteriori tipi contrattuali, definiti anch’essi dalla giurisprudenza in termini di atti aventi natura preliminare e/o propedeutica. Il riferimento è: al contratto normativo, alla prelazione convenzionale nonché all’opzione.

[12] Sentenza n. 1625/2015.

[13] Al riguardo, la dottrina ha affermato che la causa è la sintesi degli interessi reali che il contratto è diretto a perseguire. Non a caso, Perlingieri ha affermato che la causa è un quid pluris che illumina il contratto, la sintesi degli effetti essenziali del contratto.

Dott.ssa Stefanelli Eleonora

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento