La disciplina europea delle garanzie della vendita di beni ai consumatori

La nuova direttiva sulle garanzie nella vendita di beni di consumo, recentemente approvata assieme alla direttiva sui contenuti digitali (2019/770/UE), intende sostanzialmente rispondere (conformemente all’indirizzo fondamentale del processo di armonizzazione legislativa) ad esigenze già messe in evidenza in occasione del progetto CESL.

Indice.

  1. 1. Le premesse
  2. Il requisito della durabilità introdotto dalla recente Dir. 2019/771
  3. Le normative degli Stati europei
  4. Cass., Sez. un. n. 18672/2019 alla luce dell’art. 16, par. 1, Dir. 771/2019
  5. L’armonizzazione massima parziale tra perimetro applicativo e campo di influenza.

 

  1. Le premesse

È consolidata la distinzione, in tema di compravendita, tra vizio redibitorio, mancanza di qualità e aliud pro alio. Il primo riguarda le imperfezioni e i difetti inerenti al processo di progettazione o fabbricazione della cosa; la seconda, la natura della cosa e concerne tutti gli elementi essenziali e sostanziali che influiscono, nell’ambito di un medesimo genere, sull’appartenenza di questa ad una specie piuttosto che ad un’altra; il terzo, l’appartenenza della cosa ad un genere del tutto diverso o la presenza in essa di difetti che le impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella ritenuta essenziale dalle parti[1].

Sta tuttavia emergendo un ulteriore tipo di vizio, quello della non sufficiente “durabilità” (o affidabilità) del prodotto[2]. Varie sono la definizione di durabilità, generalmente tratte dalla Dir. 2009/125/CE[3], relativa alla progettazione ecocompatibile di prodotti connessi all’energia. Quella più comune fa riferimento alla capacità del prodotto di mantenere le sue caratteristiche e performance durante tutto il suo ciclo di vita utile[4]. Data questa definizione, o meglio, questa nozione, è immediata la constatazione che, in un’ottica di tutela del consumatore, la durabilità non può non condizionare anche il periodo (di validità) della garanzia legale[5] del prodotto per difetto di conformità, essendo immediato che se un prodotto, ad esempio, con attesa di vita media di quattro/sei anni, ha un periodo di garanzia legale di due anni, la tutela assicurata è debole ed il sistema del tutto inefficiente.

Il produttore tende a non offrire informazioni sulla durabilità del prodotto e sulla sua riparabilità, evidentemente preoccupato di non appannarne l’immagine; in tal modo però priva il consumatore di importanti elementi di valutazione nella decisione di acquisto.

Si evidenziano qui i due profili d’esame della durabilità di un prodotto destinato ai consumatori: quello del vizio (occulto) del bene e quello della lesione inferta al processo decisionale del consumatore nella scelta di acquisto. Quest’ultimo aspetto riguarda, principalmente, la tematica delle pratiche commerciali scorrette (v. art. 21 c. cons.)[6].

La questione della durabilità del prodotto ha interessato la giurisprudenza tedesca degli anni ’60, la quale si era già posta il problema se l’acquisto di un bene di consumo implicasse anche la possibilità di poterlo riparare durante la sua vita utile e, conseguentemente, se il costruttore del bene fosse obbligato a mantenere sul mercato i necessari pezzi di ricambio[7].

È, peraltro, noto che una risalente prassi commerciale ha indotto i fabbricanti di beni di consumo (tra essi i costruttori di vetture) a consentire la presenza sul mercato di pezzi di ricambio per almeno dieci anni dalla cessazione della produzione del bene complesso, assecondando le aspettative di utilizzo del bene riposte dal consumatore. Così facendo, i fabbricanti evitano anche di attuare comportamenti anti concorrenziali, dal momento che essi, “dominando” il mercato (secondario) dei pezzi di ricambio, possono sfruttare questa posizione, aumentando arbitrariamente il prezzo dei medesimi[8].

La UE ha introdotto nel 1999 una normativa che regola la garanzia legale del venditore dei beni al consumo e quella commerciale del fabbricante dei beni, stabilendo un periodo minimo di efficienza del prodotto di due anni, periodo entro il quale il venditore deve provvedere gratuitamente a riparare o sostituire il bene, salvo il compratore non richieda la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo (Dir. 1999/44/CE, ora sostituita dalla Dir. 2019/771/UE)[9]. Alcuni Stati comunitari hanno recepito la direttiva (1999/44/CE) mantenendo le proprie normative nazionali in quanto più favorevoli al consumatore. Tra essi, come si dirà, la Gran Bretagna e l’Olanda. La Dir. 1999/44/CE, all’art. 2, afferma: “1. Il venditore deve consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita. 2. Si presume che i beni di consumo siano conformi al contratto se: a) sono conformi alla descrizione fatta dal venditore e possiedono le qualità del bene che il venditore ha presentato al consumatore come campione o modello; b) sono idonei ad ogni uso speciale voluto dal consumatore e che sia stato da questi portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto e che il venditore abbia accettato; c) sono idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo; d) presentano la qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo, che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal suo rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura”. L’ultima proposizione si sarebbe, all’evidenza, prestata a creare un periodo di durata della garanzia legale variabile o con un tetto massimo più elevato rispetto ai due anni. L’aver, invece, utilizzato questo tetto ha, di fatto, diminuito la forza della garanzia legale, troppo breve per la maggior parte dei prodotti di consumo[10].

La Dir. 2019/771/UE (che sostituisce la Dir. 1999/44/CE e le cui disposizioni dovranno essere applicate dal 1° gennaio 2022) ricomprende anche i beni dell’Internet of Things (IoT), cioè i beni “intelligenti” (smart goods) che funzionano (e interagiscono fra loro) per mezzo di sistemi elettronici incorporati.

Sono recentissimi i provvedimenti dell’AGCM[11] contro due noti costruttori di telefoni cellulari che, a dire dell’Autorità, avrebbero posto in essere una pratica commerciale scorretta a danno dei consumatori, non informandoli che le applicazioni proposte per “aggiornare” la funzionalità dei loro prodotti creavano, in realtà, un rallentamento delle performance dei medesimi. Ciò avrebbe indotto i consumatori – a dire dell’Autorità – a sostituire il prodotto con un altro nuovo, singolarmente lanciato in concomitanza della pubblicazione delle applicazioni. Il possessore sarebbe stato così indirettamente sollecitato dal fabbricante a comprare il prodotto nuovo, sostituendo quello “aggiornato”, che presentava meno appeal.

Si consideri che, al di là delle posizioni delle parti, è indubbio che, molto di frequente, i costruttori di prodotti di tendenza destinati ai consumatori adottano politiche commerciali molto aggressive, creando in continuazione modelli con alto tasso di sostituzione, seppur con minimi miglioramenti (upgrade program)[12]. Il tasso di sostituzione di questi prodotti è stimato mediamente in 4/5anni: in tal modo viene sfruttata dal fabbricante la “debolezza” psicologica del consumatore di voler sempre disporre del prodotto tecnologicamente più avanzato[13]. Questo comportamento commerciale dei fabbricanti è stato visto come una nuova – più sofisticata – forma di obsolescenza programmata.

Sotto un profilo economico[14], la soddisfazione del cliente si potrebbe anche raggiungere attraverso la commercializzazione di prodotti a basso prezzo e continuamente sostituiti, tale opzione appare tuttavia inefficiente in una economia circolare che si giustifica in base ai vantaggi ritraibili: a. dai consumatori, nel disporre di prodotti sicuri, affidabili e riparabili; b. dalla società, nel risparmiare sui costi, non solo economici, necessari per lo smaltimento dei rifiuti.

  1. Il requisito della durabilità introdotto dalla recente Dir. 2019/771

Da quanto sopra detto, emerge una singolare situazione che vede l’immissione sul mercato di prodotti tecnologici a media obsolescenza (ad esempio di quattro/cinque anni) che possono presentare, nell’arco di questa vita utile, il problema dell’impossibilità, per antieconomicità, della riparazione per i suoi elevati costi (che, fuori dal periodo di garanzia, devono essere sopportati dal consumatore). Conseguentemente, risulta preferibile sostituire il prodotto con un altro nuovo. Spesso tali prodotti non godono di un adeguato supporto di garanzie commerciali del fabbricante[15]. Inoltre, le informazioni sulla qualità dei prodotti offerte dai fabbricanti sono (generalmente) molto scarse: in tal modo diminuisce la consapevolezza del consumatore di acquistare un prodotto con determinate caratteristiche. La consapevolezza è una condizione indispensabile per un uso corretto e sostenibile dei prodotti[16].

La Dir. 2019/771/UE sulla vendita di beni si applicherà (dal 1° gennaio 2022) ad ogni forma di vendita (on line o face to face) di beni destinati ai consumatori, anche se incorporano un contenuto digitale che li fa funzionare[17]. Essa afferma, al ‘considerando’ 32, che “assicurare una maggiore durabilità dei beni di consumo è importante per raggiungere modelli di consumo più sostenibili e un’economia circolare (…) al fine di accrescere la fiducia nel funzionamento del mercato unico interno. Per raggiungere tali obiettivi, una legislazione dell’UE specifica per prodotto è l’approccio più appropriato per introdurre il requisito della durabilità e altri requisiti di prodotto, in relazione a tipi o gruppi specifici di prodotti, utilizzando criteri ad hoc (…). Nella misura in cui una dichiarazione precontrattuale, che forma parte integrante del contratto, contiene informazioni specifiche sulla durabilità, il consumatore dovrebbe potervi fare affidamento quale parte dei criteri di conformità”. Afferma poi che “il fatto di consentire al consumatore di chiedere la riparazione dovrebbe incoraggiare un consumo sostenibile e contribuire a una maggiore durabilità dei prodotti”.

La Dir. (art. 6) ridefinisce il significato di conformità[18], facendo riferimento ai “requisiti soggettivi di conformità”, che ricollega alla negoziazione (sono rilevanti anche tutte le informazioni precontrattuali di cui alla Dir. 2011/83/UE per i contratti conclusi a distanza) e al contenuto del contratto, e ai “requisiti oggettivi di conformità” che, invece, ricollega alle qualità del bene, anche risultanti dalle dichiarazioni pubbliche del fabbricante, comprese la durabilità e la funzionalità, rapportate ai beni del medesimo tipo e alle ragionevoli aspettative del consumatore. All’art. 7 afferma che il bene deve: “(a) essere idoneo a tutti gli scopi per i quali si impiegano di norma beni aventi le stesse caratteristiche; (b) avere le qualità del modello usato nella negoziazione; (c) essere consegnato con quegli accessori, compresi imballaggio, istruzioni per l’installazione o altre istruzioni, che il consumatore può aspettarsi di ricevere.

Il consumatore può, pertanto, fare affidamento, ai fini della ricostruzione del contenuto garanzia ex vendita, sia sulle dichiarazioni del venditore in sede di negoziazione del contratto di compravendita (dichiarazioni precontrattuali) sia sulle pattuizioni contrattuali sia, ancora, sulle generiche dichiarazioni fatte dal produttore in ogni sede (tale aspetto era già presente nella Dir. 1999/44/CE).

La garanzia commerciale del fabbricante[19] deve essere redatta su supporto durevole (durable medium) ed essere formulata in linguaggio chiaro e facilmente comprensibile. Se le condizioni stabilite nella garanzia commerciale sono meno vantaggiose per il consumatore di quelle indicate nella pubblicità, la garanzia commerciale vincola il dichiarante alle (più favorevoli) condizioni della pubblicità (art. 17).

La direttiva utilizza una nozione di difetto di conformità comune al venditore ed al costruttore. Afferma l’esigenza che il prodotto debba funzionare per un certo periodo di tempo e che sia possibile, in tale periodo, ripararlo.

La direttiva non sfrutta appieno l’interessante prospettiva della definizione della “durabilità” dei beni (requisito oggettivo di conformità del bene), con la conseguenza che questo requisito finisce per avere unicamente valenza: all’interno del difetto di conformità, nel periodo (biennale dalla consegna del bene o corrispondente alla durata della fornitura) della garanzia (art. 7/1/d) oppure “quando il produttore offre al consumatore una garanzia commerciale concernente la durabilità di determinati beni, nell’arco di un determinato periodo di tempo” (art. 17/1).

È tuttavia facile presumere che saranno le normative nazionali degli Stati comunitari a utilizzare il requisito della durabilità in modo più favorevole al consumatore, come consentito dall’art. 10/3 che permette agli Stati membri di fissare periodi maggiori di responsabilità del venditore ex garanzia.

Dunque, le premesse della direttiva fanno molto rumore per nulla (più innovativa è la Proposta di modifica del Reg. 2017/1369/UE relativa ad alcuni prodotti domestici).

La direttiva riprende opportunamente passate teorie (note 8 e 31), che favoriscono la presenza sul mercato di prodotti che durano e che sono riparabili, e le fa proprie, riproponendole nel moderno contesto della “economia circolare”. Il quadro è tuttavia ancora molto favorevole al produttore/venditore perché il periodo di responsabilità per difetto di conformità appare ancora del tutto insufficiente per consentire al consumatore di estrarre dal prodotto tutta la sua intrinseca utilità.

La posizione del consumatore è, invece, rafforzata quanto alla presunzione della presenza del difetto alla consegna; il periodo in cui essa opera è esteso da sei mesi ad un anno (art. 11/1), con facoltà per gli Stati di portalo a due anni (art. 11/2). La direttiva armonizza il periodo minino entro il quale il difetto deve manifestarsi, fissandolo in due anni dalla consegna del bene (art. 10/1) o nel periodo della fornitura del bene se essa è continuativa (art. 10/2).

Gli Stati membri devono provvedere a mantenere o creare sistemi in cui detto periodo di responsabilità non sia diminuito dalla tagliola della prescrizione dell’azione ex garanzia (cfr. art. 132/4 Codice del consumo che porta la prescrizione a 26 mesi dalla consegna del bene).

La direttiva apre, invece, a interessanti considerazioni a proposito di una visione dinamica del rapporto fabbricante/consumatore e prende atto della possibilità pratica del fabbricante di aggiornare, tramite internet, i software del prodotto in modo da permettere un funzionamento del bene costantemente conforme al contratto. In tal modo il legame fabbricante/consumatore è diretto, rafforzato anche dal fatto che incidono sul contenuto del contratto di vendita al consumatore le dichiarazioni pubbliche del fabbricante.

Viene sancito l’obbligo del fabbricante di notificare e fornire al consumatore tutti gli aggiornamenti cd. APP), compresi quelli sulla sicurezza del prodotto, necessari a mantenere conforme il bene in un determinato periodo. Non è richiesto che gli aggiornamenti migliorino il prodotto, ampliandone le sue funzioni iniziali.

Il periodo sarà quello: a. che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi in base alle caratteristiche del bene (art. 7/3/a); oppure b. quello della fornitura continuativa (art. 7/3/b) o, se lo Stato mantiene o crea un sistema in cui opera solo il regime della prescrizione dell’azione processuale (cfr. art. 5/1, seconda frase, Dir. 1999/44) e non fissa termini di durata della garanzia (cioè del periodo entro il quale deve manifestarsi il difetto di conformità), quello di prescrizione dell’azione, purché non sia inferiore a quello (armonizzato nel minimo) previsto per il manifestarsi del difetto (due anni dalla consegna o il tempo della fornitura).

Politiche commerciali più aggressive avevano praticato i costruttori giapponesi di veicoli degli anni ’80, allorché avevano cercato di favorire l’affermazione dei loro prodotti progettandoli e costruendoli con caratteristiche di affidabilità e qualità totale. Ancora oggi alcuni costruttori giapponesi di vetture rilasciano garanzie commerciali molto lunghe (a volte sino a otto anni), con questo intento o con quello, fortemente anticompetitivo, di far convergere il consumatore verso la rete del costruttore per tutte le operazioni di riparazione che avvengono entro il periodo di garanzia contrattuale.

In un’ottica ancora più moderna si pone la politica commerciale di un costruttore americano di trattori agricoli che rilascia garanzie commerciali di notevole durata e allaccia direttamente con il cliente finale intense relazioni commerciali (c.d. customer intimacy[20]). Lo stesso sforzo di relazionarsi direttamente col cliente finale lo compie il costruttore americano di vetture TESLA che assicura continui aggiornamenti dei sistemi elettronici della vettura, aggiornamenti che effettua over the air, quando la vettura è stazionaria. Si instaura così, anche in questo caso, un legame diretto tra produttore e consumatore.

Va ricordato che negli anni ’60 in Germania si sono affermate teorie[21] che hanno ipotizzato una sorta di responsabilità del produttore per “affidamento”. Il produttore, pubblicizzando con i propri marchi il prodotto, assicurerebbe al cliente finale la presenza nel bene delle qualità indicate nelle forme pubblicitarie. Tale responsabilità avrebbe natura oggettiva e deriverebbe dal principio di legittimo affidamento nel commercio. Gli obblighi del fabbricante di beni di consumo comprenderebbero anche la predisposizione di un servizio di assistenza post-vendita, la fornitura di pezzi di ricambio per periodi commisurati alla vita utile dei beni, la progettazione di beni che abbiano la possibilità di essere facilmente o convenientemente riparati. La teoria presenta la criticità di dover risalire ad un messaggio del fabbricante che affermi la bontà del prodotto, messaggio non sempre presente: il fabbricante – si rileva – ben potrebbe limitarsi a mettere in commercio il prodotto. Tuttavia la sua (attuale) validità emerge nella vendita di prodotti tecnologici di consumo, ove il ruolo del venditore è meramente esecutivo rispetto a quello del fabbricante perché è quest’ultimo che: organizza la rete di assistenza post vendita dei prodotti, rilascia la garanzia commerciale al consumatore effettua un costante controllo del prodotto sul mercato (Dir. 2001/95/CE), effettua direttamente riparazioni “over the air”.

Il consumatore, quando il prodotto presenta un difetto, utilizza preferibilmente la garanzia di fabbrica per esercitare i rimedi dalla stessa concessi. Ipotizzare allora una responsabilità del produttore per i vizi del prodotto nell’ambito della garanzia legale non è affatto un azzardo (peraltro le sue dichiarazioni commerciali sono già utilizzabili per definire il difetto di conformità), in una prospettiva di rafforzamento dei diritti del consumatore. Dal momento che il contenuto della garanzia commerciale non può essere inferiore a quello della garanzia legale, prende consistenza l’assunto che la vera relazione commerciale è quella che si instaura tra il fabbricante ed il consumatore. In tal modo, il responsabile finale nella responsabilità per i vizi nella vendita è il fabbricante così come già avviene in forza della azione di regresso che il rivenditore escusso può esercitare verso esso fabbricante (cfr. art. 18 della Dir. 2019/771/UE)[22].

Si consideri ulteriormente – sotto diverso profilo – che le dichiarazioni commerciali del fabbricante di un prodotto destinato ai consumatori possono costituire una pratica scorretta se si basano su contenuti tecnici non veritieri. Tali dichiarazioni, oltre che rilevare sotto il profilo amministrativo, possono anche esporre il venditore all’azione di garanzia per vizi. La pratica commerciale scorretta, pur non avendo immediata rilevanza sotto il profilo civilistico, rileva nella formazione del contratto e può portare all’annullamento del contratto per vizio del volere[23]. I ruoli di fabbricante e consumatore tendono così a sovrapporsi.

  1. Le normative degli Stati europei

Emerge un quadro normativo comunitario con forte attenzione verso la vendita dei beni di consumo, ma gli spunti (della Dir. 2019/771/UE) sulla maggior ampiezza della nozione di conformità, riferita sia al contratto (requisiti soggettivi) sia al tipo di bene (requisiti oggettivi) non consentono ancora di raggiungere i livelli di tutela di alcune recenti normative degli Stati membri. La Risoluzione del Parlamento Europeo del 4 luglio 2017[24]Una vita utile più lunga: i vantaggi per i consumatori e per le imprese, alzando l’asticella del livello di tutela del consumatore, afferma che la responsabilità di regresso prevista nella Proposta di direttiva (ora Dir. 2019/771) sui beni con contenuto digitale non coglie quel suggerimento del Parlamento di “responsabilità estesa del produttore” che renderebbe quest’ultimo direttamente corresponsabile al pari del venditore. Evidenzia, pertanto, l’importanza di promuovere il prolungamento della vita utile dei prodotti. Enfatizza i benefici della cd. economia circolare[25], economia che si basa sul recupero dei beni a fine vita, sulla riparazione dei medesimi in caso di malfunzionamento e su soglie di durabilità congrue.

Il documento rileva che il prodotto che dura dà fiducia al consumatore: la constatazione dell’impossibilità di riparare il prodotto crea, invece, sfiducia nel consumatore, il quale ambisce ad una ragionevole vita utile del prodotto, alla riparazione, allo sfruttamento delle utilità del prodotto: ciò implica la presenza di pezzi di ricambio sul mercato. Il prodotto non riparabile (per assenza di pezzi di ricambio o per eccessivo costo o per difficoltà tecnica) provoca una delusione del consumatore, incapace di orientarsi positivamente nelle scelte di acquisto.

Il documento inoltre constata una forte carenza nelle informazioni che riceve il consumatore dal fabbricante sulle qualità e funzionalità del prodotto e sulle garanzie che accedono al prodotto. Richiama poi le legislazioni dei Paesi che si sono maggiormente esposti su questa strada; tra essi il Belgio che dispone di una legislazione, risalente al 2012, sulla obsolescenza programmata dei prodotti alimentati da energia elettrica e la Francia che dispone di una normativa (2015) sulla riparabilità dei prodotti (nel caso delle vetture è consentita la riparazione con pièces détachées d’occasion ou de réemploi) e sulla necessaria disponibilità sul mercato dei pezzi di ricambio (la disponibilità dei pezzi di ricambio è legata al requisito della durabilità del prodotto). La Francia consente l’esercizio dell’azione di garanzia per i vizi di beni di consumo entro due anni dalla consegna, nello stesso periodo opera la presunzione della preesistenza del difetto alla consegna[26]. L’Austria richiede un’etichetta di durabilità dei prodotti. In Svezia la Dir. 1999/44/CE è stata recepita assicurando periodi di garanzia maggiori (3 anni), sono state adottate inoltre misure fiscali, in vigore dal 2018, tese a rendere meno costose le riparazioni dei prodotti. In Norvegia e Islanda la durata della garanzia è di 5 anni per quei beni che hanno una durata media più lunga di due anni (vetture, elettrodomestici). In Finlandia la vigente normative prevede che “a product is defective if does not last as can ordinarily be expected” tenendo conto di vari elementi, tra i quali il prezzo. L’Olanda dispone di una normativa del tutto simile a quella della Finlandia che assicura, a determinati beni, una durata maggiore verificandone la vita utile[27].

La direttiva 1999/44/CE non è stata trasposta integralmente in Gran Bretagna perché tale Paese già disponeva di una legislazione molto tutelante che, in alcuni casi, estende la garanzia legale sino a sei anni dall’acquisto del bene. Nell’arco di questo periodo viene fatta un’analisi di quali possono essere le legittime aspettative del consumatore sul funzionamento di quel bene, viene considerata anche la durabilità. Essa è poi commisurata alle caratteristiche intrinseche del bene (c.d. bunch of flower theory).

Per i paesi, come la Gran Bretagna, che non fissano il periodo della garanzia legale, ma usano solo limiti massimi, si pone il problema di come determinare la vita utile dello specifico prodotto. I giudici fanno generalmente riferimento ai dati esperienziali. Di norma, i costruttori dei prodotti non accettano di buon grado giudizi sulla precoce consunzione dei loro prodotti e li risolvono anticipatamente con transazioni, all’evidente fine di evitare danni reputazionali. Questo aspetto diventa determinante in quanto in molti paesi il danno all’immagine è valutato come evento disastroso, anche in relazione agli stakeholders. Sono pertanto i costruttori dei prodotti che decidono, in base alle loro politiche commerciali, come gestire questi claim dei consumatori, relegando i rivenditori a ruoli subalterni, pur essendo impegnata la garanzia legale.

Il tema interessa anche le garanzie commerciali[28]: tradizionalmente il fabbricante concede una garanzia commerciale (volontaria e gratuita) di contenuto superiore a quella legale. La garanzia commerciale[29] non contiene di norma, specie riguardo a beni di contenuto tecnologico, indicazioni sulla vita utile del bene. Un’occasione per intervenire normativamente avrebbe potuto essere la Dir. 2019/771/UE la quale, come detto, lascia libero il fabbricante di assumere impegni di durabilità del bene (art. 17/1, secondo cpv).

Appaiono, peraltro, insufficienti soluzioni volontarie, seppur alcune sperimentate con successo: in Germania l’etichetta Blu Angel Standard si è rivelata uno strumento volontario efficace, indirizzato a fornire informazioni anche sulla durabilità dei prodotti.

La Risoluzione del Parlamento del 4 luglio 2017, ritiene fondamentale che i consumatori siano meglio informati in merito alla garanzia legale di conformità; chiede che nei contratti di vendita e nelle fatture di acquisto siano menzionati i termini delle garanzie offerte; propone di utilizzare garanzie in formato digitale, specificatamente riferite al bene stesso e non all’acquirente (warranty runs with the good); richiama (punto 36) il tema del rafforzamento del principio della responsabilità estesa del produttore e la fissazione di requisiti minimi che possono incentivare la progettazione di beni più sostenibili; precisa che i contratti dovrebbero prevedere una durata minima durante la quale devono essere disponibili gli aggiornamenti di sicurezza sui sistemi operativi; propone di stabilire normativamente un periodo di utilizzo ragionevole del bene; sottolinea la necessità, da parte del fornitore del bene, di garantire, in caso di sistemi operativi embedded nei prodotti, la fornitura degli aggiornamenti, specie se concernenti la sicurezza. Si consideri infatti che la Dir. 2019/771UE comprende anche i beni che funzionano con sistemi elettrici/elettronici: il continuo aggiornamento di tali sistemi appare esigenza connaturata all’utilizzabilità del prodotto per un periodo di vita utile. La possibilità di upgrading dei prodotti può rallentare l’obsolescenza di questi ultimi, ridurre l’impatto ambientale ed i costi sostenuti dagli utilizzatori.

L’ONU nel 2017 ha pubblicato un documentato studio, titolato “The long view: exploring product lifetime extension“, nel quale esamina le aspettative dei consumatori sull’efficienza dei prodotti nei diversi paesi, rilevando l’incidenza di fattori quali: gli aspetti emozionali (obsolescenza psicologica dovuta alle campagne di marketing), le abitudini del consumatore, il livello culturale e la ricchezza della popolazione. Il legislatore comunitario mostra di conoscere bene e di essere sensibile a queste tematiche[30] ed ha disegnato, con la direttiva 2019/771/UE, un moderno quadro normativo (che comprende anche la vendita di prodotti con contenuto digitale), portando a termine il disegno iniziato con la Dir. 1999/44/CE. Tale quadro appare un evidente compromesso tra gli interessi dei produttori e quelli dei consumatori. È tuttavia immediato rilevare che le norme di alcuni Stati comunitari offrono attualmente tutele più efficaci di quelle della direttiva in quanto richiedono che sia fornita una completa informazione al consumatore sulla durata utile del bene; creano periodi flessibili di operatività delle garanzie legali, adeguate alla vita utile del prodotto, e richiedono la presenza sul mercato di prodotti riparabili e di pezzi di ricambio per tutta la vita utile del bene[31].

La Dir. 2019/771/UE appare così uno strumento scarsamente efficace, ma affronta significativamente il problema.

Il limite dei due anni della garanzia legale (periodo entro il quale si manifesta il difetto) è congruente – a nostro avviso – solo come soglia minima di tutela. Ove si seguisse l’esempio delle legislazioni nordiche e fosse ampliato tale termine, verrebbe probabilmente limitato il fenomeno della obsolescenza programmata e quello della scarsa efficienza (e riparabilità) dei beni per un determinato periodo. Di notevole interesse, invece, l’obbligo del fabbricante di rilasciare un aggiornamento dei contenuti tecnologici dei prodotti per il periodo determinato. Una delle opzioni per fissare questo periodo è quello della ragionevole aspettativa del consumatore medio: quale ragionevole aspettativa possa avere il consumatore medio verso complicati ed inestricabili contenuti tecnologici è poi tutto da vedere.

Da qui a ritenere il fabbricante responsabile delle qualità del prodotto in forza di una garanzia legale il passo è molto breve, ma difficile da effettuare per la comprensibile resistenza dei fabbricanti. Questa nuova spinta propulsiva, a ben vedere, si fonda sugli stessi risultati raggiunti dalla dottrina tedesca negli anni ’60 che, con grande lungimiranza, configurava, nella vendita di beni al consumo, una relazione diretta tra il fabbricante e il consumatore, superando il ruolo del rivenditore[32]. Essa proponeva che il fabbricante dovesse progettare beni in grado di funzionare per periodi pari alla loro vita media e di mantenere sul mercato pezzi di ricambio per lo stesso periodo.

Il rivenditore opera solo come soggetto che si interpone nella catena distributiva. La creazione di un legame diretto tra costruttore e cliente finale riproduce, a ben vedere, una relazione già esistente, relazione che non è di mero “contatto”. Tant’è che il fabbricante può essere destinatario di un’azione di regresso del rivenditore.

L’aspetto che maggiormente contribuisce a rafforzare questo legame risiede nella natura dei beni con contenuto digitale: il fabbricante può aggiornare il contenuto digitale di questi beni (o attraverso la propria rete assistenza o, molto più frequentemente) direttamente dalla fabbrica via internet.

Il rapporto fabbricante/consumatore è esattamente quello che si ritrova nella responsabilità extra contrattuale da prodotto. Le due responsabilità, per vizi e per danno da prodotto, si avvicinano così sempre più, facendo regredire il ruolo del rivenditore. Ruolo anche oggi del tutto marginale se si pensa che il consumatore utilizza, nella maggior parte dei casi, la garanzia commerciale del fabbricante, giudicando il rivenditore un soggetto inidoneo a gestire la responsabilità per vizi[33].

  1. , Sez. un. n. 18672/2019 alla luce dell’art. 16, par. 1, Dir. 771/2019

Stando infine a Cass., Sez. un., n. 18672/2019[34], vanno adesso reputati, ai sensi dell’art. 2943, 4° comma, c.c. atti idonei ad interrompere la prescrizione dell’azione di garanzia per vizi di cui all’art. 1495, 3° comma, c.c. le manifestazioni stragiudiziali di volontà del compratore rese “nelle forme di cui all’art. 1219, 1° comma, con la produzione dell’effetto generale contemplato dall’art. 2945 c.c., comma 1”. Preferendo l’indirizzo interpretativo messo in forma da Cass. n. 23857/2018 e poi ripreso nella sentenza 22903/2015, le Sezioni unite mostrano perciò di aderire all’idea di una distinzione tra prescrizione della garanzia e prescrizione delle azioni edilizie, distico questo che manda così in archivio l’orientamento più tradizionale, rinverdito ultimamente da Cass. n. 20705/2017, secondo il quale la condizione di pura soggezione del venditore (artt. 1476, n. 3 e 1490 c.c.), rispetto al diritto potestativo del compratore (art. 1492 c.c.), esclude una qualche rilevanza interruttiva alla dichiarazione di questi di volersi avvalere della garanzia, riservandosi successivamente la scelta tra i due rimedi edilizi. L’interruzione della prescrizione delle azioni edilizie, dopo questo arresto delle Sezioni unite, non passa dunque più per il medio esclusivo di una domanda giudiziale di risoluzione in quanto la notificazione del vizio muta la condizione del venditore: che da uno stadio di garanzia trascorre, diciamo così, ad uno di responsabilità.

Per le Sezioni unite il nuovo principio di diritto è acconcio, leggiamo, alla garanzia per vizi nella compravendita di diritto comune, quindi “con esclusione, stante la loro peculiare disciplina, delle fattispecie di compravendita disciplinate dal c.d. codice del consumo”: il che, senza entrare qui nel merito specifico di una questione già alquanto ingarbugliata[35], sgrana una cifra del discorso la cui fondatezza è, se non appannata, tutta da verificare. Principalmente per due motivi.

Vediamoli.

Il primo. Quantunque il passo citato costituisca un obiter, va subito rimarcata la circostanza che il trasporre, senza l’ausilio di un qualche correttivo, l’interpretazione tradizionale nell’ambito della vendita b2c, produce il paradosso di spogliare irragionevolmente di un minimo di tutela il consumatore. Sostenere infatti, come pure è stato deciso[36], che una richiesta stragiudiziale di riparazione o di sostituzione del bene difettoso non interrompe il termine di prescrizione per l’azione di risoluzione del contratto nella forma di cui all’art. 130, 7° comma, c. cons., in quanto sarebbe necessaria a tal fine una domanda giudiziale, innesca per il vero l’effetto perverso di un decorso del termine di 26 mesi dalla consegna del bene, senza che la conformità sia stata nel frattempo restaurata, quale fatto ostativo a che il consumatore possa avvalersi dei rimedi edilizi. Con un ragionamento formalistico può sostenersi che una reiterata richiesta stragiudiziale di riparare (o sostituire) il bene è idonea soltanto ad interrompere il termine per la tutela ripristinatoria: se non fosse che, per il gioco combinato della gerarchizzazione dell’art. 130, 2° comma e della sussidiarietà del 7° comma, prima di aver inutilmente battuto la via di un ripristino, il consumatore acquirente non ha il diritto di domandare giudizialmente la risoluzione. Di qui allora, come la dottrina si è avveduta, o si può immaginare che l’interruzione del termine di prescrizione sia causata da qualsiasi atto espressivo di una chiara volontà del consumatore di servirsi della garanzia di conformità: e, notiamo, una richiesta stragiudiziale di riparazione o di sostituzione varrebbe incontestabilmente ad interrompere il decorso del termine per ognuno dei diritti sanciti dall’art. 130 nonché per la pretesa al risarcimento dei danni; oppure, scartando l’idea che il tentativo fallito di riparazione possa sempre rilevare come un riconoscimento del vizio ad opera del venditore[37], si prende le mosse da quell’art. 2935 c.c. che pur sempre riconnette la decorrenza della prescrizione “dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”. E, con una deduzione intuitiva, siccome la risoluzione è rimedio che il diritto europeo consente in via sussidiaria, si ammette che il termine di prescrizione, interrotto dalla sola domanda giudiziale, inizi a decorrere dal momento in cui si materializza rispettivamente uno dei tre casi previsti dall’art. 130, 7° comma, lett. a)-c). Ambedue le interpretazioni, va da sé, hanno una valenza adeguatrice e sortiscono l’effetto di evitare che, con una marchiana violazione del principio di effettività della tutela, il danno rimanga in capo al consumatore[38].

Il secondo. Se queste sono le premesse, prima facie potrebbe supporsi che il revirement delle Sezioni unite faccia inclinare per la prima lettura. Se un atto stragiudiziale, comunicato al venditore, ha un’idoneità interruttiva per la vendita di diritto comune, vien da sé che escluderlo per un compratore – consumatore che, nello stesso modo, sta manifestando il suo intento di avvalersi della garanzia riservatagli dalla legge, dischiuderebbe un trattamento in peius privo di un qualche costrutto. Se non fosse che l’interpretazione tradizionale muove da una natura potestativa del diritto riconosciuto all’acquirente vestito con i panni di una risoluzione giudiziale quando la modalità risolutoria imbastita dall’art. 16, par. 1, è adesso improntata, torniamo a ripeterlo, ad uno stigma di schietta stragiudizialità azzerante l’ambiguità linguistica dell’art. 130 c. cons[39]. Ora, indipendentemente perciò da un ragionamento condotto per analogia con il diritto comune della vendita, è già per il fatto di avere un effetto risolutivo stragiudiziale che il paradosso, di un compratore impossibilitato ad ottenere la risoluzione del contratto nonostante la tutela ripristinatoria sia risultata infruttuosa, ha in concreto ben poche chances di prodursi. Nulla quaestio che non sia qualificabile come un caso di inerzia la condotta del consumatore che, unitamente alla notifica del vizio, domandi al venditore la tutela ripristinatoria[40]. Poichè ogni ripristino deve compiersi “entro un periodo di tempo ragionevole” (art. 14, par. 1, lett. B), scaduto il quale il venditore inadempiente è assoggettato ai rimedi edilizi, all’orizzonte odierno si profila un consumatore della 771 che non ha più l’onere di una domanda giudiziale bensì il commodus discessus di una dichiarazione recettizia produttiva di un’istantanea efficacia estintiva. È un’estinzione istantanea, notiamo, che torna nell’ipotesi che il Considerando 51 etichetta come esempio di una tutela manutentiva inadeguata, in quanto il venditore non ha completato il ripristino, oppure per le fattispecie, già citate, di cui alle lett. c) e d), par. 4 dell’art. 13, due casi nei quali la sussidiarietà della tutela edilizia neanche più si dà, con una rilevanza prioritaria ivi riconosciuta all’intento di scioglimento del consumatore. Quella della nuova direttiva, giova rimarcarlo, non è infatti una stragiudizialità operante alla maniera degli artt. 1454 e 1456 c.c., atteggiandosi piuttosto ad un’autotutela effigiata nella forma di un recesso per inadempimento. Il che, e qui sta il punto, spariglia ai fini di stilizzare la figura di un consumatore che subisce le conseguenze della sua inerzia.

Sintetizzando, perciò, ci vien fatto di pensare che, diversamente da quanto può trarsi dall’odierno art. 130 c. cons., la richiesta stragiudiziale di ripristino sia idonea ad interrompere il termine fissato per i soli rimedi primari: tecnicamente, tra l’altro, gli unici postulanti una prestazione del venditore – debitore. Per la tutela edilizia ci sembra valga il combinato disposto degli artt. 2935 c.c. e 15-16 Dir. 771, con una stragiudizialità risolutoria marginalizzante il rischio che il consumatore, per il fatto di aver accordato fiducia al venditore, si veda prescritto un diritto “prima ancora di poterlo esercitare”[41].

 

  1. L’armonizzazione massima parziale tra perimetro applicativo e campo di influenza

Dunque, ricapitolando: con un’armonizzazione massima parziale che spoglia in parte qua gli Stati nazionali della competenza a decidere sul modo e di conseguenza sui mezzi con cui “atteindre le but[42], rimane indubbio, come abbiamo veduto, che sono non (tutte ma talune) differenze normative, custodite dai singoli ordinamenti, il “nemico” da combattere in quanto fattori di distorsione altamente pregiudizievoli per gli operatori del mercato. Concepire, in un contesto siffatto, nel nome di una tutela più garantista, una resilienza del diritto comune, finalizzata a neutralizzare questa o quella disarmonia europea, non solo equivale ad un arrocco esiziale ma sottende un ideologismo che è ancor prima recessivo rispetto al conio, in sede di trasposizione, di una nuova garanzia di conformità dovuta da ogni venditore.

Il fatto è, veniamo così al punto, che la trasformazione della garanzia edilizia in garanzia di conformità implicherebbe però, com’è intuitivo, una riforma codicistica del diritto della vendita: e qui, nella misura in cui abbandoneremmo la dimensione di regole contrattuali differenziate per status, lo scenario ritorna ad essere “sistematico” in quanto non avremmo più un’armonizzazione rinserrata nell’oggetto che ha prescelto. Tecnicamente, se la limitazione all’area del consumo non rimonta ad una “raison substantielle” del diritto della vendita ma a dei motivi congiunturali legati alla competenza dell’Unione, niente v’è che impedisce un’estensione del raggio di operatività di una direttiva “au-delà de son champ d’application[43]. Un distinguo, al riguardo, neanche promana dal grado di armonizzazione: perché, se il suddetto “degré” è tutto rinserrato entro il suo perimetro applicativo, nonostante la CGUE rimanga lasca nel definire l’impatto ultrattivo di un’armonizzazione piena, c’è solo un vincolo in realtà che si dà sempre come invalicabile ai sensi dell’art. 288, 3° comma TFUE: quella “lutte contre les distorsions de [la] concurrence” che un’estensione mirata, limitata cioè al suo nucleo essenziale, della 771 ai contratti tra professionisti (B2B) non pare però compromettere od opacizzare seriamente. Se la si legge per quello che è, la 771 svela infatti un’anima schiettamente consumeristica soltanto in una manciata di norme, dal regime (come dicevamo) sull’onere della prova (art. 11) alla nullità degli accordi in deroga (art. 21) passando per la responsabilità connessa ad un’erronea installazione (art. 8)[44].

È dunque, sunteggiando ancor più il discorso, un problema di policy dell’ordinamento nazionale: un effetto di armonizzazione massima, invero, non è affatto al servizio né amplifica una logica di governo della vendita differenziandone le regole. Dopo di che, ma qui si aprirebbe un discorso complesso assai diverso, un’armonizzazione eterodiretta, e non dal basso, si nutre di una filosofia che ingloba all’interno di “insiemi normativi in parallelo” quel diritto alla “differenza” che un “pluralismo ordinato”, fondato sulla raccolta spontanea di principi comuni, forse permetterebbe di mantenere in un modo non “coattivo”[45]. Ma hoc iure utimur: e così l’ammonimento predittivo di Angelo Falzea, lo studio del “diritto comunitario non può più essere affrontato con i comuni strumenti dell’esegesi e della dogmatica di medio livello”, mostrandosi “indispensabile l’ausilio della dogmatica superiore e soprattutto della teoria generale del diritto”[46], si mostra di un’impellente attualità.

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Note

[1] Così, Trib. Arezzo 2 luglio 2018, n. 704, banca dati DeJure. Parla, invece, a proposito della Dir. 1999/44/CE, la quale introduce la nozione di difetto di conformità, di definitivo superamento del modello romanistico incentrato sulle figure, di incerta delimitazione, di vizio redibitorio, mancanza di qualità e aliud pro alio, Afferni, La responsabilità del venditore sui difetti materiali del bene venduto diritto dell’Unione EuropeaAtti del Convengo di Roma del 6 maggio 2016Recenti sviluppi nel diritto privato dell’UE, Roma, 2012.

[2] Il termine è presente nel Sale of Goods Act inglese del 1979, ove si prevede (art. 14), tra i requisiti che deve avere la merce, quello della durability, definita come una condizione implicita che il prodotto potrà funzionare per un periodo di tempo ragionevole. La Dir. 2019/771/UE, definisce la “durabilità” come la capacità del bene di mantenere le sue funzioni e prestazioni in condizione di uso normale per un determinato periodo di tempo (art. 2/13). Questa nozione appare la proiezione dinamica di quella di “funzionalità”, definita dalla direttiva come la capacità del bene di svolgere tutte le funzioni in considerazione del suo scopo (art. 2/8).
Sotto un profilo teorico, l’incapacità del bene di funzionare per un determinato periodo di tempo potrebbe anche essere riguardata come aliud pro alio, tale fattispecie non è però utilizzabile al di fuori del nostro ordinamento.
Sull’insufficienza delle categorie dei vizi a rappresentare il fenomeno del prematuro decadimento del bene, Zolea, Obsolescenza programmata e diritto: noterelle comparative, in Giust. civ. com., 5/2019. Afferma l’A. che anche la più avveduta dottrina con qualche anno di ritardo rispetto alle altre scienze sociali sta prendendo conoscenza della portata del problema della obsolescenza programmata e della capacità dei fabbricanti di incidere sul processo decisionale dei consumatori.

[3]  Dir. 2009/125/CE relativa all’istituzione di un quadro per l’elaborazione di specifiche per la progettazione ecocompatibile dei prodotti connessi all’energia. In attuazione della direttiva è intervenuta la Risoluzione del Parlamento europeo del 31 maggio 2018 sulla progettazione ecocompatibile. Essa afferma che “il piano d’azione dell’UE per l’economia circolare comprende l’impegno a porre l’accento sugli aspetti dell’economia circolare nei futuri requisiti di progettazione dei prodotti previsti dalla direttiva sulla progettazione ecocompatibile analizzando sistematicamente aspetti come la riparabilità, la durabilità, la possibilità di upgrading, la riciclabilità o l’identificazione di determinati materiali o sostanze; oltre a rendere i prodotti più sostenibili e più efficienti in termini di risorse, occorre rafforzare i principi dell’economia della condivisione e dell’economia dei servizi, mentre gli Stati membri, nella presentazione dei programmi volti a incoraggiare l’utilizzo dei prodotti e dei servizi più efficienti in termini di risorse, dovrebbero prestare particolare attenzione alle famiglie a basso reddito”. Sottolinea che è importante che i fabbricanti forniscano istruzioni chiare e obiettive in modo da permettere agli utenti e ai riparatori indipendenti di riparare più facilmente i prodotti senza attrezzature specifiche; sottolinea inoltre l’importanza di fornire, laddove possibile, informazioni sulla disponibilità dei pezzi di ricambio e la durata di vita dei prodotti.

[4] Sulle varie definizioni di durabilità, v. Commissione europea, The durability of products, Final report, 2015; Parere del Comitato Economico e Sociale Europeo in merito alla Proposta di direttiva europea del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale, COM (2015) 634. La Proposta è ora divenuta la Dir. 2019/771/UE, cit.. anche il decreto n. 140 del 10 giugno 2016, recante criteri e modalità per favorire la progettazione ecocompatibile nonché il Disegno di Legge n. 615 del 12 marzo 2019 sulla sostenibilità dei prodotti. In tale ultimo documento sono previsti: l’allungamento del periodo della garanzia legale, l’obbligo di mantenere i pezzi di ricambio sul mercato per almeno 5 anni a partire dalla messa in commercio del bene e la possibilità di commercializzare un prodotto “ricondizionato”.

[5] Per periodo di “garanzia legale” intendiamo qui il periodo entro il quale opera la responsabilità ex lege del venditore per i difetti di conformità di un prodotto destinato ai consumatori; per periodo di “garanzia commerciale” il periodo entro il quale il fabbricante o un terzo assumono l’impegno di ripristinare il difetto di conformità. L’art. 5/1 della Dir. 1999/44 prevede, alla prima frase, un termine entro il quale il difetto deve manifestarsi (due anni dalla consegna), alla seconda frase un termine, utilizzabile dagli Stati membri anche alternativamente al primo, di prescrizione che non può essere inferiore a due anni. Quanto al contenuto, la garanzia commerciale è generalmente una garanzia gratuita aggiuntiva (rispetto a quella legale cui soggiace il rivenditore) ed assicura rimedi propri. Tali rimedi, non potendo incidere sul contratto di vendita, riguardano la riparazione del bene o la sua sostituzione. V. art. 133 del c. cons. Sulla differenza tra le due garanzie, v. AGCM, Provvedimento 22397/2011 nonché, di recente, v., Corrias, La garanzia convenzionale nella vendita dei beni di consumo, in Contr. e impr., 2018, 722.

[6] Nell’ambito della Dir. 2005/29, il parametro da prendere in considerazione in una pratica commerciale ingannevole è quello del consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici (Corte di giustizia 12 maggio 2011, Ving Sverige, C-122/10, EU:C:2011:299, punto 22, e 26 ottobre 2016, Canal Digital Danmark, C611/14, EU:C:2016:800, punto 39).

[7] Bianca, La vendita e la permuta, Torino, ed. 1993, 249.

[8] V., Corte di giustizia 11 maggio 2000, causa C-38/98, Renault SA c. Maxicar, in Raccolta, 2000. Generalmente quello dei pezzi di ricambio è considerato un mercato secondario (downstream market) rispetto a quello del prodotto complesso; tuttavia, se la scelta del consumatore prendesse in considerazione la vita utile del prodotto (lifecycle), si potrebbe considerare un unico “system market“. Quest’ultimo mercato (del prodotto e delle parti di ricambio) è spesso considerato negli acquisti dei loro mezzi effettuati dagli autotrasportatori perché essi valutano anche il costo di esercizio del mezzo nella sua vita utile.

[9]  I costi economici per lo smaltimento dei rifiuti sono generalmente a carico dei fabbricanti, v. Dir. 2000/53/CE sullo smaltimento delle vetture non marcianti e sul recupero dei materiali.

[10] Nel documento della Commissione europea Study on the costs and benefits of minimum harmonisation under the Consumer Sales and Guarantees Directive 1999/44EC (…), Bruxelles, 2017, si dà conto che, dalle ricerche effettuate, la maggior parte dei difetti del prodotto si manifesta nei primi due anni, ma che le aspettative dei consumatori di poter usufruire di prodotti efficienti sono maggiori e che molti problemi di fruibilità derivano dal mancato aggiornamento dei sistemi elettronici che fanno funzionare gli oggetti dell’Internet of Things.

[11] Ci si riferisce ai due provvedimenti dell’AGCM del 25 settembre 2018 adottati contro i costruttori di telefoni cellulari Apple e Samsung. I procedimenti sono stati impugnati al T.A.R. del Lazio e sono sub judice. Si ha notizia di un procedimento analogo verso Apple, pendente in Francia.

[12] Tale tendenza era emersa, indirettamente, anche dalla non immediata accettazione, da parte di alcuni produttori di telefoni cellulari, della normativa sulla garanzia legale dei beni di consumo. Questo comportamento si può spiegare con una politica commerciale che agevola la sostituibilità dei prodotti; sul tema, v. AGCM, provvedimento del 31 ottobre 2012 a carico di un costruttore di telefoni cellulari.

[13] I consumatori, invogliati, spesso immotivatamente, a comprare nuovi modelli per sopperire alla scarsa durata dei precedenti, possono subire grave pregiudizio dei loro interessi e della loro libera scelta di acquisto ove i nuovi modelli contengano scarsi “miglioramenti”.

[14] Per un’analisi della teoria economica dell’efficienza apportata dai prodotti affidabili, Murthy, Product reliability and warranty: an overview and future research, Queensland University, 2007. La durability è definita dall’A. come: “the probability that the product will perform its intended function for a specified time period when operating under normal environmental conditions“.

[15] La cui durata media si attesta sui 4/5 anni. È singolare come nella ricerca effettuata per conto della Commissione Europea, titolata Consumer market study on the functioning of Legal and Commercial Guarantees for consumer in the UE, 2015, venga dato poco rilievo a questi temi.

[16] Va ricordato che l’art. 6 c. cons. prescrive l’obbligo del fabbricante di fornire al consumatore alcune informazioni, ritenute essenziali (contenuto minimo). Tra esse alla lettera e) indica i materiali impiegati ove siano determinanti per la qualità o le caratteristiche del prodotto. Ai fini della durabilità del prodotto questa prescrizione è insufficiente

[17]  La direttiva non si applica ai beni, quali DVD e CD, che incorporano un contenuto digitale, ma che fungono solo da vettore del contenuto digitale (v. Dir. 2019/770/UE). I beni con contenuto digitale sono quei beni la cui mancanza di detto contenuto impedirebbe lo svolgimento delle funzioni del bene (Dir. 2019/771/UE).

[18]  Introdotto dalla Dir. 1999/44/CE, all’art. 2.

[19] Sulle garanzie commerciali rilasciate dai fabbricanti, v. ECC, Commercial warranties: are they Worth the Money? Bruxelles, 2015.

[20] Questa relazione è caratterizzata dalla fornitura di servizi da parte del produttore e dalla cessione di dati tecnici da parte del farmer. Sulla customer intimacy è ricorrente questa definizione: “marketing strategy where a service supplier or product retailer gets close to their clients. The benefits of greater customer intimacy for a business might include improved highly tailored problem solving capabilities and greater adaptation of products to customer needs, as well as higher customer loyalty levels“.

[21] Diederichsen, Die Haftung des Warenherstellers, Monaco, 1967; riferimenti a queste teorie (non condivise dall’autorevole A.) sono presenti in Bianca, La vendita e la permuta, cit. supra, nt. 8, 993.

[22] L’art. 18 della Dir. 2019/771/UE precisa che il venditore può agire in regresso “nei confronti della persona e delle persone responsabili nella catena delle transazioni”. Saranno i diritti nazionali a stabilire se vi dovrà essere un ordine dei regressi o se possano avvenire per saltum.

[23] Ciatti, La tutela amministrativa e giurisdizionale, in Le pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori, Torino, 2007, 31.

[24] Risoluzione del Parlamento europeo del 4 luglio 2017, Su una vita utile più lunga per i prodotti: vantaggi per consumatori e imprese (2016/2272(INI). Il documento rileva: la ricorrente carenza di informazioni sulla vita utile del prodotto, la presenza di ostacoli alla riparazione, la scarsa reperibilità delle parti di ricambio dopo alcuni anni dalla messa in commercio del bene, l’assenza di progressivi aggiornamenti del prodotto. Afferma che in una nuova economia la riparabilità del prodotto deve diventare un valore essenziale, vanno conseguentemente protette nuove iniziative (cd. caffè delle riparazioni) che consentono il riuso del prodotto (usato) allorché può ancora essere sfruttato.

[25] Commissione europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale europeo e al Comitato delle Regioni, L’anello mancante – Piano d’azione dell’Unione europea per l’economia circolare, Bruxelles, 2 dicembre2015, COM(2015) 614 final. Si parla di economia circolare per indicare un’economia in cui i prodotti usati sono riciclati per fornire altri prodotti (cradle to cradle), tale economia considera i vantaggi del riciclo del prodotto già realizzato. V., Dir. 2000/53/CE sullo smaltimento delle vetture non marcianti e sul recupero dei materiali e Dir. 2006/66/CE relativa alla raccolta e smaltimento delle pile e degli accumulatori. V. anche la norma ISO 14001:2015 che introduce il concetto di Life Cycle perspective ove la durabilità del prodotto di inserisce nella protezione dell’ambiente.

[26] È stato di recente presentato in Francia un progetto di legge che tende a fissare un “indice di riparabilità” dei prodotti di consumi, v. La Tribune, Obsolescence Programmée un “indice de réparabilité” verra le jour en 2020, 3 luglio 2018.

[27] In Olanda esiste una normativa innovativa che si riferisce alla “expected product lifespan“. Per un panorama della durata delle garanzie legali in Europa, ECC, Commercial warranties, Are they worth the money, cit.

[28] Nel mercato inglese il consumatore unisce di frequente alla garanzia legale anche garanzie a pagamento (extended warranties) disponibili a prezzo basso, nelle quali è esonerato dalla prova del difetto.

[29] Parlamento Europeo, Segretariato Generale per le politiche interne, How an EU lifespan guarantee model could be implemented access the European Union, 2016. Nello stesso gennaio è stato redatto per IMCO Committee il documento “A longer lifetime for products: benefits for consumers and companies“. Nello studio si esaminano valutazioni sulla durabilità dei beni in un arco di dieci anni.

[30] BEUC, Durable goods: more sustainable products, better consumer rights, 2015; BEUC, Greener better, faster stronger ecodesign, consumer organisation’s views on the implement and enforcement of the ecodesign directive, 2017; Commissione europea, Cross border e-commerce, Commission welcome agreement on proposal to facilitate sales of goods and supply digital content, 29 gennaio, 2019; Parlamento europeo, Consumer protection: deal on EU wide rules for those sold faulty products, 29 gennaio 2019, ove si precisa che: “consumers buying these products will be entitled to the necessary updates during a period of time the consumer may reasonably expect, based on the type and purpose of the goods and digital elements“. V., inoltre, Livre Blanc, 50 mesures pour une consommation et une production durables, 2019; E. Meunier, Améliorer la garantie légale pour allonger la durée de vie de nos appareils, 2019, entrambi sul sito Halte a l’Obsolecence Programée.

[31] V., in proposito, la Proposta di modifica del regolamento 2017/1369/UE relativa ad alcuni prodotti domestici (modificata ulteriormente nei mesi di novembre e dicembre 2018), ove si prevede la necessaria presenza sul mercato dei pezzi di ricambio per un determinato periodo. Ivi si incoraggia la certificazione volontaria, l’indicazione del numero stimato delle utilizzazioni del prodotto. (ad es. ore di funzionamento).
Il Reg. 2017/1369/UE istituisce un quadro per l’etichettatura energetica e favorisce il consumatore nella comprensione delle qualità del prodotto, della sua efficienza energetica. Su questi temi, European Environmental Bureau (EEB), Making more durable and reparable products. Building a rating system to inform consumers and trigger business innovation, Brussels, 2015.

[32] Raramente il rivenditore rilascia garanzie commerciali in quanto generalmente non dispone né della rete di assistenza tecnica post-vendita né delle conoscenze per effettuare la riparazione di prodotti altamente tecnologici.

[33]  Così non è attualmente nella giurisprudenza della S.C., la quale continua ad esaminare atomisticamente il fenomeno delle vendite a catena, v. Cass. 5 febbraio 2015, n. 2115, ove: “nella vendita “a catena”, il principio dell’autonomia di ciascuna vendita non impedisce al rivenditore di proporre nei confronti del proprio venditore domanda di rivalsa di quanto versato a titolo di risarcimento del danno all’acquirente, quando l’inadempimento del rivenditore sia direttamente connesso e consequenziale alla violazione degli obblighi contrattuali verso di lui assunti dal primo venditore. Nelle cosiddette vendite “a catena” spettano all’acquirente, quindi, due azioni: quella contrattuale, che sorge solo nei confronti del diretto venditore, in quanto l’autonomia di ciascun trasferimento non gli consente di rivolgersi contro i precedenti venditori (restando come già detto salva l’azione di rivalsa del rivenditore nei confronti del venditore intermedio); quella extracontrattuale, che è esperibile dal compratore contro il produttore, per il danno sofferto in dipendenza dei vizi che rendono la cosa pericolosa, anche quando tale danno si sia verificato dopo il passaggio della cosa nell’altrui sfera giuridica”.

[34] Il dictum di Cass., 11 luglio 2019, n. 18672 era auspicato dalla nota di Dalla Massara, L’onere della prova dei vizi del bene venduto al vaglio delle Sezioni Unite, in Contratti, 2019, 384-386, esattamente nell’ottica di una responsabilità quale situazione a monte, e dunque distinta, rispetto all’esercizio del diritto potestativo.

[35] Pagliantini, Tra equivoci dogmatici e miraggi: l’interruzione della prescrizione edilizia secondo Cass. 18672/2019, in Nuova giur. civ. comm., 2020, II.

[36] V. App. Roma, 9 ottobre 2017, n. 6338, in Contratti, 2018, 581 e segg., con nota di D’Onofrio, “Gerarchia” dei rimedi e prescrizione nella vendita di beni di consumo.

[37] Agostinelli-Elnekave, sub art. 1519-sexies (termini), in Commentario alla disciplina della vendita dei beni di consumo, cit., 600 seg.

[38] Il che verrebbe a tratteggiare un’interpretazione incompatibile con il diritto europeo: tanto più che il Considerando 18 della dir. 99/44 contempla la variabile che, “in caso di riparazione o sostituzione del bene o di negoziazione tra il consumatore e il venditore ai fini di una composizione amichevole”, il termine di prescrizione sia “sospeso ovvero interrotto”.

[39] Un’insidia argomentativa si cela però nel fatto che, siccome le Sez. un. n. 18672/2019 si chiedono se possa riconoscersi un effetto interruttivo ad atti diversi dalla proposizione dell’azione, ecco la domanda: la rilevanza di atti interruttivi stragiudiziali è, nell’area della vendita b2ctipizzata nella forma infungibile di una richiesta di ripristino oppure deve riconoscersi, come le Sezioni unite adesso sentenziano per la vendita di diritto comune, una stragiudizialità a largo spettro agglutinante, in termini di idoneità interruttiva, 1) il riconoscimento che il venditore faccia del diritto del compratore alla garanzia, 2) gli atti di costituzione in mora del venditore e 3) la dichiarazione del venditore di eliminare il difetto di conformità? Se, ottimizzando il discorso delle Sezioni unite si dovesse propendere per la seconda interpretazione, ne dovremmo dedurre che, ricostruita la garanzia europea di conformità come un autonomo diritto del consumatore, costui può, in un secondo momento, scegliere uno dei rimedi sanciti (per ora) dall’art. 130 c. cons. Ne deriverebbe allora che, quando il consumatore, e citiamo qui le Sezioni unite, “comunica al venditore che intende far valere il diritto alla garanzia, egli interrompe la prescrizione inerente a tale diritto”. Dopo di che, aggiungiamo, una pari rilevanza dovrebbe però pure riconoscersi alla denunzia del difetto di cui all’art. 132 c. cons. visto che la legge non onera il consumatore, che la effettui, ad indicare subito il tipo di rimedio che intende attivare: il che, del resto, può dedursi pianamente dal disposto dell’art. 130, 9° comma, una norma che, nel regolare il caso dell’offerta fatta dal venditore al consumatore di un “qualsiasi altro rimedio disponibile”, distingue testualmente tra l’ipotesi del consumatore che abbia già scelto una specifica forma di tutela da quella in cui una siffatta richiesta non si dia, con il risultato così di profilare come possibile, alla maniera delle odierne Sez. un., un’ipotesi di scelta del rimedio succedanea ad una mera denuncia del difetto di conformità. Se non fosse che, siccome dal momento dell’interruzione della prescrizione ricomincia a decorrere il termine originario, dovrebbe forse porsi mente al fatto che il termine consumeristico non è di 1 anno bensì di 26 mesi e che la correzione è sancita dalla legge. Quindi le ragioni, che militano per una certa interpretazione in un ambito, non è affatto detto che siano hic et nunc suscettibili di trasposizione in un altro. Resta inteso che, ad interpretarlo come un dictum che esprime una regola generale, il dispositivo di Cass. n. 18672/2019 non pone un problema di interpretazione comunitariamente orientata in quanto la Dir. 771/2019, al pari della pregressa, non armonizza la prescrizione, evocata dal legislatore europeo soltanto in negativo, nel senso che i termini nazionali non devono interferire con il termine di garanzia. Quindi gli Stati membri, come si legge nell’art. 10, par. 5, sono liberi di contemplare dei termini di prescrizione dei diritti sanciti dall’art. 13 a condizione tuttavia di assicurare che i consumatori dispongano di un termine di due anni dalla consegna. Ecco perché, sic stantibus rebus, un’eventuale regola legislativa o giurisprudenziale, che incrementasse la tutela del consumatore, sarebbe pienamente ammissibile.

[40] Inspiegabilmente non riprodotto dalla 771, l’art. 28, par. 2 della Proposta di direttiva del 2008 contemplava, per il caso di un professionista che avesse rimediato al difetto di conformità mediante la sostituzione del bene, un nuovo termine di garanzia di due anni decorrenti “dal momento in cui il consumatore o un terzo designato dal consumatore ha acquisito il possesso materiale dei beni sostituiti”.

[41] D’Onofrio, “Gerarchia” dei rimedi e prescrizione nella vendita di beni di consumo, cit., 587. Il solo caso potrebbe essere quello di un difetto che riappare sul limitare dei 26 mesi: mentre, nell’ipotesi di un difetto ricorrente, è già il Considerando 52 a statuire che “dovrebbe essere oggettivamente determinato se il consumatore debba accettare ulteriori tentativi da parte del venditore per rendere conformi i beni”. L’esempio dei beni costosi o complessi è, al riguardo, calzante.

[42] Rochfeld, Les ambiguïtés des directives d’harmonisation totale: la nouvelle répartition des compétences communautaire et interne, cit., 2049. Occorre ribadire: non esiste, infatti, un’armonizzazione massima parziale che non si muova in una logica di “sfere di competenze, nazionali e UE, distinte ma pur tuttavia collegate”: così Bartoloni, L’apporto delle tecniche di armonizzazione nella definizione dei rapporti tra sistemi concorrenti di tutela dei diritti fondamentali, cit., 81.

[43] Sauphanor-Brouillaud-Aubert de Vincelles-Brunaux-Usunier, Les contrats de consommation. Règles communes, in Traité de droit civil sous la direction de Ghestin, LGDJ, 20182, 989.

[44] Rochfeld, Les ambiguïtés des directives d’harmonisation totale: la nouvelle répartition des compétences communautaire et interne, cit., 2050.

[45] Majo, L’attività di armonizzazione nel diritto privato. Il diritto alle e/o delle differenze, in O. Troiano-Rizzelli-Miletti (a cura di), Harmonisation involves historyIl diritto privato europeo al vaglio della comparazione e della storia, Milano, 2004, 327.

[46] Falzea, Effettività del diritto europeo, in Diritto privato europeo e categorie civilistiche, a cura di Lipari, Napoli, 1998, 13.

 

Avv. Martina Liaci

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