La disciplina dei prezzi di trasferimento (c.d. transfer pricing) nelle operazioni infragruppo

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Indice:

Quadro introduttivo

Con la locuzione “transfer pricing” si fa riferimento al complesso delle tecniche e dei procedimenti adottati dalle imprese multinazionali nella formazione dei prezzi relativi alla cessione dei beni o alla prestazione di servizi nell’àmbito di operazioni infragruppo.

Il fine principale che le disposizioni sul transfer pricing, emanate dagli ordinamenti interni e dagli organismi sovranazionali (quali l’OCSE), si pongono è quello di evitare che le imprese trasferiscano porzioni di reddito imponibile in Stati o giurisdizioni a fiscalità ridotta e/o bassa.

La disciplina sui prezzi di trasferimento è finalizzata, a ben vedere, alla repressione del fenomeno dell’emigrazione dell’imponibile fiscale, per il tramite di operazioni che coinvolgono imprese appartenenti al medesimo gruppo ma geo localizzate in Paesi differenti, verso giurisdizioni più vantaggiose al fine di ottenere un indebito risparmio d’imposta.

Nei paragrafi che seguono verrà analizzato il fenomeno dei prezzi di trasferimento, in particolare avendo riguardo alla disciplina normativa del transfer pricing nell’ordinamento italiano, ponendo poi l’accendo sui vari metodi volti a determinare i prezzi di trasferimento applicabili nelle operazioni infragruppo nonché la relativa disciplina probatoria, chiudendo il “quadro” con una breve riflessione in merito alla natura abusiva del fenomeno in esame.

La disciplina normativa del transfer pricing nell’ordinamento giuridico italiano

In àmbito nazionale, il legislatore tributario ha previsto la regolamentazione del transfer pricing nell’articolo 110, comma 7, del TUIR, il quale nel prevedere che “I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili, se ne deriva un aumento del reddito. La medesima disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, secondo le modalità e alle condizioni di cui all’articolo 31-quater del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, possono essere determinate, sulla base delle migliori pratiche internazionali, le linee guida per l’applicazione del presente comma”, delinea le modalità di determinazione del prezzo appropriato nel trasferimento di beni/servizi mediante operazioni infra-gruppo (ad esempio, nel caso di controparti di una multinazionale).

La ratio è quella di verificare se le operazioni infragruppo siano poste in essere rispettando il principio di libera concorrenza (c.d. arm’s length principle), in modo che sussista corrispondenza tra il prezzo praticato nelle operazioni commerciali tra imprese associate e quello che sarebbe stato pattuito tra imprese indipendenti, in condizioni similari, sul libero mercato.

Sotto il profilo soggettivo, la disciplina del transfer pricing trova applicazione in riferimento alle transazioni commerciali che intervengono fra un’impresa residente e società non residenti che, direttamente o indirettamente:

  • controllano l’impresa italiana;
  • ne sono controllate;
  • sono controllate dalla stessa controllante dell’impresa italiana.

Si evidenzia come il concetto di “impresa” ricomprende tutti i tipi di società commerciali, oltre che imprese individuali, le stabili organizzazioni di soggetti non residenti e, in linea generale, tutti i soggetti passivi capaci di produrre reddito d’impresa.

La nozione di controllo, invece, cui fa riferimento l’art. 110 del TUIR, al comma 7, non è solamente circoscritta entro il perimetro civilistico delineato dall’art. 2359 c.c.[1], ma viene esteso anche ai casi in cui vi sia una semplice partecipazione alla direzione, al controllo o al capitale di un’altra impresa o, anche, un’influenza economica solo potenziale.

La suddetta nozione di controllo è stata introdotta con la Circ. n. 32/E del 22 settembre 1980, ove l’Agenzia delle Entrate ha individuato alcune situazioni tipiche che, prescindendo da vincoli contrattuali o azionari, sarebbero idonee a rivelare un’influenza economica potenziale o attuale in sede di determinazione dei prezzi di trasferimento; a mo’ di esempio: la vendita di prodotti fabbricati dall’altra impresa; la presenza di membri comuni nel Consiglio di amministrazione o negli organi direttivi della società.

Sotto il profilo oggettivo, dal combinato disposto dell’art. 110, comma 2 e dell’art. 9, comma 3 del TUIR e sulla base dell’arm’s length principle, la disciplina dei prezzi di trasferimento trova applicazione laddove sia ravvisabile una difformità tra il corrispettivo pattuito per la transazione controllata ed il valore normale del bene oggetto di scambio.

La transazione, come specificato dall’OCSE, si configura come:

  • cessione infra-gruppo di beni materiali, semilavorati o prodotti finiti, derivanti da un rapporto verticale nell’àmbito di gruppi multinazionali;
  • cessione infra-gruppo di beni immateriali, connessi all’attività di ricerca e sviluppo, quali ad esempio: marchi di fabbrica, opere d’ingegno, know how, ecc.;
  • prestazioni di servizi, in particolare servizi di carattere amministrativo (contabilità e revisione di bilanci, ad esempio) oppure di carattere commerciale (controllo della produzione, del marketing, ad esempio).

Il “valore normale” funge, invece, da parametro di valutazione che deve essere utilizzato per determinare il prezzo delle transazioni infra-gruppo.

I metodi tradizionali per la definizione dei prezzi di trasferimento

Per la determinazione dei prezzi di trasferimento, si fa ricorso a metodi tradizionali che si basano sull’analisi comparativa, ossia sul confronto tra le transazioni svolte da imprese consociate con quelle realizzate da soggetti indipendenti.

Per l’individuazione dei metodi, si richiama il Decreto emanato il 14 maggio 2018, il quale individua i metodi tradizionali nei seguenti:

  1. metodo del confronto di prezzo: consiste nel raffronto tra il prezzo praticato nella cessione di beni o nella prestazione di servizi resi nell’àmbito di un’operazione controllata e il prezzo praticato in operazioni non controllate comparabili;
  2. metodo del prezzo di rivendita: consiste nel raffronto tra il margine lordo che un acquirente in una operazione controllata realizza nella successiva rivendita in una operazione non controllata e il margine lordo realizzato in operazioni non controllate comparabili;
  3. metodo del costo maggiorato: raffronto tra il margine lordo realizzato sui costi direttamente e indirettamente sostenuti in un’operazione controllata e il margine lordo realizzato in operazioni non controllate comparabili;
  4. metodo del margine netto della transazione: confronto tra il rapporto tra margine netto ed una base di commisurazione appropriata, che può essere rappresentata, a seconda delle circostanze, da costi, ricavi o attività, realizzato da un’impresa in una operazione controllata e il rapporto tra il margine netto e la medesima base realizzato in operazioni non controllate comparabili;
  5. metodo transnazionale di ripartizione degli utili: consiste nell’attribuzione a ciascuna impresa associata che partecipa ad un’operazione controllata della quota di utile, o di perdita, derivante da tale operazione. Tale quota è determinata in base alla ripartizione che sarebbe stata concordata in operazioni non controllate comparabili, tenendo conto del contributo rispettivamente offerto alla realizzazione dell’operazione controllata dalle imprese associate ovvero attribuendo a ciascuna di esse quota parte dell’utile, o della perdita, che residua dopo che alcune delle funzioni svolte in relazione all’operazione controllata sono state valorizzate sulla base di uno dei metodi descritti sopra.

In aggiunta ai metodi sopraelencati, per espressa previsione normativa, il contribuente può applicare un metodo diverso purché dimostri che nessuno dei predetti metodi può essere applicato in modo affidabile per valorizzare un’operazione controllata, in base al principio di libera concorrenza e che tale diverso metodo produce un risultato coerente con quello che otterrebbero imprese indipendenti nel realizzare operazioni non controllate comparabili.

Accertamento e contraddittorio preventivo. Breve analisi dell’ordinanza n. 22539/2021 della Corte di Cassazione

Nella fase di accertamento e diemanazione del relativo avviso con il quale l’Ufficio effettua una rettifica in materia di transfer pricing è necessaria l’instaurazione di un contraddittorio preventivo con il contribuente.

L’onere della prova circa la non correttezza dei prezzi di trasferimento ricade sull’Amministrazione finanziaria che intende operare la rettifica (Cfr. Cass. 13.10.2006 n. 22023; Cass. 16.5.2007 n. 11226).

Tuttavia, detto onere è limitato alla dimostrazione della mera esistenza delle operazioni infragruppo realizzate e dalla pattuizione di un corrispettivo inferiore al valore normale. Non è, invece, necessario che l’Amministrazione finanziaria fornisca ulteriore prova che l’operazione sia priva di una valida ragione economica e abbia comportato un concreto risparmio di imposta (tra tutte, si vedano Cass. 15.12.2017, n. 30149, Cass. 15.9.2017, n. 21410, Cass. 30.6.2016, n. 13387 e Cass. 15.4.2016, n. 7493)[2].

Incombe, invece, sul contribuente l’onere di provare l’esistenza e l’inerenza della componente negativa di reddito e inoltre dovrà dimostrare che le transazioni siano avvenute per valori di mercato corrispondenti a quelli che sarebbero stati applicati tra imprese indipendenti (Cass. 26.1.2007 n. 1709; cfr. da ultimo anche Cass. 31.1.2018 n. 2240).

Trascorrendo all’esame di un caso di specie, con una recente ordinanza del 10.08.2021, n. 22539, la Corte di Cassazione, Sez. V, ha fornito alcune indicazioni volte all’individuazione del metodo più appropriato di determinazione dei prezzi di trasferimento e sul relativo onere della prova.

La vicenda in rassegna traeva origine dalla notifica di un avviso di accertamento, relativo al periodo d’imposta 2004, notificato a una società residente in Italia e operante nel settore della fabbricazione di medicinali e integratori a uso veterinario. Con tale avviso, l’Agenzia delle Entrate accertava l’incongruità dei prezzi di trasferimento riguardanti la cessione di alcuni beni a un’impresa consociata tedesca.

Nello specifico, per la determinazione dei prezzi di trasferimento, il contribuente aveva utilizzato due metodi: in estrema sintesi, il metodo del prezzo di rivendita, per i prodotti oggetto di mera commercializzazione e il metodo del costo maggiorato, per i prodotti oggetto di ulteriore lavorazione da parte della ricorrente.

Di converso, l’Agenzia delle Entrate aveva utilizzato, ai fini della rettifica, il c.d. metodo di confronto del prezzo, avuto riguardo allo stadio di commercializzazione, al periodo e al luogo di esecuzione, procedendo, inoltre, al recupero dell’IVA relativa ai componenti positivi di reddito accertati.

La società contribuente proponeva ricorso avverso tale atto, contestando la comparabilità dei prodotti presi a confronto dall’Ufficio e invocando l’applicazione di altri metodi di comparazione.

La società contribuente, soccombente nei giudizi di merito, proponeva ricorso in Cassazione.

La Corte di Cassazione, nell’esame della vicenda de quo, ha affermato come l’Agenzia delle Entrate è onerata di provare che le transazioni, poste in essere dal contribuente, avrebbero generato un maggior reddito imponibile se fossero state condotte tra soggetti terzi e indipendenti.

In altre parole, l’Ufficio deve provare l’esistenza di operazioni effettuate a un valore che si dimostri inferiore al c.d. “valore normale”, di cui all’art. 9, co. 3, del TUIR.

Nell’individuazione dei metodi di determinazione dei prezzi di trasferimento l’Agenzia deve attenersi alle indicazioni contenute nelle Linee Guida dell’OCSE sui prezzi di trasferimento. Queste, pur trattandosi di regole di soft law, devono essere utilizzate per riempire gli spazi interpretativi lasciati dalle norme di diritto interno.

Nell’ordinanza in esame si evince come secondo la Corte, l’Agenzia deve scegliere il metodo che risulti più appropriato in relazione al caso concreto, assolvendo all’onere della prova circa l’applicazione del valore di comparazione più adeguato; nel fare ciò, essa deve previamente valutare i vari metodi per la determinazione dei prezzi di trasferimento utilizzati dal contribuente, motivando le ragioni per le quali ritiene da discostarsi da essi.

L’onere di provare la non conformità al valore normale dei prezzi applicati dal contribuente grava in ogni caso sull’Ufficio.

La Corte di Cassazione rileva come nella sentenza impugnata è stata del tutto trascurata l’analisi funzionale relativa all’impresa concorrente, dal momento che non è stata effettuata alcuna valutazione, dal punto di vista della comparabilità e della funzione economica svolta da quest’ultima.

Viene, altresì, rilevato che nessuna motivazione è stata fornita in merito alle ragioni per le quali il metodo applicato dal contribuente dovesse considerarsi inadeguato rispetto al metodo del confronto di prezzo praticato dall’Agenzia.

Transfer pricing: nuova forma di abuso del diritto?

Il fenomeno dell’abuso del diritto, di matrice europea, delinea una serie di comportamenti posti in essere dal contribuente con il solo scopo di realizzare vantaggi fiscali indebiti mediante operazioni che sono prive di sostanza economica e che, sfruttando le smagliature dei diversi sistemi tributari, garantiscono l’ottenimento di un illegittimo risparmio d’imposta.

In questo senso, il contribuente, pur esercitando un diritto espressamente riconosciuto dalla Legge, non persegue un fine meritevole di tutela da parte dell’ordinamento ma, viceversa, realizza un obiettivo ad esso contrario, violando la ratio ispiratrice della norma giuridica.

Tanto premesso, è possibile ravvisare nella disciplina dei prezzi di trasferimento indubbi sospetti di erosione della base imponibile del reddito.

Invero, in alcune circostanze, viene in essere un illegittimo spostamento di materia imponibile da Stati a elevata fiscalità verso territori caratterizzati da una minore pressione fiscale, mediante l’alterazione del valore normale dei prezzi applicati nelle transazioni intercompany, generando in tal modo un indebito risparmio d’imposta.

Le operazioni di transfer pricing rispondono a specifiche policies del gruppo societario al fine di trarre vantaggio dalla residenza di società controllate e controllanti in differenti Paesi, potendo tale vantaggio non ridursi al mero tax planning, improntato sullo sfruttamento di regimi fiscali più favorevoli, dunque di per sé legittimo, ma potrebbe generare fenomeni di abuso del diritto.

Ciò che rileva nelle operazioni di transfer pricing è la discrepanza tra il valore di vendita di un bene ad una società del gruppo e il valore di vendita dello stesso bene sul libero mercato.

E’ questo quello che viene definito arms length priniciple[3], secondo il quale deve sussistere corrispondenza tra il prezzo stabilito nelle operazioni commerciali tra imprese associate e quello che sarebbe pattuito tra imprese indipendenti, in condizioni similari, sul libero mercato.

In base alle disposizioni previste internamente in materia di prezzi di trasferimento è possibile individuare quelli che sono presupposti soggettivi e oggettivi in presenza dei quali si può procedere ad una rettifica dei prezzi di trasferimento intercompany, per rideterminare il reddito imponibile dell’impresa fiscalmente residente in Italia, dopo aver ricostruito il valore normale delle transazioni.

Negli ultimi anni, gli studi condotti dall’OCSE nel contesto del progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) hanno portato all’emanazione di misure dirette a prevenire fenomeni elusivi connessi allo spostamento artificioso dei profitti.

Sono stati introdotti, così, maggiori oneri documentali, che hanno trovato attuazione nell’ordinamento italiano per effetto del D. Lgs. N. 147 del 14 settembre del 2015, contenente “Disposizioni recanti misure per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese”. Queste sono poi state recepite nella Legge di stabilità 2016.

La Legge n. 208 del 28 dicembre 2015 stabilisce specifici obblighi di rendicontazione a carico delle imprese, in particolare in riferimento alle società controllanti del gruppo residenti sul territorio nazionale.

Lo stesso obbligo vale per le controllate residenti in Italia, quando la controllante non è in un Paese con obbligo di rendicontazione.

Si tratta di adempimenti necessari, per acquisire informazioni veritiere e per effettuare una concreta valutazione del rischio sui prezzi di trasferimento.

A queste si aggiunge la circolare 16/E del 28 aprile del 2016 che ha lo scopo di impedire fenomeni di doppia imposizione internazionale che sono connessi alle riprese di tassazione nel nostro Paese.

L’Agenzia ha inaugurato un nuovo filone normativo che garantisce la possibilità che le attività sui prezzi di trasferimento vengano gestiti dapprima attraverso ruling preventivi dove, in caso di rettifiche sarà prevista la possibilità di accedere a procedure di Mutual agreement con le autorità fiscali estere. Essa, sembra così indirizzare le attività ispettive verso ipotesi di alterazione dei prezzi che prevedono la delocalizzazione dei redditi verso giurisdizioni con regimi fiscali più vantaggiosi.

Considerazioni conclusive

Il fenomeno del transfer pricing è connesso all’insieme delle tecniche che gli operatori economici adottano nell’àmbito di operazioni infragruppo.

Tuttavia, tali operazioni seppur apparentemente lecite possono annidare rischi di abuso del diritto, provocando l’erosione della base imponibile del reddito; invero, solitamente, si assiste alla delocalizzazione delle imprese, facenti parte del gruppo, in giurisdizione a bassa fiscalità, comportando dunque una alterazione dei prezzi applicati nelle operazioni intercompany non corrispondenti a quelli normalmente applicati tra imprese indipendenti, in spregio al principio di libera concorrenza.

La normativa fiscale, europea e nazionale, consente al contribuente di sfruttare le asimmetrie dei diversi sistemi fiscali, nei limiti della liceità, ottenendo un legittimo risparmio d’imposta, consistente nella libera scelta tra regimi opzionali diversi, offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.

Non sempre, però, i contribuenti navigano entro il perimetro della legittimità, talvolta travalicano i limiti del lecito dando vita a tecniche di pianificazione fiscale aggressiva, aggressive tax planning, idonee a generare un indebito vantaggio fiscale.

Si configura, in tal modo, un fenomeno abusivo caratterizzato dall’aggiramento della normativa fiscale, senza però violare alcuna disposizione imperativa (da cui l’irrilevanza penale di questa condotta) per conseguire essenzialmente un risparmio fiscale indebito, cioè – per usare i termini della direttiva ATAD[4] – “un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità del diritto fiscale applicabile, non è genuina avendo riguardo a tutti i fatti e le circostanze pertinenti”.

In conclusione, ritornando al fenomeno dei prezzi di trasferimento, si assiste sovente ad una fattispecie che nel concreto si sostanzia in una serie di tecniche idonee a generare ipotesi di abuso del diritto, mediante lo sfruttamento dei rapporti intercorrenti tra società controllanti e società controllate, facenti parte del medesimo gruppo, geo-localizzate in Paesi o giurisdizioni che a fiscalità inferiore e/o nulla, applicando alla cessione di beni o prestazioni di servizi prezzi inferiori rispetto a quelli che sarebbero applicati, per la medesima operazione, da imprese tra loro indipendenti.

[1] L’art. 2359 c.c., rubricato “Società controllate e società collegate”, stabilisce che: “Sono considerate società controllate: 1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria; 2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa. Ai fini dell’applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta; non si computano i voti spettanti per conto di terzi. Sono considerate collegate le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole. L’influenza si presume quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa”.

[2]La prova gravante sull’Amministrazione finanziaria non riguarda la maggiore fiscalità nazionale o il concreto vantaggio fiscale conseguito dal contribuente, ma solo l’esistenza di transazioni, tra imprese collegate, ad un prezzo apparentemente inferiore a quello normale, incombendo, invece, sul contribuente, giusta le regole ordinarie di vicinanza della prova ex art. 2697 c.c. ed in materia di deduzioni fiscali, l’onere di dimostrare che tali transazioni siano intervenute per valori di mercato da considerarsi normali” (Cass. sentenza del 15.09.2017, n. 21410).

[3] Articolo 9 del Modello di Convenzione fiscale OCSE: “(Allorché) le due imprese (associate), nelle loro relazioni commerciali o finanziarie, sono vincolate da condizioni accettate o imposte, diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti, gli utili che, in mancanza di tali condizioni, sarebbero stati realizzati da una delle imprese, ma che, a causa di dette condizioni, non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati in conseguenza”.

[4] Le direttive ATAD sono state recepite con il D.Lgs. 29 novembre 2018, n. 142, la cui relazione precisa che nel nostro ordinamento non si è reso necessario introdurre una disposizione generale antiabuso, in quanto la sostanziale affinità con la norma della direttiva madre/figlia (n. 2015/121/UE) era stata già convalidata dal legislatore al comma 5-bis dell’art. 27-bis, D.P.R. 29 settembre 1972, n. 600, in cui si afferma che i principi europei in materia di contrasto all’elusione sono già recepiti nella nostra norma sull’abuso del diritto, l’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, introdotto con il D.Lgs. n. 128/2015.

Raffaella Ascolese

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