L’ inutilità del carcere nella criminologia europea

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1. Introduzione

Nils Christie e gli altri Abolizionisti della Scandinavia hanno sottolineato, non senza una certa ironia, l’ inutilità e, fors’ anche, l’ assurdità dei lemmi “ riabilitazione carceraria “. P.e., in norvegese, “ rehabiliteres “ indica l’ atto di restaurare una casa, il che, francamente, nulla ha a che vedere con la Pedagogia da applicare ad una persona in vinculis. Anche in lingua inglese, riabilitare dopo la morte significa restituire i giusti meriti ad un personaggio defunto che è stato diffamato, ma, anche in questo caso, l’ attività degli educatori penitenziari non è finalizzata ad alcuna tutela postuma del decoro e della reputazione, soprattutto perché il marchio infamante della detenzione rimane sempre pressoché indelebile.

Soltanto nel lessico italiano, riabilitare un recluso significa, in maniera abbastanza adeguata, ripristinare condizioni di vita dignitose e in grado di affrancare il condannato da abitudini anti-giuridiche e criminogene, pur se tale asserto teorico, come ampiamente noto, rappresenta una regola quasi irrealizzabile, nonostante la perfezione teorica ed nominalistica del Diritto Penitenziario. Non è mancato, peraltro, chi ha sottolineato che “ riabilitare “ un individuo in carcere, ovverosia (ri)educarlo, non toglie, molto spesso, il carattere criminogenetico dell’ ambiente familiare, abitativo e sociale in cui il reo tornerà dopo aver espiato la pena.

Pertanto, negli Autori abolizionisti vicini al progressismo scandinavo, qualcuno si è posto la domanda di come riabilitare un deviante senza, tuttavia, coinvolgere dei soggetti esterni, responsabili, seppur indirettamente, delle azioni illecite commesse dal condannato. Basti pensare ad un commerciante di stupefacenti che, una volta tornato a piede libero, farà di nuovo parte di un nucleo familiare dedito allo spaccio e/o al consumo si sostanze proibite.

Oppure ancora, si ponga mente ad un ex recluso tristemente costretto a tornare in uno squallido quartiere periferico ove la micro-criminalità costituisce la norma di vita. In ogni caso, a parere di chi scrive, il lemma “ riabilitazione “, implicitamente sotteso, in Italia, al comma 3 Art. 27 Cost., reca un significato puramente teorico, senza che esista, nella realtà concreta, alcuna possibilità di rieducare e/o prevenire. Nella vita sociale di tutti i giorni, il carcere non prepara quasi mai alla vita libera e la Pedagogia carceraria incontra clamorosi fallimenti che contraddicono amaramente le varie Teorie criminologiche, tranne nel caso eccezionale della riabilitazione di un infrattore minorenne, munito di un carattere e di una personalità ancora in fase di auto-/etero-formazione.

L’ assurdità linguistica del voler (etero-)riabilitare un essere umano è sempre impropria anche nel sotto il profilo concettuale e contenutistico. Un detenuto / Una detenuta non è paragonabile ad un macchinario rotto da smontare, rimontare ed accendere in maniera automatica. Qualunque azione trattamentale penitenziaria fallisce qualora il ristretto percepisca la pena come un’ ingiustizia non meritata. Dunque è assolutamente indispensabile il consenso sincero del riabilitando, che non deve indossare una maschera falsa rabbiosamente contraria alla propria volontà intima e vera. Anche Foucault ( 1961 ) criticava negativamente l’ Ordinamento penitenziario retribuzionista francese.

In tanto in quanto “ le nostre carceri non sono nient’ altro che una fabbrica di lavori forzati e non un’ istituzione moralizzatrice incaricata di correggere dei vuoti morali [ … ] nessuno può essere corretto con la sola severità della penitenza “. Egualmente, l’ anglofono Sellin ( 1944 ) ricorda, a livello di Storia del Diritto Penitenziario, la piena inutilità di un lavoro manuale non istruttivo e non remunerato all’ interno delle galere di Parigi e di Amsterdam nel Seicento, ovverosia un carico occupazionale eccessivo e privo di una meta finale precisa finisce per incattivire il recluso anziché aiutarlo ed istruirlo.

E’ molto interessante anche la Storia dei riformatori ( tukthuser ), aperti, tra il 1735 ed il 1790, nel nord della Norvegia. In tali case di educazione al lavoro, le pene non costituivano affatto un’ inutile imposizione simbolica di dolore e “ i detenuti dovevano essere istruiti affinché potessero essere liberati, dopo un tempo determinato, e, tornati in libertà, sapessero badare a se stessi e affittare una casa o una fattoria. Uomini e ragazzi dovevano essere preparati al lavoro manuale ed erano muniti del certificato di apprendisti. Le donne e le fanciulle dovevano imparare a filare, tessere e lavorare ai ferri e ad apprendere l’ economia domestica per poter essere prese a servizio o sposarsi. In caso di matrimonio, potevano persino ricevere una dote “. ( Bugge, 1969 ). Nel Settecento, in Norvegia, le vecchie prigioni segreganti ( slaverier ) vennero quasi completamente sostituite dai predetti tukthuser, nei quali il lavoro penitenziario non era né assurdo né meramente simbolico o afflittivo. Ne conseguiva una riabilitazione autentica e non una posa forzata di buona condotta piena di rabbia interiore contro l’ intero Sistema sociale e contro gli operatori carcerari. In ogni caso, la Norvegia, nella seconda metà del Settecento, presentava già i prodromi concettuali e fattuali dell’ Abolizionismo novecentesco, come dimostra il tentativo ordinamentale di educare i carcerati attraverso lo strumento del lavoro.

2. Il modello del Penitenziario di Amsterdam nel XVII Secolo

Sellin ( 1944 ), nell’ ambito della Criminologia anglofona, ha dettagliatamente analizzato la Storia dell’ esecuzione penitenziaria nel carcere di Amsterdam, fondato nel 1596 e costituente un vero e proprio modello imitato, successivamente, in tutta Europa.

L’ Olanda del Seicento, prima dell’ odierna scristianizzazione, fondava la “ penitenza / pena “ sulla base della vita monastica nella “cella” e tale Ordinamento carcerario si fondava sui Principi del lavoro, dell’ istruzione scolastica, della moralizzazione e della disciplina. Prima della Riforma legislativa seicentesca, il Penitenziario di Amsterdam era composto soltanto da 9 celle, ciascuna delle quali poteva contenere dai 4 ai 12 ristretti. Ogni letto era predisposto per circa 4 condannati, il che non deve stupire alla luce delle abitudini igienico-sanitarie di quell’ epoca. Anzi, si trattava di un luogo sufficientemente confortevole, se paragonato a certune disumane e degradanti galere di altre zone europee.

Il lavoro consisteva nella “ raspatura “ di un legno brasiliano da cui era ricavata una vernice e tale impegno veniva svolto all’ interno di ciascuna cella, oppure nel cortile centrale, salvo nel caso di maltempo. L’ autentica novità delle rasperie carcerarie consisteva nell’ obbligare il detenuto ad un “ beteringe “ [ miglioramento ] della personalità e del carattere, attraverso un impegno manuale non simbolico e, quindi, sufficientemente motivante. Inoltre, nel Penitenziario, erano raccolti gli individui dediti all’ alcool ed al vagabondaggio molesto, ma, anche in questo caso, la “ cella “ e la raspatura cercavano di concretizzare la preziosa ratio della rieducazione, la quale, oltretutto, salvava molti infrattori dalla pena capitale. Il progetto dei vari direttori del Penitenziario qui in esame era quello, almeno a livello teorico, di creare, nella casa di reclusione, una vera e propria cittadella dell’ artigianato, con laboratori per calzolai, pellettieri, operai tessili, falegnami, fabbri, mobilieri, intagliatori di legno, vetrai e cestai. Di nuovo, Sellin ( ibidem ) ribadisce, con afferenza al modello olandese del Seicento, che tali possibilità lavorative non erano fini a se stesse o inutilmente de-contestualizzate, ovverosia “ le attività lavorative di questo istituto [ di Amsterdam ] erano comunque in relazione con la libera vita lavorativa [ … ] e stimolavano l’ abitudine al lavoro e l’ interesse per esso [ … ].

A chi doveva sottostare a lunghi periodi di privazione della libertà, si doveva offrire, per quanto possibile, una formazione professionale compiuta “ Conferire senso al lavoro carcerario, del resto, è, anche in epoca attuale, un modo privilegiato per interiorizzare la (ri)educazione e rimuovere la rabbia sopita, la quale, viceversa, aumenterebbe nel caso di occupazioni lavorative prive di senso e meramente simboliche. Il progetto di allestire officine e laboratori non venne realizzato, eccezion fatta per l’ impianto in carcere di una piccola filanda, ma il Penitenziario di Amsterdam rimane egualmente importante sotto il profilo della teorizzazione di un lavoro detentivo che preparasse il condannato ad affrontare la vita quotidiana esterna dopo l’ uscita dal luogo di reclusione, che si trasformava in luogo di rieducazione e di formazione professionale. Del resto, anche Sellin ( ibidem ) punta il dito contro molti Sistemi carcerari contemporanei in cui “le attività lavorative non sono per niente il più possibile in relazione con la libera vita lavorativa. In molte carceri, specie nelle più antiquate, il lavoro è, in gran misura, privo di significato o, semplicemente, non esiste. Per lo più, non esiste retribuzione, si riceve qualche piccola ricompensa saltuaria al posto del salario “.

Un’ altra peculiarità assai innovativa, nel Penitenziario di Amsterdam, è stato l’ insegnamento scolastico obbligatorio, che si svolgeva ogni giorno, compresa la Domenica, durante le ore serali. Per motivi securitari, a volte le lezioni si svolgevano nelle celle o nel grande laboratorio interno della rasperia. D’ altronde, anche negli eccellenti Penitenziari norvegesi contemporanei, le sommosse o gli atti di violenza non preventivabili creano una frequente impossibilità di erogare una scolarizzazione permanente e priva di attriti con i reclusi maggiormente aggressivi ( Skaalvig & Stenby, 1981 ).

Anzi, pare che non molto sia cambiato, dal punto di vista della scolarizzazione, rispetto alla situazione paradigmatica del Penitenziario di Amsterdam del XVII Secolo. Infatti, in buona sostanza, “ il trasferimento del detenuto da un carcere all’ altro può avvenire senza particolare considerazione per il suo corso di studi, che può essere anche interrotto in caso di trasferimento da una sezione all’ altra nel medesimo carcere [ … ] gli angusti e spesso inadeguati locali scolastici possono essere d’ ostacolo e molti insegnanti sentono che la collaborazione con le autorità carcerarie è carente. La sicurezza ha la priorità assoluta, la sicurezza viene al primo posto “ ( Langelid, 1986 ).

Non va sottovalutata la ratio della moralizzazione nel Penitenziario di Amsterdam. Senza dubbio, il calvinismo olandese del XVII Secolo rimane criticabile a motivo dei notevoli intrecci tra Religione e politica, ma resta comunque basilare la cura della moralità del recluso. Anche in epoca odierna, del resto, il Cappellano di un carcere è un punto di riferimento fondamentale per i ristretti, che spesso trovano sollievo, ascolto e comprensione attraverso le pratiche religiose. Il condannato rappresenta l’ esempio più concreto di come l’ aspetto religioso sia fondamentale anche nell’ uomo moderno. La preghiera, a parere di chi scrive, aiuta una sana e lecita evasione spirituale che lenisce il dolore cagionato dall’ espiazione intramuraria della sanzione criminale.

Inoltre, l’ apprendimento di una rinnovata vita etica può agevolare e preparare il ritorno a piede libero, come dimostra, nel caso della prassi penitenziaria italiana, il notevole e prezioso aiuto materiale di Sacerdoti e volontari cristiani, di fronte ai quali le devianze sono un ricordo del passato che non può e non deve ledere la sacra dignità umana del reo. Chi condanna la moralizzazione religiosa in carcere probabilmente non conosce l’ intensità del dolore scaturente dalla privazione della libertà personale.

Un quarto aspetto della riabilitazione nel Penitenziario di Amsterdam era la disciplina, barbaricamente e retribuzionisticamente intesa come l’ atto di ubbidire prontamente agli ordini autoritari e spesso inutili del Personale di custodia. L’ elenco delle punizioni verso i reclusi indisciplinati fa inorridire: un mese di pane ed acqua in caso di rissa, frustate e un mese di segregazione in cantina per tentativo di fuga e due mesi di cantina a pane ed acqua nel caso di rifiuto di lavorare. Si tratta di un concetto di disciplina totalmente opposto alle odierne regole della Pedagogia degli adulti. Le punizioni corporali ed il digiuno forzato non rieducano, bensì aprono la strada a nuove disubbidienze piene di rinnovata rabbia nei confronti del sistema carcerario. Tale severità eccessiva si pone in contrasto con il Principio di interiorizzazione dei valori rieducativi che un Penitenziario dovrebbe veicolare.

3. La Criminologia abolizionistica ed i suoi presupposti

Nella Criminologia contemporanea, specialmente nei Paesi scandinavi, la disciplina, la scolarizzazione ed il lavoro costituiscono tutt’ oggi degli elementi fondamentali nell’ ambito della rieducazione dei condannati, anche se, almeno in Occidente, sono stati abbandonati gli eccessi rigoristici del Penitenziario seicentesco di Amsterdam, pur se tale modello del XVII Secolo conteneva già i primi elementi innovativi sviluppati, successivamente, dalla CEDU e dalle Regole penitenziarie europee, codificate nella seconda metà del Novecento. Inoltre, negli Anni Ottanta e Novanta del Secolo scorso, è nota quella che Vincenzo Ruggiero chiamerebbe “ anti-criminologia “, la quale è sfociata nell’ Abolizionismo inteso come auto-negazione dell’ onnipotenza rieducatrice delle strutture carcerarie chiuse.

Oggi, si è finalmente compreso che le pene detentive brevi, nel nome dello sharp-shock-system, possono esercitare sul condannato un effetto moralizzatore che spesso non si trova nelle pene di lunga durata, nonostante l’ inutile intervento intra-murario di Psicologi e Psicoterapeuti inidonei e troppo costosi per l’ intero Ordinamento socio-giuridico. Tale riforma di stampo decisamente basagliano ha demolito molte certezze apodittiche pure nel contesto della rieducazione degli infra-18enni, degli infermi di mente violenti e degli alcolisti acuti etero-lesivi.

Profeticamente, Weber ( 1904 ) criticava il perbenismo protestante applicato alla riabilitazione penitenziaria, in tanto in quanto “ lavoro alacre, buona scuola, moralità rispettabile e sana disciplina sono componenti dell’ etica capitalistica e protestante che si trovano in molti contesti, ma che, insieme, esprimono una pessima etica borghese. Del resto, in ogni società, il carcere esprime pienamente la morale della classe dominante “.

P.e., nell’ Olanda del Seicento, veniva esasperato e quasi divinizzato il guadagno imprenditoriale, sicché la raspatura del legno, nel Penitenziario di Amsterdam, era applicata per veicolare il presunto valore riabilitativo del lavoro. Viceversa, nella Scandinavia del Novecento, prevaleva la formazione scolastica dei ristretti, giacché lo Studio culturale era ( rectius : è ) socialmente reputato come basilare nel tessuto sociale esterno di Paesi come la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, la Finlandia e l’ Islanda. Giustamente, Mathiesen ( 1986 ) affermava che “ gli interessi del sistema ( vale a dire le componenti ideologiche che in una certa epoca è interesse del sistema mettere realmente in pratica ) sono definiti, formulati e trasmessi dall’ esterno. Nel XVII secolo, la politica economica mercantilistica influenzava il carcere attraverso l’ opinione pubblica dell’ epoca. Pietra di paragone per il carcere diventava, nei processi di formazione dell’ opinione pubblica, la capacità di svolgere attività redditizie “. Similmente, negli Anni Duemila, le carceri norvegesi si fondano su un’ intensa scolarizzazione, e ciò nella misura in cui la collettività “ esterna “ reputa di primaria importanza la formazione culturale anziché quella lavorativo-manuale. Oppure ancora, nella Norvegia degli Anni Ottanta del Novecento, la popolazione comune apprezzava molto le sedute psicoterapeutiche di gruppo e, per conseguenza pressoché automatica, anche nei Penitenziari, almeno per qualche anno, si cominciò ad organizzare sedute psicoanalitiche che vedevano protagonisti i ristretti suddivisi in piccoli gruppi di terapia riabilitante. Anche in questo caso, come si può vedere, la realtà e le tendenze esterne hanno influenzato anche il trattamento penitenziario.

Un altro esempio può essere costituito dalla discutibile moda contemporanea dello yoga, applicato e praticato tanto nella comunità esterna quanto, come prevedibile, in quella sottopposta alla detenzione carceraria.
Anche nei Paesi della Scandinavia, il giudizio complessivo sul carcere è decisamente negativo, tranne nel caso delle strutture semi-aperte che, anziché incattivire il condannato, lo educano sotto il profilo culturale e/o lavorativo. Christie ( 1981 ) esprimeva un giudizio aspramente negativo e drastico, poiché “ l’ effettiva riabilitazione è stata vanificata. Mai, nel corso della sua storia, il carcere ha avuto una funzione riabilitante, mai esso ha ripristinato la funzionalità del detenuto [ … ] numerose ricerche empiriche mostrano che, a prescindere dalla forma del trattamento e persino in caso di esperienze di trattamento intensivo, i risultati restano in gran misura gli stessi e, in genere, sono molto scadenti [ … ] con questo o quel trattamento, i risultati sono per lo più gli stessi [ … ] l’ attuazione pratica del trattamento non ha mai mostrato gli effetti desiderati, perché la realtà stessa del carcere, in ogni circostanza, è ben lontana da qualsiasi cosa che si possa chiamare trattamento [ … ] La vita quotidiana nel carcere è ben lontana da qualsiasi situazione riabilitante “. Tali osservazioni di Christie ( 1981 ) sono sorprendentemente applicate anche alla Norvegia, ove i Penitenziari sono pur sempre istituzioni iper-burocratiche e non contestualizzate nel territorio. Anche negli Anni Duemila, l’ opinione pubblica è eccessivamente influenzata dal populismo televisivo pre-elettorale ed il detenuto reca sempre un marchio infamante che gli impedisce un pieno ed ordinario ritorno nel gruppo sociale forzatamente abbandonato durante il periodo di privazione della libertà personale. L’ amara eppur concreta verità è che nessuna “struttura sociale “ è disposta a riabilitare moralmente e lavorativamente un individuo che ha subito l’ esperienza della detenzione carceraria ( Rusche & Kirchheimer, 1939 ).

Sicché, l’ Abolizionismo nord-europeo, almeno in epoca attuale, rimane un’ utopia priva di una possibile realizzazione concreta, pur se, nell’ ottica cristiana dell’ Europa post-bellica, il ristretto dovrebbe essere considerato alla stregua di un penitente che ha scontato il proprio debito etico. Ciononostante, si tratta di una prospettiva meta-normativa praticata soltanto da una minoranza engagée, che si muove contro la corrente giustizialista e laicista del pensiero dominante. Inoltre, rimane, soprattutto nel caso di pene detentive lunghe, il perenne problema della recidiva, in tanto in quanto “ la riabilitazione non si promuove mediante la detenzione in carcere, perché il carcere funge da scuola del crimine.

Più sono radi i contatti con la realtà esterna, più sono numerosi i contatti ravvicinati nei piccoli gruppi all’ interno. Più a lungo si protrae la detenzione, tanto più la prigionizzazione influenzerà negativamente il detenuto anche dopo la scarcerazione “ . Sempre in tema di recidiva post-penitenziaria, anche lo statunitense Wheeler ( 1961 ) afferma, in un pregevole Censimento statistico di lungo periodo, che i detenuti non perdono mai completamente gli usi ed i valori che condividono con gli altri reclusi. E poiché molti vengono incarcerati più volte, si può forse descrivere la permanenza in prigione come una sorta di spirale, seguendo la quale il detenuto resta sempre più invischiato nella cultura carceraria “. Nonostanti i progressi dell’ odierno Diritto Penitenziario, il carcere rimane un luogo fortemente criminogeno, soprattutto in danno degli individui più giovani, nei quali l’ esperienza della vita penitenziaria fa crescere sempre di più un insanabile odio rabbioso anti-sociale ed anti-normativo, sino a creare un vero e proprio desiderio di vendetta nei confronti delle Autorità pubbliche giuridicamente costituite. Anche Sykes & Messinger ( 1960 ) reputano che la sofferenza connessa al carcere [ pains of imprisonment ] genera una “ società carceraria “ parallela e pressoché sotterranea nella quale la devianza costituisce uno sfogo contro una legalità ed una disciplina auto-percepite come opprimenti e non del tutto meritate. Donde, l’ importanza basilare di creare benefici extra-murari che limitino la segregazione e la frustrazione.

Persino l’ apparentemente garantistica Norvegia, perlomeno nel Novecento, recava un Sistema carcerario definito “ troppo doloroso “ dal Dottrinario ed ex recluso Galtung ( 1959 ). Tale afflizione iper-trofica non è per nulla alleviata nelle Rems, dette, a livello meta-geografico, ospedali psichiatrici giudiziari. Anzi, il recluso non comprende l’ attività trattamentale della Rems, innanzi alla quale egli si auto-definisce, interiormente, un rifiuto sociale, in cui la malattia è più o meno congiunta alla devianza anti-giuridica. L’ internato si reputa “ spazzatura della società “ ( Kongshavn, 1987 ) ed il dolore per la perdita della libertà personale è acuito da tale collocamento ordinamentale in una illogica zona grigia nella quale la patologia si incontra, più o meno esplicitamente, con la delinquenza. A sua volta, siffatta mancanza di identità crea condotte aggressive, che confermano l’ inutilità del carcere e l’ irrazionalità della riabilitazione del detenuto. Pertanto, a prescindere dalla fattispecie ancor più grave degli oo.pp.gg., il danese Balvig ( 1969 ) asserisce che “ i detenuti lamentano che la loro riabilitazione non è per nulla perseguita, e così giungono a rifiutare il carcere a partire dai suoi presupposti. Si alimenta, dunque, un profondo conflitto tra istituzione e reclusi sino a giungere all’ incomunicabilità culturale “. Con espressioni linguistiche anglofone molto ben riuscite, McCorkle & Korn ( 1954 ) affermano che “ la polizia, i tribunali e specialmente il carcere fanno sì che i detenuti siano brutalmente estromessi dal consorzio umano; la risposta dei detenuti consiste nel rifiutare coloro che li hanno rifiutati “ [ gli splendidi lemmi originali sono : reject their rejectors ] . Probabilmente, l’ Europa ha perso la nozione cristiano-riduzionistica di com-passione, ma il perdono rimane pur sempre un atto di convenienza sociale, come implicitamente insegnato dal Defunto Christie e dai suoi allievi. Dimenticare le colpe può essere un gesto culturale, oltre che puramente religioso. Il Dirito Penitenziario europeo non può negare la propria origine giudaico-cristiana.

4. L’ interrogativo perenne, da Dolcini e Paliero in poi: il carcere ha alternative ?

La società europea, unitamente a quella nord-americana, afferma che la sanzione criminale di tipo penitenziario produce ( rectius : produrrebbe ) una buona deterrenza sulla collettività, la quale verrebbe intimorita dal dover patire la reclusione o, in alcuni Ordinamenti, financo la pena capitale. In effetti, anche il progressista Johnsen ( 1979 ) riconosce che la generalpreventività del Diritto Penale “ è un paradigma [ sociale ] che offre uno schema per la comprensione della società, indirizza il pensiero [ … ] nella nostra società. L’ idea che la pena abbia un effetto di prevenzione generale agisce in larga misura come un paradigma, [ la deterrenza ] ha un carattere fondamentale, nel senso che è vista come una specie di pietra angolare dell’ ordine sociale “. Eppure, a livello statistico-criminologico, si constata che la generalpreventività non esiste o esiste in maniera blanda e, anzi, l’ aumento del massimo edittale delle sanzioni penali genera una netta diminuzione della deterrenza. Anche la pena di morte non incute alcun timore nei consociati in procinto di commettere infrazioni giuridiche gravi ed altamente etero-lesive. In Europa, a partire dalla seconda metà del Novecento, non mancano personaggi politici che, nel nome di uno sfrenato populismo criminologico, ampliano gli allarmi sociali e promettono, in epoca pre-elettorale, una maggiore severità repressiva, ma, pure in questo caso, i risultati sono diametralmente opposti a quanto preventivato e gli illeciti si moltiplicano e si aggravano in misura esponenziale.

Nella Criminologia norvegese del Novecento, con l’ eccezione di Andenæs ( 1977 ), l’ autentica novità filo-abolizionista o, perlomeno, filo-riduzionista, è consistita nel mettere in dubbio la Teoria stessa della generalpreventività, la quale, per molti secoli, è stata alla base della Giuspenalistica europea. Prima dello storico dibattito sulla deterrenza penale aperto dall’ Accademico norvegese Andenæs, negli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, Christie ( 1962 ) si era adattato ad un Riduzionismo moderato, secondo cui “ da un lato, non si può negare che la pena determini un effetto di prevenzione generale, ma, d’ altro canto, si dimostra palesemente irrealistico credere che, inasprendo le pene o aumentando le azioni di polizia, si riesca automaticamente a ridurre la criminalità “.

Più drasticamente, Frank ( 1986 ) psicologizza il potenziale deviante alla luce di un’ algebrica valutazione quasi numerica del “ rapporto tra costi e benefici “, ovverosia, almeno a parere di tale Dottrinario germanofono, chi delinque sarebbe deterministicamente influenzato dall’ analisi del provento del reato messo a paragone con la speculare analisi delle eventuali conseguenze sanzionatorie. Ciononostante, lo stesso Frank ( ibidem ) ammette che, come nel caso del dolo d’ impeto, l’ analisi comparata tra costi e benefici non è sempre certa ed infallibile come una formula geometrica. In effetti, come dimostrato nel Censimento criminalistico di Ross ( 1984 ), l’ aumento delle pene previste per la guida in stato di ebbrezza, nei Paesi scandinavi, non ha prodotto pressoché alcun effetto generalpreventivo e, anzi, ove le sanzioni per i guidatori sono più severe, ivi il consumo a rischio di alcol e stupefacenti è aumentato ancor di più.

Altri Autori, soprattutto negli USA, reputano che il nodo problematico della deterrenza sui consociati non consta nell’ aumentare la pena, bensì nel rendere certa la pena aumentata. P.e., in un Ordinamento iper-garantistico come quello italiano degli Anni Duemila, il reo è consapevole della non-certezza della pena detentiva, ragion per cui manca una sufficiente generalpreventività, nella misura in cui, parallelamente, manca un’ esecuzione penitenziaria rigorosa e non derogabile. Analoga osservazione vale pure nel Diritto Penale minorile, giacché l’ infra-18enne è cosciente di essere dolcemente avvolto da un Garantismo ipertrofico che minimizzerà la pena della reclusione teoricamente e nominalisticamente comminata dall’ Autorità Giudiziaria minorile. Sempre con attinenza alla criminalità minorile, Schumann ( 1987 ) osserva che il problema non è la severità, ma “ la durata della pena, che non svolge nessun effetto preventivo sul comportamento criminale giovanile “, in tanto in quanto il minore degli anni 18 sa in anticipo di non dover scontare per intero la più o meno lunga reclusione, che è accompagnata da troppi benefici extra-murari. Dunque, nel caso della generalpreventività, le alternative al carcere eccessive e troppo blande recano ad una paradossale disinibizione delle devianze anti-normative. Dunque, “ il rischio oggettivo [ dell’ incarcerazione ] ha un effetto deterrente solo se esso è sperimentato come tale. Ma se l’ esecuzione penitenziaria è [ poi ] parziale o modesta, la teoria della prevenzione generale è davvero messa alle corde “ ( Schumann, ibidem ). Detto con lemmi più volgarizzanti, la questione non è il “ dare “ la pena, bensì il “ far espiare “ con serietà la pena, anche se essa è di breve durata.

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A parere di Frank ( ibidem ), la generalpreventività ed il timore collettivo di essere incarcerati dipendono anche dall’ efficienza della PG. Tuttavia, sotto un’ altra ottica, è anche vero che una PG iperattiva ed onnipresente, come nel caso odierno degli USA, crea uno Stato di polizia invadente ed opprimente. Inoltre, “ non c’ è alcuna significatività statistica che consenta di sostenere che un incremento dell’ attività poliziesca aumenti il tasso di arresti e condanne “ ( Frank, ibidem ).

Parallelamente, si può argomentare che un carcere assolutizzante, anche di fronte ad infrazioni bagatellari, genera un clima sociale ove lo Stato diviene un dittatore indesiderabile contro cui resistere e ribellarsi. Anche Balvig ( 1984 ) mette in guardia da una PG dispotica, in tanto in quanto, secondo il summenzionato Dottrinario danese, “ non v’ è dubbio che con mezzi polizieschi si possa accrescere grandemente la percentuale di indagini risolte. Rimane comunque incerto che si possa farlo senza grandi costi sociali, non solo di tipo economico “. In buona sostanza, incrementare il potere della PG ed incarcerare più individui recherebbe ad un tessuto sociale destinato ad implodere a causa della giuridificazione terroristica di ogni pur minima azione della vita quotidiana. Tali asserti paiono applicabili alla New York di Rudolph Giuliani durante i primi Anni Duemila. Si consideri pure che, nel lungo periodo, la ratio della “ tolleranza zero “ produce resistenze anti-ordinamentali, specialmente presso le minoranze etniche e presso le fasce di popolazione residenti nelle disagiate periferie metropolitane. Aumentare il tasso di incarcerazione ha un effetto boomerang dal punto di vista della gestione politica, poiché un Ordinamento giuridico eccessivamente liberticida è inesorabilmente destinato al declino socio-organizzativo.

Andenæs ( 1972 ), nella propria produzione accademica, alterna lo Stato-centrismo al temperamento istituzionale ed afferma: “ la più forte ragione per credere nella prevenzione generale è ancora la ben nota esperienza che il timore di conseguenze indesiderabili è un forte fattore motivante nella maggior parte delle circostanze della vita. Ritengo, per parte mia, che sia il trattamento sia la neutralizzazione abbiano un posto legittimo nel diritto penale, ma il suo scopo primario deve essere la prevenzione generale, fondata su una combinazione di deterrenza e di influsso morale, ovviamente entro i limiti imposti dalla giustizia e dall’ umanità [ … ] . Le sanzioni, nei casi concreti, hanno prima di tutto il compito di caricare di gravità la minaccia “. Quella di Andenæs ( 1972 ) è una posizione che ricorda i prodromi culturali del regime sovietico. Putroppo, anche l’ anglofono Wilson ( 1975 ) parla della deterrenza penale come se l’ Ordinamento dovesse educare bambini non autonomi, nel senso che “ dal punto di vista della prevenzione generale, la pena può essere considerata come un messaggio da parte dello Stato, che significa: tu non devi commettere determinate azioni, innanzitutto perché non ne vale la pena ( deterrenza ), in secondo luogo perché è moralmente ingiusto ( ammaestramento morale ), e, infine, perché tu devi semplicemente abituarti a non commetterle ( induzione di abitudini ) “. Andenæs ( 1972 ) e Wilson (1975 ) sono, a parere di chi scrive, completamente condannabili, in tanto in quanto essi trattano il popolo sovrano, nonché elettore, come un infante bisognoso di una buona educazione falsa e perbenista, oltretutto non ancorata ad un’ etica stabilmente meta-temporale.

La popolazione non necessita per nulla di novelli Giuseppe Stalin che, dall’ alto, somministrano “ ammaestramenti morali “ per “ indurre a buone abitudini “. Il compito dello Stato consta nell’ erogare servizi democratico-sociali e nell’ impedire che “ cives ad arma veniant “: Nessuno Stato può arrogarsi la funzione di veicolare valori morali, che appartengono alla sfera operativa delle Religioni. Un eventuale Stato moralizzatore che abusa della sanzione carceraria si trasforma in un campo di concentramento legale in cui il cittadino è infantilmente costretto ad imparare bene la lezione. Anche con afferenza al sistema penitenziario, è ben difficile che il carcere diventi un’ Istituzione moralizzatrice, giacché la (ri)educazione parte dall’ interiorità del recluso ed un’ omelia laica è destinata a non essere pienamente e spontaneamente recepita. Il Magistrato, il Legislatore ed il Governante non rivestono il diverso ruolo del Sacerdote e l’ utente si ribella a tale imposizione di direttive Stato-centriche. L’ inglese Hall ( 1978 ) giustamente sostiene che la Giuspenalistica ed il trattamento penitenziario effettuano “ comunicazioni da parte dello Stato verso i membri della società “, ma tale dialettica non dev’ essere totalizzante e mortificante. Dunque, il carcere può spesso essere inutile nella misura in cui i messaggi (etero)pedagogici veicolati vengono liberamente respinti dal condannato, che mantiene comunque la propria dignità umana di scelta. L’ Abolizionismo scandinavo forse non ha indicato alternative al carcere, ma senz’ altro ha annichilito l’ idea di una vita penitenziaria che riduce il reo ad un bravo bambino impegnato a fare i compiti. La Morale impone, mentre il carcere propone. Lo Stato, con le proprie Istituzioni, non è un dio, né un maestro di vita.

B I B L I O G R A F I A

Andenæs, Nyere forskning om almenprevensjonen – status og kommentar, Nordisk Tidsskrift for
Kriminalvidenskab, n. 65, 1977
idem Likhet og rett, Pax, Oslo, 1972
Balvig, Faengsler og fanger, Copenhagen, 1969
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Dott. Andrea Baiguera Altieri

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