L’incidenza dell’adesione di nuovi stati all’unione europea sulle fattispecie di cui agli artt. 12 e 22 d. L.vo 286/1998: dai contrasti giurisprudenziali ad una proposta ermeneutica unitaria

Scarica PDF Stampa
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’abolitio criminis: la ratio sottesa all’art. 2, comma 2, c.p.. – 3. La successione di norme extrapenali integratrici. – 4. Le ricadute dei predetti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali nel caso specifico. – 5. Conclusioni.  
 
1. Premessa. – Le sentenze sopra trascritte rivelano in maniera significativa ed esemplificativa la difformità di orientamenti espressi dalla giurisprudenza in ordine all’incidenza che l’ingresso nell’U.E. di nuovi Stati produce sulle fattispecie – consumate in epoca precedente – di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed assunzione di lavoratori extracomunitari privi del prescritto permesso di soggiorno, previste e punite, rispettivamente, dagli artt. 12 e 22 D. l.vo 286/1998.
La problematica, resa importante sotto il profilo pratico dal costante intensificarsi del fenomento migratorio, ergo dalla sua frequente trattazione nelle aule giudiziarie, riveste particolare rilievo anche sotto il profilo teorico poiché risveglia l’attenzione dell’interprete sulla (ampiamente trattata, eppure mai definitivamente risolta) questione della riconducibilità all’istituto della abolitio criminis di cui all’art. 2, comma 2, c.p. delle modifiche di norme extrapenali integrative del precetto penale e sollecita la riflessione del giurista sulla possibilità di coordinare in unità, sì da superare aleatorie incertezze processuali, il multiforme e variegato panorama disegnato in materia de qua dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
 
2. L’abolitio criminis: la ratio sottesa all’art. 2, comma 2, c.p.. – L’art. 2, comma 2, c.p. dispone che: “Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
La norma introduce un principio speculare a quello della irretroattività nel tempo della legge penale, sancito dal primo comma della medesima disposizione (1).
 
 
3. La successione di norme extrapenali integratrici. – L’ingresso nell’U.E. di nuovi Stati realizza una modificazione del Trattato istitutivo di quest’ultima, ovvero una successione di norme extrapenali integratrici della fattispecie penalmente rilevante.
L’ambito di applicazione del D. L.vo 286/1998 (T.U. immigrazione) è, infatti, regolato dall’art. 1 dello stesso, ai sensi del quale: “Il presente testo unico, in attuazione dell’art. 10, 2° comma, della Costituzione, si applica, salvo che sia diversamente disposto, ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea e agli apolidi, di seguito indicati come stranieri”.
Ne consegue l’inapplicabilità del predetto testo Unico ai cittadini di nuovi Stati dell’Unione Europea (2).
Dottrina e giurisprudenza, tuttavia, condizionate dalla complessità del fenomeno di “integrazione” del precetto penale, non hanno ancora elaborato criteri chiari e condivisi da tutti per risolvere i delicati problemi di riconducibilità all’art. 2, comma 2, c.p., della successione di norme extrapenali integrative della norma incriminatrice, ovvero di quelle modifiche normative che (come nel caso di specie) non incidono direttamente sugli elementi costitutivi della fattispecie penale, bensì in maniera soltanto “indiretta” o “mediata”.
L’atteggiamento più tradizionale della giurisprudenza, di pregiudiziale chiusura all’estensione della disciplina di cui all’art. 2, comma 2, c.p. oltre il limite del concetto letterale di “legge penale”, non enunciato dalla norma in esame – in cui compare sempre la sola locuzione “legge” – ed in evidente contraddizione sia con l’assimilazione delle norme cosiddette integratrici alle stesse norme penali seguita in materia di errore ed ignorantia legis che con l’ammissione di fonti anche secondarie o diverse dalla legge in senso formale quali elementi integrativi delle fattispecie, può ritenersi definitivamente superato (3).
 La giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti, ha affermato in linea di principio che, ai fini dell’applicazione del regime di retroattività della legge più favorevole di cui all’art. 2 c.p., per legge incriminatrice deve intendersi non solo la disposizione che formalmente prevede la sanzione, bensì il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini della descrizione del fatto (cfr. Cass., SS.UU., 23.5.1987, Tuzet, in Cass. Pen., 1987, p. 2099, n. 1740, in cui è stata ritenuta non più ravvisabile l’ipotesi di reato di peculato nella condotta di un dipendente di una cassa di risparmio perché è stata esclusa, a seguito di novatio legis, l’attribuibilità allo stesso della qualifica di pubblico ufficiale; nonché Cass., sez. V, 18.3 – 8.6.1998, n. 6690, *******, in Cass. Pen., 1999, p. 3127, in cui si è affermato che la trasformazione dell’Enel da ente pubblico in una s.p.a. ad opera dell’art. 15 D.L. 11.7.1992, n. 333, convertito nella L. 8.8.1992, n. 359, non rende più configurabile la fattispecie di contraffazione del sigillo di un ente pubblico, prevista dall’art. 468 c.p., commessa prima della detta trasformazione).
In altri termini, siccome “per norma incriminatrice si intende la norma che definisce la struttura essenziale e circostanziale del reato, comprese le fonti extrapenali che contribuiscono ad integrare la fattispecie penale, qualsiasi modifica delle fonti integratrici (dovrebbe comportare) un mutamento della norma incriminatrice, mutamento che è disciplinato dai principi di cui all’art. 2 c.p.” (4).
In più occasioni, tuttavia, la stessa giurisprudenza ha specificato che esula dall’istituto la successione di atti o fatti amministrativi, che pure influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implica una modifica della norma incriminatrice (cfr. Cass., sez. II, 21.9.1193, ********, in Cass. Pen., 1994, p. 3010, n. 1869 (5); Cass., sez. VI, 10.7.1995, *********, in Cass. Pen., 1996, p. 2579, n. 1462 (6); Cass., sez. III, 16.2.1996, Grivelli, in CED Cass., n. 204863 (7); Cass., sez. V, 25.2.1997 – 8.5.1997, n. 4114, in CED Cass., n. 207479 (8); Cass., sez. V, 24.9 – 18.10.1996, P.M. c/ Rizzi, in Cass. Pen., 1998, p. 111, n. 36 (9);  Cass., sez. III, 17.2.1998, Vittoria, in Giust. Pen., 1999, II, p. 187, n. 1000 (10).
Lo sforzo di superare le incertezze pratiche collegate ai predetti overrullings giurisprudenziali ha, infine, prodotto un orientamento mediano che, condiviso e suggestivamente espresso anche dal Tribunale di Taranto nella prima commentata sentenza, prevede che: “nelle ipotesi di abolizione o modifica di norma integrativa, occorre distinguere a seconda che l’abolizione o la modifica facciano o no venire meno il disvalore penale del fatto; invero, qualora per effetto della modifica della norma integrativa sia venuto meno lo stesso disvalore del fatto, evidentemente si ricade in un’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo. Qualora, invece, la modifica della norma integrativa dell’elemento normativo della fattispecie penale non abbia fatto venire meno il disvalore penale del reato anteriormente commesso e, quindi, la ratio puniendi del medesimo, non è in alcun modo applicabile l’art. 2 c.p.”.
Tale orientamento, già espresso dalla III sezione della Suprema Corte nella sentenza del 19.3 – 29.4.1999, n. 5457 (11), ha trovato più puntuale e rigorosa descrizione e specificazione nella sentenza n. 4296 del 2.12.2003 (12), per cui: “Nella giurisprudenza, ma anche nella dottrina, prevale la soluzione negativa (in ordine alla riconducibilità all’art. 2, comma 2, c.p. della successione di norme extrapenali integratrici), basata sul rilievo che siffatte leggi successive non modificano in alcun modo la struttura del fatto reato. Tuttavia, questo Collegio non aderisce a tale drastica soluzione, e ritiene invece che la disciplina prevista dall’art. 2, commi 2 e 3, c.p. debba trovare applicazione in alcuni sia pur limitati casi in cui venga modificata non la disposizione di legge penale, ma quella cosiddetta integratrice; e però, a condizione che la modifica della legge richiamata incida sulla struttura della norma incriminatrice ovvero sul giudizio di disvalore in essa espresso. Così, in adesione a tale tesi, si verifica successione di leggi penali, ai sensi dell’art. 2 c.p., in occasione della modifica o della abrogazione delle norme richiamate da una così detta norma penale in bianco, che rinvia cioè ad altra norma per l’individuazione in tuttto o in parte del precetto; ovvero nell’ipotesi che venga modificata una norma “definitoria”, cioè una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici, concorrendo a individuare il contenuto del precetto penale; e si ha pure un fenomeno di integrazione della norma penale rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 2 c.p. allorquando una disposizione legislativa commini una sanzione penale per la violazione di un precetto contenuto in un’altra disposizione legislativa che venga abrogata in tutto o in parte”.
In tal senso, del resto, la Corte di Cassazione si era già pronunciata, stabilendo che la disciplina relativa alla successione delle leggi penali (art. 2 c.p.) non si applica alla variazione nel tempo delle norme extra-penali e degli atti o fatti amministrativi che non incidono sulla struttura essenziale e circostanziata del reato, ma si limitano a precisare la fattispecie precettiva, delineando la portata del comando, che viene a modificarsi nei contenuti a far data dal provvedimento innovativo; in detta ipotesi rimane fermo il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il relativo controllo sanzionatorio va effettuato sulla base dei divieti esistenti al momento del fatto (13).
Anche in dottrina la questione relativa al mutamento delle norme integratrici è particolarmente controversa.
Accanto a chi attribuisce natura di mero requisito del fatto all’elemento normativo richiamato, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2 c.p. (14), vi è chi ritiene sempre riconducibile il caso in esame alla successione di norme penali (15) e chi, infine, valuta la norma richiamata in base alle regole proprie dell’ordinamento dal quale è tratta, pervenendo a soluzioni differenziate (16).
Anche in dottrina, tuttavia, va affermandosi quell’orientamento intermedio che ritiene rilevanti agli effetti dell’art. 2, comma 2, c.p. tutte le modifiche delle leggi extrapenali integratrici del precetto penale che abbiano l’attitudine ad incidere in concreto sul disvalore del fatto (17), condizionandone l’ampiezza con riferimento sia alla descrizione del tipo di reato, sia ai soggetti attivi.
Ciò che interessa al fine dell’applicazione dell’art. 2, comma 2, c.p. sarebbe, dunque, non già l’esclusione della rilevanza penale del singolo fatto concreto (intesa come assenza di sanzione) in base alla nuova legge, ma la diversa valutazione di liceità quale eliminazione del giudizio di disvalore dato dall’ordinamento.
 
 4. Le ricadute dei predetti orientamenti giurisprudenziali e dottrinali nel caso specifico. – A decorrere – come noto – dal primo gennaio scorso, in forza dell’art. 4 del Trattato di adesione all’U.E. sottoscritto a Lussemburgo il 25.4.2005, la Repubblica di Bulgaria e la Romania sono diventati Stati membri dell’*****
La Polonia, invece, lo era già dal 1.1.2004.
Ciò comporta il moltiplicarsi, nelle aule giudiziarie, di istanze ex art. 129 c.p.p. volte ad ottenere una sentenza assolutoria “perché il fatto non è più previsto dalla legge penale come reato” con riguardo a quelle condotte di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” (art. 12 D. L.vo 286/1998) e/o di “assunzione di lavoratori extracomunitari privi di permesso di soggiorno” (art. 22 cit. D. L.vo) poste in essere nei confronti di cittadini “neo-comunitari”, sebbene in epoca precedente alla adesione degli Stati di provenienza all’*****
La questione è stata, in effetti, già trattata e decisa dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, con esiti apparentemente contrastanti.
Il Tribunale di Viterbo, infatti, ha affermato che: “a seguito dell’ammissione della Romania nella C.E. i cittadini assunti dal prevenuto non rivestono più la qualità di extracomunitari”. Conseguentemente, “poiché ex art. 2 c.p. nessuno può essere punito per un fatto che dalla legge posteriore non è più considerato come reato, va esclusa la punibilità per il principio del favor rei” (18).
Tale orientamento di favore era già stato propugnato due anni or sono anche dal Tribunale penale di Roma che, in tema di inottemperanza all’ordine di espulsione impartito dal Questore ad una cittadina della Repubblica ceca, aveva ritenuto che: “la modifica della norma comunitaria che individua i Paesi facenti parte dell’Unione Europea determina una fattispecie riconducibile al comma 2 dell’art. 2 c.p.. Infatti, il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo non può essere circoscritto ai casi di modificazione diretta della norma penale, riguardando cioè un’altra norma o un altro elemento che integra la fattispecie incriminatrice. Di conseguenza, tale modifica, incidendo direttamente su tutta la normativa amministrativa che disciplina l’ingresso degli stranieri in Italia, incide altresì sulle fattispecie incriminatrici applicabili. Il venir meno dello status di cittadino extracomunitario, contribuendo ad integrare il contenuto del precetto penale, finisce per incidere, eliminandolo, sul disvalore penale del fatto complessivamente considerato” (19).
Esso, infine, è stato ulteriormente affermato sia dal G.U.P. presso il Tribunale di Taranto (20) che dalla sezione distaccata di Ginosa di questo stesso ufficio giudiziario.
La Suprema Corte di Cassazione, viceversa, con riferimento alla fattispecie di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ha recentemente affermato che: “la circostanza che la Polonia sia entrata a fare parte dell’Unione Europea alcuni anni dopo la commissione, da parte dell’imputato, della condotta incriminata, non consente di affermare che non sia più previsto come reato il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sia pure limitatamente ad una determinata categoria di soggetti, quali i cittadini polacchi che ora fanno parte dell’Unione Europea. Non è infatti intervenuta alcuna legge che abbia modificato la fattispecie criminosa così depenalizzando la precedente condotta poiché la norma incriminatrice è rimasta invariata e la ratifica del Trattato di adesione all’Unione Europea, al pari della ratifica di altri analoghi trattati che hanno negli anni più recenti interessato l’ingresso nella Unione Europea di numerosi nuovi Paesi, non può considerarsi come norma integratrice del precetto penale sottoposta al regime di cui all’art. 2, comma 2, c.p., né come elemento esterno che ridisegni la fattispecie penale del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che tale resta in relazione a tutti i soggetti che abbiano la qualifica di cittadini di Stati non appartenenti alla Unione Europea, ai sensi dell’art. 1 del D. Lgs. 286/98” (21).
Già nel 2004, d’altronde, la Corte regolatrice aveva negato, in tema di reati d’immigrazione, l’efficacia diretta delle norme che prevedevano l’ingresso della Lettonia nell’Unione Europea, incidentalmente dichiarando “irrilevante l’adesione di quel Paese all’Unione Europea, avvenuta nel maggio successivo, non vertendosi evidentemente in un caso di abolitio criminis”.
Proprio l’attenta lettura delle precedenti pronunce, alla stregua degli orientamenti generali espressi dalla giurisprudenza e dalla dottrina e sinteticamente riportati nel paragrafo precedente, dimostra, tuttavia, come la disparità di vedute ad esse sottesa sia più apparente che reale.
L’orientamento recentemente espresso dalla Suprema Corte di Cassazione in materia di reati d’immigrazione, infatti, più che smentire l’approdo giurisprudenziale e dottrinale che ritiene riconducibile alle previsioni dell’art. 2, comma 2, c.p. ogni modificazione extrapenale della fattispecie incriminatrice capace di incidere concretamente sul disvalore espresso da quest’ultima, ne costituisce un’evidente conferma.
Esso, infatti, concerne la fattispecie di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (art. 12 cit. D. L.vo 286/1998), in relazione alla quale, anche e proprio alla stregua degli arresti dottrinali e giurisprudenziali in materia di abolitio criminis sopra ripercorsi, la perdita dello status di “straniero” del soggetto passivo del reato è rilevante “solo nel senso che costituisce un presupposto della condotta che può riflettersi sulla rilevanza penale del fatto concreto, senza invece concorrere a delineare il precetto penale di cui all’art. 12 del T.U. sull’immigrazione, il quale è rimasto inalterato con tutto il suo contenuto offensivo derivante dalla situazione di sfruttamento dell’essere umano in condizioni di particolare debolezza poiché non dotato di cittadinanza di un Paese facente parte dell’Unione Europea e quindi dei diritti alla libera circolazione, alla libera permanenza ed alla tutela che spettano ai cittadini dei Paesi appartenenti all’Unione Europea” (21).
Questa stessa sentenza della Suprema Corte, in altri termini, benchè espressiva del più severo e rigoroso criterio d’interpretazione dell’art. 2, comma 2, c.p., non esclude affatto (a parere dello scrivente, anzi, confermando) la rilevanza che la successiva adesione dello Stato di provenienza del lavoratore alla Comunità Europea produce sulla fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 22 D. L.vo 286/1998 (assunzione di lavoratori extracomunitari privi del permesso di soggiorno), liddove il disvalore penale è concentrato esclusivamente sullo status del soggetto passivo del reato.
 
 5. Conclusioni. – Alla luce di tutto quanto sopra appare, dunque, possibile una ricostruzione epistemologica unitaria dei dati emergenti dall’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in materia de qua, che faccia leva sulla sostanziale differenza intercorrente fra la fattispecie di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e quella di assunzione di lavoratori extracomunitari privi del permesso di soggiorno, rispettivamente previste e punite dagli artt. 12 e 22 D. l.vo 286/1998.
Se, infatti, il disvalore penale della seconda – in presenza di una condotta (assunzione di lavoratori) incensurabile sotto il profilo etico – giuridico ed, anzi, addirittura incentivata dall’ordinamento costituzionale dello Stato – è concentrato esclusivamente sulla qualità (di extracomunitario) del soggetto passivo del reato, con la conseguenza che il postumo venir meno di tale status, in quanto direttamente incidente sul disvalore penale espresso dalla norma incriminatrice, deve ritenersi idoneo ad integrare una fattispecie di abolitio criminis ex art. 2, comma 2, c.p., ad analoga conclusione non può invece pervenirsi con riferimento alla fattispecie di favoreggiamento e/o sfruttamento dell’immigrazione clandestina prevista dall’art. 12 cit. D. L.vo 286/1998.
Ivi, infatti, il successivo venir meno della qualità di “straniero” del soggetto passivo del reato non appare idoneo a minare l’offensività di una condotta che resta, in ogni caso, oggetto di riprovazione da parte dell’ordinamento giuridico. 
 
                           ***********************
                                 Foro di Taranto
 
(1)     PETRONE, L’abolitio criminis, Milano, 1985.
(2)    Ex pluribus, Cass. Pen., sez. III, 27.1.00, n. 439.
(3)    PICOTTI, Codice penale, Parte generale, II ed., pp. 122 ss.
(4)    Cass., sez. III, 29.1.1998 – 7.4.1998, n. 4176, in Cass. Pen., 1999, p. 2164.
(5)    Che ha affermato che la legge “provvedimento” 8.8.1992, n. 395, che ha trasformato l’Enel da ente pubblico in s.p.a., è un atto sostanzialmente amministrativo sotto forma di legge, che non ha affatto modificato le norma incriminatrice della truffa.
(6)    La quale ha ritenuto che le trasformazioni che hanno interessato l’Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato non hanno modificato in via generale la fattispecie incriminatrice descritta negli artt. 479 e 493 c.p..
(7)    La quale ha rigettato il ricorso avverso la condanna per messa in vendita di carne bovina a un prezzo superiore a quello massimo determinato dal Comitato interministeriale dei prezzi, in quanto la successiva deliberazione dello stesso comitato, con cui veniva liberalizzato il prezzo di vendita della carne in questione, non può assumere valore di esimente per i comportamenti temporalmente precedenti.
(8)    La quale ha ritenuto l’applicabilità dell’art. 468 c.p. alla contraffazione dei sigilli posti sulla calotta del contatore elettrico, nonostante l’Enel, a seguito della L. 395 del 1992, sia divenuto ente pubblico economico, affermando che esula dall’istituto della successione delle leggi nel tempo la successione di atti o fatti amministrativi che, senza modificare la norma incriminatrice, agiscono sugli elementi di fatto modificandoli sì da non renderli più sussumibili sotto l’astratta fattispecie normativa.
(9)    Nella specie, relativa a rigetto del ricorso, era stata dedotta la violazione dell’art. 2 c.p. per non avere la Corte di merito ritenuto applicabile la regola della retroattività della legge più favorevole; ciò in quanto il valore dei solventi organici era conforme ai nuovi e più permissivi limiti fissati dal consorzio interprovinciale.
(10)Fattispecie nella quale era stata deliberata la sospensione sperimentale del regime del prezzo amministrato del pane dopo la consumazione del reato di cui all’art. 14 del D. l.vo del capo provvisorio dello Stato, 15.9.1947, n. 896 – vendita a prezzo superiore a quello imposto dal c.i.p..
(11)In Cass. Pen., 2000, p. 3014, n. 1633, per cui: “l’istituto della successione delle leggi penali (art. 2 c.p.) riguarda la successione nel tempo delle norme incriminatrici, ovvero di quelle norme che definiscono la struttura essenziale e circostanziata del reato. Nell’ambito di operatività dell’istituto in esame non rientrano, invece, le vicende successorie di norme extrapenali che non integrano la fattispecie incriminatrice né quelle di atti o fatti amministrativi che, pur influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, che resta, pertanto, immutata e quindi in vigore. Ne consegue che la successione di norme extrapenali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento e che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso”.
(12) In Cass. Pen., 2005, 10, 2986.
(13)Cass., sez. III, 12.3.2002, RV 221943.
(14)GALLO M., Le legge penale, Torino, 1967, 50; GROSSO C. F., Successione di norme integratrici di legge penale e successione di leggi penali, in Riv. It. **************., 1960, 1210; ********’, L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano, 1976, 314.
(15)E. FIANDACA – ********, Parte generale, Bologna, 2002, ******************, p. 82; ********, Diritto penale, Milano, 55, che adotta la terminologia, ripresa dalla dottrina tedesca, di modificazioni “mediate” della fattispecie incriminatrice; PALAZZO, Introduzione ai principi del diritto penale, Torino, 1999; ROMANO B., Il rapporto tra norme penali. Intertemporalità, spazialità, coesistenza, Milano, 1996; ***********, nota a Cass., sez. V, 24.9.1996 – 18.10.1996, in Cass. Pen., 1998, p. 112.
(16)PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, VI ed., 129; *******, voce Successione di leggi penali, in Noviss. Dig. It., vol. XVIII, 1971, p. 666 ss..
(17)MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, III ed., 120; ROMANO; Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, II ed., 54.
(18)Trib. Viterbo, 11.1.2007, n. 15, pubblicata sul quotidiano on line Diritto&giustizia.it del 27.1.2007.
(19)Trib. Roma, 1.12.2005, in Cass. Pen., 2006, 6, 2270.
(20)Trib. Taranto, ufficio G.U.P., 1.2.2007, n. 118, per cui: “la disposizione comunitaria che individua nella Romania un Paese facente parte dell’Unione … determina una fattispecie riconducibile al II comma dell’art. 2 c.p.. Infatti il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo non può essere circoscritto ai casi di modificazione diretta della norma, verificandosi anche nel caso in cui la modificazione di tale norma sia mediata, riguardando, cioè, un’altra norma od un altro elemento che integra la fattispecie incriminatrice. Di conseguenza tale modifica, incidendo direttamente su tutta la normativa amministrativa che disciplina l’ingresso degli stranieri in Italia, riverbera i propri effetti sulle fattispecie incriminatrici applicabili. Il venir meno dello status di cittadino extracomunitario finisce per incidere sulla struttura della fattispecie concreta che, così, viene ad evidenziare la assenza di un presupposto e, quindi, di un elemento costitutivo. Poiché nessuno può essere punito per un fatto che dalla legge posteriore non è più considerato reato, va esclusa la punibilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli”.
(21)Cass., sez. I, 11.1.2007, n. 1815.
 
TRIBUNALE DI TARANTO
Sezione distaccata di Ginosa, 1 febbraio 2007, n. 10729 (dep. 2 maggio 2007).
Est. ******* – proc. c/ A. S.
 
Stranieri – Assunzione di lavoratori privi di permesso di soggiorno – Successiva adesione dello Stato di provenienza alla U.E. – Idoneità ad integrare causa di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato – Non sussiste.
 
Nelle ipotesi di abolizione o modifica di norma integrativa, occorre distinguere a seconda che l’abolizione o la modifica della norma facciano o no venire meno il disvalore penale del fatto.
Non può in alcun modo ritenersi che l’ingresso della Romania e della Polonia nella Comunità Europea abbia fatto venire meno il disvalore penale dei reati commessi quando i cittadini di tali Paesi erano ancora da considerarsi come extracomunitari (C.p., art. 2; D. L.vo 25.7.1998, n. 286, artt. 12 – 22).
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. – A.S. veniva tratto al giudizio di questo Giudice con decreto di giudizio immediato emesso dal G.I.P. il 7.2.06 a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, per rispondere del reato indicato in epigrafe.
Nel corso del dibattimento, svoltosi nella dichiarata contumacia dell’imputato, regolarmente citato e non comparso, veniva acquisita, con il consenso delle parti, la comunicazione di notizia di reato; venivano altresì acquisiti i documenti prodotti dal P.M. e dalla difesa.
Dichiarata chiusa l’istruttoria dibattimentale, previa indicazione degli atti utilizzabili ai fini della decisione, le parti concludevano come in epigrafe.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE. – Nella relazione di servizio, acquisita al fascicolo per il dibattimento con il consenso delle parti, si legge che, il 13 agosto 2003, personale dell’ispettorato del lavoro di Taranto effettuava un sopralluogo presso lo stabilimento balneare denominato “T.”, sito a Castellaneta, il cui legale rappresentante è l’odierno imputato; in occasione di tale sopralluogo veniva riscontrata la presenza di tre cittadini extra-comunitari intenti a lavorare e, per la precisione, di ******** e ********, entrambe di nazionalità polacca, le quali erano addette ai lavori in cucina e di A. I., cittadino rumeno, addetto al lavoro di pulizia della spiaggia.
Tutti e tre i lavoratori venivano identificati mediante passaporto; tutti e tre, da accertamenti successivamente esperiti presso l’ufficio immigrazione della questura di Taranto, risultavano sprovvisti del permesso di soggiorno.
In presenza di tali risultanze istruttorie, deve addivenirsi ad una sentenza di condanna dell’odierno imputato per il reato a lui ascritto, che si perfeziona, appunto, quando taluno occupi alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno. Il termine “stranieri”, come chiarito dall’art. 1 del decreto legislativo 286/98, deve essere inteso come cittadino di Stato non appartenente all’Unione Europea o apolide.
Ciò premesso, va rilevato che sia la Polonia che la Romania, Paesi di provenienza dei lavoratori de quibus, sono entrati a far parte dell’Unione Europea a partire rispettivamente dal 2004 e dal 2007.
Sorge pertanto il problema di stabilire se l’introduzione della norma per l’effetto della quale i predetti Paesi sono entrati nella Comunità Europea sia o meno da considerare alla stregua di una successione di leggi penali nel tempo, riconducibile all’art. 2 c.p.; ove così fosse, in applicazione del secondo comma della suddetta norma, dovrebbe addivenirsi ad una sentenza di assoluzione dell’odierno imputato, perché il fatto ascrittogli non è più previsto dalla legge come reato.
Il problema si inquadra nel più generale problema della successione delle norme giuridiche integrative di un elemento normativo della fattispecie penale, cioè di un elemento definibile in base ad altre norme giuridiche.
La risposta al problema più generale non può essere data a priori; infatti, occorre verificare se tale successione comporti o meno, rispetto al fatto, quella effettiva immutatio legis che è la ratio giustificatrice dell’art. 2 c.p..
Orbene, la successione di leggi penali è da ammettersi nelle ipotesi di emanazione di nuove norme integrative, poiché si rende punibile un fatto che prima non lo era; pertanto, tali ipotesi rientrano pienamente nella ratio dell’art. 2 c.p..
Nelle ipotesi, invece, di abolizione o modifica di norma integrativa, occorre distinguere a seconda che l’abolizione o la modifica facciano o no venire meno il disvalore penale del fatto; invero, qualora per effetto della modifica della norma integrativa sia venuto meno lo stesso disvalore del fatto, evidentemente si ricade in un’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo. Qualora, invece, la modifica della norma integrativa dell’elemento normativo della fattispecie non abbia fatto venire meno il disvalore penale del reato anteriormente commesso e, quindi, la ratio puniendi del medesimo, non è in alcun modo applicabile l’art. 2 c.p..
L’applicazione dei principi appena esposti alla fattispecie che ci occupa porta ad escludere che ricorra un’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo; invero non può in alcun modo ritenersi che l’ingresso della Romania e della Polonia nella Comunità Europea abbia fatto venire meno il disvalore penale dei reati – ivi compreso quello del quale ci stiamo occupando – commessi quando i cittadini di tali Paesi erano ancora da considerarsi come extracomunitari.
In tal senso si è espressa anche la Suprema Corte, sia pure con riferimento alle diverse ipotesi delittuose di inosservanza dell’ordine del Questore di lasciare il territorio dello Stato e di favoreggiamento dell’ingresso clandestino di stranieri; secondo la Suprema Corte, l’adesione all’Unione Europea del Paese di provenienza dei clandestini dà luogo ad un’ipotesi di successione nel tempo di norme extrapenali, che non implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, ma attengono al contenuto del precetto, con decorrenza temporale dalla efficacia della modifica, senza che venga meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso (così Cass. Sez. I n. 42412 del 22.11.06, in Italgiure rv. 235584; vedi anche Cass. Sez. VI n. 9233 del 16.12.04, in Italguire Rv. 230951).
In conclusione deve addivenirsi ad una sentenza di condanna dell’imputato per il reato ascrittogli, atteso che al momento della commissione dello stesso i lavoratori in questione erano ancora cittadini extracomunitari.
Al S., per adeguare la pena alla concreta gravità del fatto possono essere riconosciute le attenuanti generiche.
Pena equa, alla luce di tutte le circostanze di cui all’art. 133 c.p., appare quella di mesi due di arresto ed euro diecimila di ammenda (pena base mesi tre ed euro quindicimila – cinquemila per ciascun lavoratore occupato – diminuita come sopra per le generiche).
Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.
La presenza di diversi precedenti penali, anche se uno solo con pena sospesa, impedisce di formulare una prognosi favorevole in ordine al futuro comportamento del S., precludendo, conseguentemente, la possibilità di concessione della sospensione condizionale della pena.
Un’ultima notazione si impone alla luce della asserita improcedibilità dell’azione penale per bis in idem.
L’azione penale, nella fattispecie, deve ritenersi esercitata dal P.M. con la richiesta di emissione del decreto penale, poi opposto, richiesta datata 5.12.2003; pertanto, posto che il decreto di citazione a giudizio allegato alla memoria difensiva, è del 10.5.05 (come dichiarato dallo stesso difensore), quand’anche alla luce di quanto recentemente statuito dalla Suprema Corte a Sezioni Unite (si veda sentenza n. 34655 del 2005), dovesse ravvisarsi un’ipotesi di improcedibilità – giova sottolineare, a tal proposito, che nel decreto di citazione a giudizio allegato alla memoria difensiva si fa sì riferimento agli stessi lavoratori di cui al presente procedimento, ma la data di accertamento del fatto risulta diversa -, la stessa riguarderebbe non il presente procedimento ma quello successivamente instaurato.
P.Q.M.
Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara S. A. colpevole del reato ascrittogli e, riconosciute le attenuanti generiche, lo condanna alla pena di mesi due di arresto ed euro diecimila di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali.
 
 
TRIBUNALE DI LA SPEZIA
Ord. 16 aprile 2007.
Est. ********* – proc. c/ S.D.F.
 
Stranieri – ampliamento della Comunità europea – straniero condannato per immigrazione clandestina – venuta meno dello status di cittadino extracomunitario – applicazione dell’art. 2 c.p. – ammissibilità – conseguenze.
 
La modifica della norma comunitaria che individua i Paesi facenti parte dell’Unione europea, determina una fattispecie riconducibile al comma 2 dell’art. 2 c.p.. Infatti, il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo non può essere circoscritto ai casi di modificazione diretta della norma penale, verificandosi anche nel caso in cui la modificazione di tale norma sia mediata, riguardando, cioè, un’altra norma o un altro elemento che integra la fattispecie incriminatrice. Di conseguenza, tale modifica incidendo direttamente su tutta la normativa amministrativa che disciplina l’ingresso degli stranieri in Italia, incide altresì sulle fattispecie incriminatrici applicabili. Il venire meno dello status di cittadino extracomunitario, contribuendo ad integrare il contenuto del precetto penale, finisce per incidere, eliminandolo, sul disvalore penale del fatto complessivamente considerato. Pertanto, il giudice dell’esecuzione ha il potere di disporre la revoca della sentenza passata in giudicato di condanna del cittadino rumeno (non più extracomunitario) per il reato di cui all’art. 14 comma 5 ter D. L.vo 286/1998, perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. (C.p., art. 2; art. 14 D. L.vo 25.7.1998, n. 286).
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. – Con sentenza n. 778/2006 emessa dal Tribunale della Spezia in data 26 agosto 2006 (irrevocabile in data 25 novembre 2006) S.D.F., nato in Romania in data 31 marzo 1986 è stato condannato per violazione dell’art. 14 comma 5 ter D. L.vo 286/1998.
Con istanza depositata in data 2 aprile 2007 l’avv. **************** del foro di Genova, nell’interesse del condannato, chiedeva venisse dichiarato che la sentenza venisse revocata perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Deve rilevarsi che in effetti il condannato, cittadino della Romania, non può più considerarsi cittadino extra-comunitario; ciò a seguito dell’ingresso del suo Paese nella Comunità europea che, com’è noto, è avvenuto a decorrere dal 1° gennaio 2007.
Ad avviso del tribunale, nel caso di specie, con la modifica della norma che individua i Paesi facenti parte dell’Unione europea, si è verificata una fattispecie riconducibile al comma 2 dell’art. 2 c.p..
In particolare, deve ritenersi che il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo non può essere circoscritto ai casi di modificazioni dirette della norma penale, verificandosi anche nel caso in cui la modificazione di tale norma sia mediata, riguardando, cioè, un’altra norma o un altro elemento che integra la fattispecie incriminatrice.
In dottrina e giurisprudenza, con riferimento alla questione relativa alla successione di norme extrapenali integratrici del precetto, si è evidenziato come il fenomeno della successione nel tempo della legge penale riguarda anche quelle che definiscono la natura sostanziale e circostanziale del reato e, in particolare, sia le norme extrapenali richiamate espressamente ad integrazione della fattispecie incriminatrice, sia quelle che costituiscono il presupposto indispensabile per l’individuazione del contenuto sostanziale del precetto.
Pur partendo da tale pacifica considerazione, la giurisprudenza di legittimità si è espressa, sul punto, in maniera contrastante.
In applicazione di tale principio, infatti, si è ritenuto (sez. V, 25 febbraio 1997, n. 4114) che “esula da tale normativa la successione di atti o fatti ammnistrativi che, senza modificare la norma incriminatrice o comunque su di essa influire, agiscano sugli elementi di fatto – modificandoli – sì da non renderli più sussumibili sotto l’astratta specie normativa. (Fattispecie in tema di rigetto di eccepita inapplicabilità dell’art. 468 c.p. alla contraffazione dei sigilli posti sulla calotta del contatore elettrico per non essere più l’Enel a seguito della l. n. 359 del 1992, ente pubblico economico)”. E, più recentemente (sez. III, 19 marzo 1999, n. 5457) la Suprema Corte ha ribadito il principio sopra esposto, affermando che “nell’ambito di operatività dell’istituto in esame non rientrano le vicende successorie di norme extrapenali che non integrano la fattispecie incriminatrice né quelle di atti o fatti amministrativi che, pur influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, che resta, pertanto, immutata e quindi in vigore. Ne consegue che la successione di norme extrapenali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dall’emanazione del successivo provvedimento e che, in tale ipotesi non viene meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso (fattispecie relativa ad esercizio di attività venatoria vietata da una legge regionale al momento della commissione del fatto, e successivamente consentita in virtù di abrogazione della medesima legge)”.
Di contro, sempre in tema di falsità di sigilli, la Suprema Corte (sez. V, 18 marzo 1998, n. 6690) ha affermato che la trasformazione dell’Enel da ente pubblico in spa, ad opera dell’art. 15 D.L. 11 luglio 1992, n. 333, convertito nella legge 8 agosto 1992, n. 359, non rende più configurabile la fattispecie di contraffazione del sigillo di un ente pubblico, prevista dall’art. 468 c.p., commessa prima della detta trasformazione”, così implicitamente ritenendo che la modifica di norma extrapenale, pur non incidendo affatto sulla disposizione sanzionatoria penale, che è restata immutata, ha prodotto un fenomeno successorio “mediato”, disciplinato dall’art. 2 c.p..
Nello stesso senso, ancora, si è espressa la Suprema Corte in materia di liberalizzazione del prezzo di vendita del pane (sez. III, 29 dicembre 1998, n. 4176), precisando che “qualsiasi modifica delle fonti integratrici comporta un mutamento della norma incriminatrice, mutamento che è disciplinato dai principi stabiliti dall’art. 2 c.p. (fattispecie in tema di liberalizzazione del prezzo di vendita del pane operato con la delibera Cipe del 3 agosto 1993, che ha così modificato il contenuto precettivo dell’art. 14 del ************** 15 settembre 1947, n. 896, che punisce gli esercenti che pongono in vendita merci a prezzi superiori a quelli stabiliti)”.
Il Tribunale, operando in un ambito giurisprudenziale caratterizzato da pronunce che risolvono in maniera contrastante il problema della successione nel tempo della legge extrapenale, ritiene di dover prendere le mosse dal principio concordemente posto a base di tutte le decisione della Suprema Corte, unanimemente condiviso in dottrina e sopra già esposto e cioè dal principio secondo cui la retroattività della legge penale più favorevole, prevista dall’art. 2 comma 2 c.p., riguarda anche le norme extrapenali a condizione che queste contribuiscano a integrare la natura sostanziale e circostanziale del reato, rappresentando un presupposto del precetto o contribuendo ad individuarne il contenuto sostanziale.
Posto tale principio, appare eccessivamente riduttiva la tesi secondo cui si verifica successione solo nel caso in cui l’abrogazione o la modifica della norma extrapenale incida direttamente sul precetto; in tal caso, infatti, il fenomeno della successione “mediata” sarebbe circoscritto alle norme penali in bianco, oppure alle norme che comminino una pena per la violazione di un precetto previsto da un’altra disposizione legislativa successivamente abrogata o modificata.
Una ricostruzione del fenomeno che tenga effettivamente conto del principio di retroattività della legge penale più favorevole, in realtà, non può prescindere dal rilievo secondo cui per “norma incriminatrice” deve intendersi la norma che definisce la struttura essenziale e circostanziale del reato nel suo complesso, comprese, pertanto, le fonti extrapenali che, pur non ricomprese nel precetto penale, ne integrano, tuttavia, il contenuto.
Proprio in tal senso, si è recentemente espressa la Suprema Corte (sez. III, 1° febbraio 2005, n. 9482).
Pur dovendosi prendere atto dell’esistenza in giurisprudenza del più restrittivo orientamento, deve segnalarsi che la Suprema Corte, nel ribadire che “ai fini dell’applicabilità dell’art. 2 c.p., si deve tenere conto anche di quelle fonti normative sub primarie che, pur non ricomprese nel precetto penale, ne integrano tuttavia il contenuto”, ha ravvisato un fenomeno successorio in un caso relativo al reato di esercizio di attività venatoria nei parchi ed ha ritenuto che “la riperimetrazione della riserva naturale ad opera di un procedimento amministrativo della Regione Sicilia avesse eliminato il disvalore penale del fatto commesso, in quanto era venuta successivamente a mancare la qualifica di parco dell’area di svolgimento dell’attività venatoria, elemento costitutivo della condotta punibile”.
Esaminando il caso di specie secondo tale ultima considerazione, deve rilevarsi che la norma che si assume violata punisce l’inottemperanza all’ordine, impartito dal questore allo straniero, di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni. Il suddetto ordine, in realtà, rappresenta l’esecuzione del provvedimento di espulsione precedentemente emesso dal Prefetto ai sensi dell’art. 13 D. L.vo n. 286 del 1998. Tale norma prevede, tra l’altro, alle lett. a) e b) del comma 2, che il prefetto ordini l’espulsione dello straniero entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e dello straniero che si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver richiesto il permesso di soggiorno. Tali disposizioni, ovviamente, si applicano nei confronti degli stranieri extracomunitari i quali, a differenza dei cittadini di Stati appartenenti all’Unione Europea, sono soggetti, ai fini dell’ingresso in Italia, alle limitazioni previste dal citato decreto legislativo.
Come sopra rilevato, i cittadini della Romania non sono più extracomunitari. E’, pertanto, intervenuta una modifica della norma comunitaria che individua i Paesi appartenenti all’Unione Europea.
Tale modifica, inoltre, incide direttamente su tutta la normativa amministrativa che disciplina l’ingresso degli stranieri in Italia, atteso che dal 1° gennaio 2007 i cittadini della Romania hanno facoltà di ingresso in Italia senza essere tenuti all’osservanza delle disposizioni contenute nel D. L.vo n. 286 del 1998.
Ad avviso del tribunale, tale modifica incide, altresì, sulla complessa fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 14 comma 5 ter D. l.vo 286 del 1998.
La circostanza di essere, o meno, cittadino extracomunitario, infatti, non rappresenta una mera norma che non implica una modifica della disposizione sanzionatoria, od un mero fatto che non incide sul precetto penale. Quest’ultimo, infatti, nell’imporre l’osservanza dell’ordine di allontanarsi dal territorio nazionale emesso dal questore in esecuzione di un decreto del prefetto, non può essere insensibile alle modifiche delle norme che disciplinano i presupposti e le condizioni per l’emissione del decreto prefettizio.
Ciò in quanto, nel caso di specie, la fattispecie incriminatrice, complessivamente considerata, risulta essere composta da una serie di elementi non solo da quelli direttamente descritti nel precetto (mancato allontanamento dal territorio nazionale, ordine di esecuzione del questore e decreto del prefetto), ma anche dagli altri elementi che rappresentano presupposto e condizione per l’emissione del decreto di espulsione.
Può, pertanto, definitivamente ritenersi che il venir meno dello status di cittadino extracomunitario, contribuendo ad integrare il contenuto del precetto penale, finisce per incidere, eliminandolo, sul disvalore penale del fatto complessivamente considerato.
Alla luce delle considerazioni che precedono, l’imputato ove venisse giudicato in data odierna, verrebbe assolto dal giudice di cognizione perché il fatto – complessivamente considerato – non è più previsto dalla legge come reato.
Non vale in senso contrario richiamare la giurisprudenza in tema di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Com’è noto, la Cassazione ha anche recentemente (sez. I, 11 gennaio 2007 n. 1815, ********) affermato che il reato di cui all’art. 12 D. l.vo 286/1998 non viene meno per il fatto che si sia favorita l’immigrazione clandestina di soggetti divenuti successivamente al fatto cittadini comunitari. Si tratta infatti di ipotesi ben diversa, in quanto solo nell’ipotesi di cui all’art. 14 comma 5 ter D. L.vo 286/98 (e non anche in quella di cui all’art. 12 D. l.vo 286798) il cittadino extracomunitario è autore del reato, di talchè la modifica dello status giuridico del soggetto autore del reato (che non sia più extracomunitario) non può ritenersi circostanza irrilevante ai fini della permanente sussistenza del reato.
Ci si deve ora chiedere se il giudice dell’esecuzione possa intervenire su una situazione quale è quella finora descritta. La giurisprudenza ha dato, in casi simili, risposta affermativa, ritenendo che il giudice dell’esecuzione richiesto di revoca della sentenza per sopravvenuta abolitio criminis a norma dell’art. 673 c.p.p., pur non potendo ricostruire la vicenda per cui vi è stata condanna in termini diversi da quelli definiti con la sentenza irrevocabile, né valutare i fatti in modo difforme da quanto ritenuto dal giudice della cognizione, debba accertare se il reato per il quale è stata pronunciata condanna sia considerato ancora tale dalla legge e, nell’effettuare tale accertamento, abbia il potere di far emergere dal quadro probatorio già acquisito elementi che, irrilevanti al momento della sentenza, siano divenuti determinanti, alla luce del diritto sopravvenuto, per la decisione sull’imputazione contestata (così ad es. Cass., sez. I, sent. n. 23243 del 24 maggio 2002, ************, relativa a revoca di sentenza di patteggiamento intervenuta per detenzione e porto illegali di una carabina ad aria compressa, non considerata più arma a seguito di normativa sopravvenuta al giudicato).
Nel caso in esame dunque il giudice dell’esecuzione ha il potere di disporre la revoca della sentenza passata in giudicato, perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato. (Omissis).

Avv. Garzone Francesco Paolo

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento