Jus aedificandi e tutela risarcitoria[1]

Redazione 01/10/01
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Di Vincenzo Salamone
Sommario: 1 – La qualificazione delle situazioni giuridiche connesse allo jus aedificandi; 2 – Interessi oppositivi e pretensivi; 3 – Il giudizio di ottemperanza e lo jus aedificandi; 4 – Il risarcimento in forma specifica; 5 – Il risarcimento per equivalente: presupposti; 6 – La quantificazione.
1 – La qualificazione delle situazioni giuridiche connesse allo jus aedificandi
Per decenni un ostacolo insormontabile alla risarcibilità della lesione di interessi legittimi è stato determinato da una ragione di ordine sostanziale, e cioè dalla tradizionale lettura dell’art. 2043 c.c., che identifica il “danno ingiusto” con la lesione di un diritto soggettivo.
In gran parte le pronunce in tal senso riguardavano l’esercizio di funzioni pubbliche connesse al controllo della attività edilizia.
Dal descritto stato della giurisprudenza derivava una notevole limitazione della responsabilità della P.A. nel caso di esercizio illegittimo della funzione pubblica che determinasse diminuzioni o pregiudizi alla sfera patrimoniale del privato.
Le S.U. della Corte di Cassazione hanno affrontato con la sentenza n. 500 del 1999 alla radice il problema, riconsiderando la tradizionale interpretazione dell’art. 2043 c.c., che identifica il “danno ingiusto” con la lesione di un diritto soggettivo, proprio con riferimento ad una illegittima compressione dello jus aedificandi (per il mancato inserimento tra le aree edificabili di un terreno prima oggetto di una lottizzazione convenzionata)[2].
Interpretazione che, pur costantemente riaffermata in termini di principio, è stata poi frequentemente disattesa da un pressoché univoco indirizzo giurisprudenziale, che ha determinato sostanzialmente un ampliamento dell’area della risarcibilità dei danni ex art. 2043 c.c., ponendo così le premesse per il definitivo abbandono dell’interpretazione tradizionale.
Proprio con riferimento al diritto urbanistico l’interesse legittimo viene inteso come la posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita (ottimale destinazione da attribuire alle aree di proprietà), oggetto di un provvedimento amministrativo, e consistente nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere di pianificazione urbanistica e di vigilanza sull’uso del territorio, in modo da rendere possibile la realizzazione dell’interesse al bene.
In altri termini, l’interesse legittimo emerge nel momento in cui l’interesse del privato ad ottenere o a conservare un bene della vita viene a confronto con il potere amministrativo, e cioè con il potere della P.A. di soddisfare l’interesse (con provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dell’istante), o di sacrificarlo (con provvedimenti ablatori).
In materia urbanistica ed edilizia lo jus aedificandi, come situazione giuridica vantata nei confronti di poteri autoritativi, dalla giurisprudenza è stato qualificato come interesse legittimo, sia con riferimento al momento delle scelte della pianificazione urbanistica, sia con riferimento alla procedura di rilascio delle concessioni ed autorizzazioni edilizie.
Senza la pretesa di esaurire la casistica delle ipotesi prospettabili è utile esaminarne alcune tra le più frequenti.
Il piano regolatore generale è uno strumento urbanistico, espressione di un potere in parte normativo ed in parte programmatorio, caratterizzato dall’esercizio di un ampio potere discrezionale.
Il P.R.G., con l’obiettivo di programmare un’organica gestione del territorio, può introdurre vincoli preordinati ad espropriazione o comportanti inedificabilità del suolo, ovvero limiti di vario grado e natura allo jus aedificandi.
Ne consegue che le posizioni di diritto soggettivo del privato proprietario o fruitore di aree, a fronte dell’imposizione dei suddetti vincoli o delle suddette destinazioni, restano configurate ad interesse legittimo.
Un costante indirizzo giurisprudenziale ha ritenuto che l’interesse del privato proprietario, a che le aree prossime a quella di sua proprietà ricevano una determinata sistemazione urbanistica, è sempre configurabile come interesse legittimo tutelabile mediante il ricorso contro il piano regolatore (generale o particolareggiato), nonchè eventualmente, contro le concessioni edilizie[3].
La posizione soggettiva del richiedente la concessione edilizia ha consistenza di interesse legittimo e non già di diritto soggettivo anche se i poteri sindacali ad essa corrispondenti sfociano, comunque, in un atto dovuto, in quanto costituiscono l’esercizio di un’attività vincolata al riscontro di presupposti predeterminati da fonti primarie o secondarie, senza che residui in proposito nè un potere normativo di attuazione dei principi informatori dello strumento urbanistico, nè il potere di valutare l’opportunità del progetto edilizio in riferimento all’interesse pubblico[4].
Anche le convenzioni di lottizzazione, ancorchè vincolanti pure nei confronti del comune, non privano quest’ultimo del potere di rifiutare il rilascio della concessione edilizia, nonostante l’impegno assunto con detta convenzione, ove tale rifiuto derivi dall’esercizio del potere autoritativo di revocare o modificare il piano o lo strumento urbanistico primario, in relazione a nuove valutazioni od esigenze sopravvenute, ovvero di effettuare scelte discrezionali in relazione ad interessi pubblici (di igiene, estetica, funzionalità, ecc.) non coinvolti dai patti della convenzione stessa e dai criteri edificatori con essi stabiliti.
Pertanto, a fronte di tale rifiuto, la posizione del privato ha natura di mero interesse legittimo, mentre assume consistenza di diritto soggettivo soltanto quando il giudice amministrativo annulli il diniego del comune in considerazione della sua contrarietà con i criteri stabiliti dalla convenzione, sicchè il diniego stesso venga a configurare non semplicemente un atto illegittimo, ma un comportamento illecito contrario agli obblighi contrattualmente assunti[5].
La stessa posizione del titolare di concessione edilizia (ancorchè collegata a convenzione di lottizzazione) che chiede l’autorizzazione alla abitabilità per le nuove costruzioni realizzate in base a tale concessione, ha sempre natura e consistenza di interesse legittimo, non di diritto soggettivo, perchè il rilascio di detta licenza configura espressione di poteri autoritativi e discrezionali degli organi del Comune, in sede di controllo della rispondenza degli insediamenti abitativi ad esigenze generali di sicurezza ed igiene[6].
Con riguardo alla lesione subita in conseguenza del rilascio della concessione edilizia l’obbligo di rispettare le misure di salvaguardia imposte dal piano regolatore costituisce per i comuni una norma di azione che, pur vincolando l’attività amministrativa dei medesimi, è tuttavia inidonea a far sorgere nei terzi il diritto soggettivo a pretendere la loro applicazione.
Pertanto dal rilascio di una concessione edilizia in favore dei controinteressati, in violazione delle predette misure, deriva un interesse legittimo ad impugnare la concessione[7].
Una netta distinzione tra situazione di diritto soggettivo e di interesse legittimo si configura nel potere di determinazione degli oneri concessori.
Ciò in quanto già l’art. 16 l. 28 gennaio 1977 n. 10 prevedeva un’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di contributi di concessione edilizia, sicchè qualora il concessionario contesti l’appartenenza stessa del potere impositivo in capo all’amministrazione, sostenendo di aver diritto ad una esenzione, la situazione dedotta è di diritto soggettivo ed è, quindi, azionabile nel termine di prescrizione.
Qualora, invece, il concessionario contesti il corretto esercizio del potere stesso la situazione dedotta è di interesse legittimo ed è azionabile nel termine di decadenza[8].
Può, pertanto, concludersi ribadendo che lo jus aedificandi, quale facoltà inerente il diritto di proprietà e preordinata ad un uso edificatorio delle aree, nei procedimenti correlati alla pianificazione urbanistica ed al rilascio dei provvedimenti concessori o autorizzativi si atteggia pressocchè costantemente a situazione giuridica di interesse legittimo[9].
2 – Interessi oppositivi e pretensivi
Con in riferimento alla risarcibilità degli interessi legittimi la soluzione negativa ha visto progressivamente ristretto il suo ambito di applicazione, grazie ad operazioni di trasfigurazione di alcune figure di interesse legittimo in diritti soggettivi, con conseguente apertura dell’accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c., a questi ultimi tradizionalmente riservata.
Ciò è stato possibile focalizzando l’attenzione sull’interesse materiale sotteso (o correlato) all’interesse legittimo.
L’interesse legittimo non rileva, infatti, in tale ottica come situazione meramente processuale, quale titolo di legittimazione per la proposizione del ricorso al giudice amministrativo, ma ha anche natura sostanziale, nel senso che si correla ad un interesse materiale del titolare ad un bene della vita, la cui lesione (in termini di sacrificio o di insoddisfazione) può concretizzare danno.
Anche nei riguardi della situazione di interesse legittimo l’interesse effettivo, che l’ordinamento intende proteggere, è pur sempre l’interesse ad un bene della vita: ciò che caratterizza l’interesse legittimo e lo distingue dal diritto soggettivo è soltanto il modo o la misura con cui l’interesse sostanziale ottiene protezione.
Si delinea così, in riferimento alle diverse forme della protezione, la distinzione, ormai acquisita e di uso corrente, tra “interessi oppositivi” ed “interessi pretensivi”.
Detta distinzione trova ragione, secondo che la protezione sia conferita al fine di evitare un provvedimento sfavorevole, ovvero per ottenere un provvedimento favorevole.
I primi soddisfano istanze di conservazione della sfera giuridica personale e patrimoniale del soggetto; i secondi istanze di sviluppo della sfera giuridica personale e patrimoniale del soggetto.
Ciò si verifica, infatti, quando si ammette la risarcibilità del c.d. diritto affievolito, e cioè dell’originaria situazione di diritto soggettivo incisa da un provvedimento illegittimo che sia stato poi annullato dal giudice amministrativo con effetto ripristinatorio retroattivo.
La vicenda può, invero, essere anche intesa in termini di tutela di un “interesse legittimo oppositivo”, considerando che il provvedimento illegittimo estingue il diritto soggettivo, ed il privato riceve tutela grazie alla facoltà di reazione propria dell’interesse legittimo davanti al giudice amministrativo, sia per l’eliminazione dell’atto, che per la condanna al risarcimento e per la riparazione delle ulteriori conseguenze patrimoniali negative (ciò, a seguito della unificazione della tutela giurisdizionale ad opera dell’art.7, comma 3, della legge n.1034 del 1971, come novellato dall’art.35 predetto, nel testo a sua volta risultante dall’art. 7 della legge n.205 del 2000).
L’esigenza di ravvisare un diritto soggettivo che rinasce era palesemente dettata dalla necessità di muoversi nell’area tradizionale dell’art. 2043 c.c., ma assume una valenza in termini di misure di tutela.
Ed analoga considerazione può valere in relazione all’ipotesi (che costituisce sviluppo di quella precedente) della c.d. riespansione della quale beneficia anche il diritto soggettivo (non originario ma) nascente da un provvedimento amministrativo, qualora sia stato annullato il successivo provvedimento caducatorio dell’atto, fonte della posizione di vantaggio.
Ipotesi, quest’ultima che si verifica nel caso di annullamento (in sede di controllo o di autotutela, ovvero di mancata approvazione) di uno strumento urbanistico o di una concessione edilizia); tutela che viene valorizzata da procedimenti che attribuiscono un valore positivo di silenzio assenso all’inerzia della P.A.[10].
Anche nell’ambito di tale vicenda può, invero, rilevarsi che il privato, una volta acquisita (anche silenziosamente) in forza del provvedimento amministrativo (di concessione, autorizzazione edilizia, lottizzazione convenzionata) la posizione di vantaggio, risulta titolare di un “interesse legittimo oppositivo” alla illegittima rimozione della predetta situazione, del quale si avvale utilmente sia per eliminare l’atto, sia per ottenere la reintegrazione dell’eventuale pregiudizio patrimoniale sofferto (rivolgendosi adesso allo stesso giudice amministrativo titolare di giurisdizione piena).
Gli interessi oppositivi trovano una piena tutela nel processo impugnatorio che consente di eliminare l’atto lesivo e di reintegrare la situazione precedente anche mediante il giudizio di ottemperanza.
Nella disciplina urbanistica di cui alla l. 17 agosto 1942 n. 1150, modificata dalla l. 6 agosto 1967 n. 765, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, un diritto soggettivo alla edificazione, tutelabile con azione risarcitoria contro il comune davanti al giudice ordinario, sorgeva solo per effetto del rilascio della concessione, ovvero a seguito dell’annullamento da parte del giudice amministrativo del provvedimento di revoca della concessione in precedenza rilasciata, mentre, in caso contrario, pur in presenza di annullamento da parte del predetto giudice amministrativo del rifiuto della concessione medesima, la posizione del privato aveva consistenza di mero interesse legittimo pretensivo, dalla cui lesione non derivava un danno ingiusto risarcibile[11].
Per gli interessi pretensivi, la cui lesione si configura nel caso di illegittimo diniego della richiesta concessione o autorizzazione edilizia o di ingiustificato ritardo nella sua adozione, dovrà invece vagliarsi la consistenza della protezione che l’ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente.
Valutazione che implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno dell’istanza, onde stabilire se il pretendente sia titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettiva di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, è destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risulta, quindi, giuridicamente protetta.
Assume in tale dimensione un valore essenziale la distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali dell’azione amministrativa, per cui in relazione ai primi l’azione futura dell’Amministrazione non è compressa, mentre in relazione ai secondi la stessa azione trova un limite nel contenuto precettivo della decisione del giudice.
Si è ritenuto in ogni caso che in sede di riemanazione conseguente all’annullamento giurisdizionale del diniego di concessione edilizia o al silenzio rifiuto sulla relativa istanza, il Comune è tenuto ad applicare la normativa urbanistica vigente al momento in cui la sentenza è notificata o è comunicata in via amministrativa al sindaco, quale legale rappresentante dell’ente e titolare dell’iniziativa in materia di pianificazione urbanistica.
Divengono, infatti, inopponibili al privato le variazioni dello strumento urbanistico sopravvenute successivamente a detto momento, ferma restando, negli altri casi, la titolarità in capo a costui d’un interesse legittimo pretensivo, da far valere con apposita istanza, a che la p.a. competente riveda “in parte qua” il piano regolatore vigente, allo scopo di verificare se a quest’ultimo possa essere apportata una variante che recuperi, in tutto o in parte, la previsione del piano su cui si fondava originariamente la domanda di concessione[12].
L’esercizio di detti strumenti di tutela assume una valenza di notevole rilievo con riguardo alla possibilità della tutela risarcitoria, che presuppone la impossibilità di porre in essere utili strumenti di tutela impugnatoria ovvero ottemperatoria.
3 – Il giudizio di ottemperanza e lo jus aedificandi
In tale contesto un limite alla incidenza della tutela risarcitoria dello jus aedificandi è data dalla incisività dello strumento dell’ottemperanza (adesso rafforzato dalla possibilità di esecuzione delle sentenza del giudice amministrativo di 1° grado non sospese ai sensi dell’art. 10 della legge n. 205 del 2000, che novella l’art. 33 della legge n. 1034 del 1971).
L’interesse all’ottemperanza del giudicato, formatosi in relazione ad una sentenza di annullamento di diniego illegittimo di concessione edilizia, ha consistenza di vero e proprio diritto soggettivo allorchè il quadro normativo sia immutato, in quanto risulta vincolato il relativo provvedimento attuativo; invece, in presenza di norme sopravvenute anteriormente alla notifica della sentenza di 1° grado passata in giudicato, all’amministrazione si impone la rinnovata valutazione di superiori interessi pubblici, di tal che alla situazione soggettiva protetta si riconosce solo carattere di interesse legittimo pretensivo, in ordine ad una modifica dello strumento urbanistico[13].
In sede di giudizio d’esecuzione del giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia, il commissario “ad acta” (come organo del Giudice) sostituisce, sotto un profilo sostanziale di regolamentazione urbanistica, tutte le autorità tenute all’ottemperanza, le quali possono obiettare alle scelte dell’organo straordinario esclusivamente nelle forme dell’incidente di esecuzione avanti al giudice amministrativo.
Va ricordato, comunque, che la nomina del commissario “ad acta” da parte del giudice dell’ottemperanza, per provvedere al riesame del diniego illegittimo opposto dal comune su una domanda di concessione edilizia, non fa venir meno la competenza a provvedere in capo all’organo ordinario dell’ente cui incombe l’esecuzione del giudicato[14].
L’effettività della tutela ottemperatoria con riferimento allo jus aedificandi ha natura principale e prioritaria, tenuto conto che, ai fini dell’esecuzione della decisione giurisdizionale, passata in giudicato, di annullamento di un diniego di concessione edilizia, è, come già rilevato, irrilevante la normativa urbanistica successiva alla data di notificazione della decisione stessa[15].
Giova ricordare che il ricorso per ottemperanza ha funzione di chiusura del sistema di giustizia amministrativa ed è preordinato ad offrire un’adeguata, efficace e compiuta tutela al ricorrente[16].
La versatilità dell’ottemperanza (giudizio di cognizione ed esecuzione) consente di attuare coattivamente un potere sostitutivo dell’attività della P.A., caratterizzato, sia dall’esercizio di una funzione provvedimentale, che dallo svolgimento di comportamenti materiali.
La giurisprudenza, ad esempio, ritiene ammissibile il ricorso per l’esecuzione proposto perchè sia rimossa l’inerzia dell’amministrazione nel portare ad effetto un ordine di demolizione emanato a seguito di decisione di annullamento di concessione edilizia, atteso che l’emanazione della mera diffida a demolire non costituisce esecuzione del giudicato derivante da sentenza di annullamento di concessione edilizia[17].
L’ampiezza dei poteri esercitabili in sede di ottemperanza riduce sensibilmente l’ambito della tutela risarcitoria, ristretto alle ipotesi residuali nelle quali interessi pubblici di valenza superiore impediscono una tutela diretta dello jus aedificandi.
4 – Il risarcimento in forma specifica
Di norma, allorche si agisce a tutela di un interesse oppositivo, la reintegrazione coincide con la riduzione in pristino stato della situazione giuridica interessata dagli atti di illegittimi (atti che dispongono la acquisizione sanzionatoria di un bene), con la condanna dell’amministrazione alla restituzione del terreno e con l’eliminazione di eventuali modifiche eseguite su di esso.
Principi giurisprudenziali pacifici riconoscono alla sentenza di annullamento dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica carattere autoesecutivo, manifestando la tutela impugnatoria l’idoneità alla soddisfazione dell’interesse del privato ricorrente.
La riduzione in pristino stato e l’eliminazione di tutte le modificazioni materiali subite medio-tempore appartengono alle competenze del giudice dell’ottemperanza e rientrano nel novero di quelle attività ulteriori necessarie per il completamento dal sistema di tutela assicurato dall’annullamento giurisdizionale.
E’ coerente con queste premesse rimarcare la funzione sussidiaria del risarcimento rispetto alla tutela giurisdizionale accordata con l’annullamento dell’atto impugnato.
L’azione di risarcimento, in breve, svolge un ruolo di completamento della tutela risultante dal giudicato amministrativo di annullamento, colmando le lacune che possono determinarsi allorquando sopravviene un ostacolo insuperabile alla soddisfazione dell’interesse del ricorrente, per via dell’irreparabilità in forma specifica dei danni provocati dal provvedimento amministrativo positivo.
Tale sussidiarietà conferma la razionalità del disegno che devolve la giurisdizione risarcitoria al g.a. e cioè al giudice competente ad annullare l’atto, che provvede, grazie alla reintegrazione in forma specifica ed al risarcimento per equivalente, ad eliminare ogni conseguenza pregiudizievole per il privato proprietario ed a completare la protezione giurisdizionale degli interessi, in armonia col principio di effettività della tutela di diritti ed interessi nei confronti della P.A.
Con riferimento all’istituto risarcitorio, lo scopo della reintegrazione in forma specifica[18] non è quello di sostituire la tutela demolitoria (o conformativa) che si connette all’annullamento giurisdizionale, ma quello di integrare la tutela, colmando eventuali lacune.
La reintegrazione, dunque, assolve un ruolo identico a quello che, in caso di interesse oppositivo, era svolto dal giudizio di ottemperanza.
Il risarcimento in forma specifica nell’ordinamento civile, disciplinato dall’art.2058 c.c., è una forma di ristoro del danno alternativo al risarcimento per equivalente monetario e viene, di regola, distinto dagli strumenti di reintegra in senso proprio del diritto, tra i quali, in primo luogo, l’azione di rivendicazione della proprietà.
Si tratta di una figura, comunque, indubbiamente molto vicina a quella prevista dall’art.35 del d. lgs. n.80 del 1998.
L’art.2058 c.c., al primo comma, stabilisce che il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica “qualora sia in tutto o in parte possibile” ed, al secondo comma, che il giudice può d’ufficio imporre il risarcimento per equivalente “se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore”.
Duplice è, pertanto, il limite all’attuazione di quella che, nel corpo dell’articolo, viene definita reintegrazione in forma specifica, che coincide:
– con la concreta impossibilità di disporla;
– con l’eccessiva onerosità per il debitore.
L’art.2933 c.c., inoltre, detta una disciplina dell’esecuzione forzata degli obblighi di non fare e pone un limite al processo esecutivo, prevedendo che “non può essere ordinata la distruzione della cosa e l’avente diritto può conseguire solo il risarcimento danni se la distruzione della cosa è di pregiudizio all’economia nazionale”.
L’interesse alla conservazione di un bene che sia utile all’economia nazionale è di ostacolo al soddisfacimento esecutivo della pretesa e provoca la sostituzione del risarcimento per equivalente.
Si tratta di una disposizione che attribuisce prevalenza all’interesse pubblico rispetto all’interesse privato e che si riflette sui metodi di protezione diretta dei diritti, che il giudice amministrativo ha già utilizzato al fine di delimitare l’ambito di espansione del giudizio di ottemperanza per la soddisfazione dell’interesse oppositivo, speceie in materia di annullamento di atti espropriativi[19].
La reintegrazione in forma specifica non è, pertanto, uno strumento che il giudice può utilizzare senza limiti.
Se un limite è rinvenibile nei sistemi di tutela risarcitoria in ambito civile, a fortiori devono ammettersi forme corrispondenti nel processo amministrativo.
La reintegrazione in forma specifica deve, pertanto, essere intesa come istituto speciale del diritto processuale amministrativo e i suoi limiti di applicazione coincidano con quelli di speciale rilevanza dell’interesse pubblico.
Ciò, quantomeno, qualora l’accoglimento della domanda di reintegrazione comporterebbe, ad esempio, la distruzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità o di interesse per la collettività di rilevante importanza e di ingente valore economico.
L’eccessiva onerosità per il debitore considerata dall’art.2058 c.c., nell’applicazione dell’art.35 muta veste e deve valutarsi come eccessiva onerosità per il pubblico interesse e per la collettività, senza trascurare che è proprio la collettività che sopporta gli oneri dell’azione amministrativa.
La reintegrazione in forma specifica deve essere considerata, pertanto, uno strumento subordinato a limiti e condizioni attuative in quanto, ai sensi dell’art.35 il giudice “dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”.
La reintegrazione, dunque, è solo una delle possibili forme di risarcimento.
Questa interpretazione, nel silenzio del legislatore, è l’unica compatibile col valore del buon andamento dell’azione amministrativa ex art.97 Cost., anche nella logica del bilanciamento con l’art.42 Cost.; essa rinviene, nella specialità pubblicistica dell’istituto regolato dall’art. 35, un limite necessario alle aspirazioni del proprietario, che viene così inevitabilmente spogliato del suo bene[20].
5 – Il risarcimento per equivalente: presupposti.
L’illegittimità del provvedimento è uno degli elementi costitutivi dell’illecito causativo del danno; deve ritenersi, pertanto, precluso all’interessato di far valere la pretesa al risarcimento allorchè non abbia esercitato i mezzi di tutela offerti dall’ordinamento che gli avrebbero consentito di ottenere la reintegrazione in forma specifica.
Ad esempio, in caso di inerzia sull’istanza di approvazione di un piano di lottizzazione, la mancata tempestiva l’impugnazione del silenzio rifiuto, che avrebbe potuto far conseguire la adozione dell’atto conclusivo del procedimento, impedisce l’esercizio della pretesa risarcitoria per equivalente.
Conclusione, questa, che deriva, oltre che dall’applicazione dei principi civilistici (art. 1227 cod.civ.), dal doveroso contemperamento dei principi di civiltà giuridica conseguenti al riconoscimento della risarcibilità della lesione degli interessi legittimi con quelli di doverosa tutela degli interessi, anche patrimoniali, dell’amministrazione[21].
L’impossibilità di provvedere con la ottemperanza al giudicato a tutela dello jus aedificandi e la conseguente previsione della tutela risarcitoria è stata oggetto di tentativi di disciplina positiva che non hanno avuto successo[22].
Ai sensi dell’art. 35 D.Lvo n. 80 del 31 marzo 1998, oltre a chiedere l’annullamento dell’atto lesivo dello jus aedificandi (ad es. una delibera di rigetto del piano di lottizzazione) è possibile chiedere la declaratoria dell’obbligo del Comune resistente a risarcire i danni subiti dal ricorrente, in quanto, attesa la nuova destinazione del suolo di sua proprietà, non può utilizzarlo con l’esercizio dello jus aedificandi.
Sovente strettamente correlata alla domanda principale di annullamento degli atti illegittimi è quella di risarcimento del danno per equivalente, allorché, in corso di giudizio, appaia inattuabile una tutela reintegrativa del bene della vita in forma specifica.
In particolare è possibile chiedere la fissazione dei criteri in base ai quali, l’amministrazione pubblica deve proporre a favore dell’avente titolo il pagamento di una somma entro un congruo termine, ai sensi dell’art. 35, n. 2 D.L.vo n. 80 del 1998, e ciò con una domanda proponibile nel corso del giudizio impugnatorio o di ottemperanza se pendente in primo grado (e ciò per l’ovvia necessità del rispetto del doppio grado di giurisdizione che impedisce di formulare domande nuove in appello).
Ritualmente la domanda risarcitoria può essere proposta, ad esempio, con i motivi aggiunti, muniti di procura speciale e notificati direttamente all’Amministrazione resistente oltre che al difensore costituito.
Secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, infatti, il mandato ad litem attribuisce al procuratore a norma dell’art. 84 c.p.c. la facoltà di proporre tutte le domande che siano comunque ricollegabili con l’originario oggetto, restando esclusi dai poteri dei procuratori soltanto quegli atti che comportano disposizione del diritto in contesa e le domande con le quali si introduce una nuova e distinta controversia eccedente l’ambito della lite originaria[23].
Presupposto legittimante la pretesa risarcitoria è la ricorrenza di un evento dannoso costituito, ad esempio, dalla differenza di valore (a danno del ricorrente) tra il suolo destinato a z.t.o. con potenzialità edificatoria, (quale sarebbe derivato, ad esempio, dalla legittima approvazione di un piano di lottizzazione) e quello destinato dal sopravvenuto adottato P.R.G., tenendo conto dell’indice di edificabilità e dei vincoli rispettivamente previsti per le zz.tt.oo., secondo il precedente piano regolatore, e secondo l’adottato piano regolatore.
L’accertato danno è qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento, quale il diritto di proprietà di cui lo jus aedificandi costituisce facoltà inscindibile[24]
Il diritto di proprietà, infatti, nell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica generale ed attuativa si atteggia, come già rilevato, nelle forme dell’interesse legittimo, risultando funzionale alla protezione di un determinato bene della vita ed in considerazione che è la lesione dell’interesse al bene della vita che rileva ai fini in esame.
L’evento dannoso, ai fini della risarcibilità, deve essere riferibile ad una condotta, in parte positiva ed in parte omissiva, della P.A.
Circostanza che si verifica, ad esempio, qualora l’approvazione tempestiva del piano di lottizzazione avesse consentito l’esercizio dello jus aedificandi e la conservazione del valore economico delle aree.
Ciò tanto più assume valenza dal momento che l’approvazione del p. di l. avrebbe fatto sorgere delle aspettative assistite da una speciale tutela ed uno specifico affidamento, che resiste anche a fronte di successivi atti di pianificazione urbanistica, (imponendo ad esempio uno specifico onere di motivazione e di ponderazione degli interessi contrapposti)[25].
Quanto all’elemento psicologico, secondo un recente indirizzo giurisprudenziale del Consiglio di Stato[26] si deve accedere direttamente ad una nozione oggettiva di colpa, che tenga conto:
– dei vizi che inficiano il provvedimento, della gravità della violazione commessa dall’amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all’organo;
– dei precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati nel procedimento[27]. Se una violazione è l’effetto di un errore scusabile dell’autorità, non si potrà configurare il requisito della colpa.
Se, invece, la violazione appare grave e se essa matura in un contesto nel quale all’indirizzo dell’amministrazione sono formulati addebiti ragionevoli, specie sul piano della diligenza e della perizia, il requisito della colpa potrà dirsi sussistente[28].
La soluzione sopra prospettata è controversa, in quanto altra sezione del Consiglio di Stato[29] ritiene che “In base alla regola generale racchiusa nell’articolo 2697 del codice civile (operante, in questa parte, anche nel processo amministrativo), il danneggiato ha l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento (danno, nesso di causalità, colpa).
Ma detto onere può essere ragionevolmente adempiuto anche attraverso prove indirette ed adeguate semplificazioni probatorie consentite dall’ordinamento processuale. In particolare, in questo ambito, assume rilievo lo strumento probatorio della presunzione. La accertata illegittimità dell’atto ritenuto lesivo dell’interesse del ricorrente può rappresentare, nella normalità dei casi, l’indice (grave, preciso e concordante) della colpa dell’amministrazione. Non si tratta di un effetto automatico ed inderogabile, ma di una conseguenza altamente probabile della riscontrata illegittimità dell’atto. Di regola, quindi, in base ad un apprezzamento di frequenza statistica, il danneggiato ben può limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto amministrativo annullato (tanto più quando essa è definitivamente accertata dal giudicato amministrativo, il quale ne esprime dettagliatamente le ragioni), in quanto essa indica la violazione dei parametri che, nella generalità delle ipotesi, specificano la colpa dell’amministrazione. In tali eventualità spetta all’amministrazione l’onere di fornire elementi istruttori (od anche meramente assertori) per superare le acquisizioni probatorie del giudizio”.
In tale contesto la responsabilità della P.A. verrebbe meno soltanto nei casi di errore scusabile.
Merita di essere condivisa la tesi secondo cui in particolari casi la natura della responsabilità derivante dalla adozione di un atto illegittimo è avvicinabile all’inadempimento di una precedente obbligazione; e ciò si verifica quando l’invalidità dell’atto amministrativo deriva dal contrasto con precedenti atti convenzionali stipulati dall’amministrazione e dal soggetto interessato (come nel caso di diniego di concessione censurata per violazione della convenzione di lottizzazione da cui derivava la pretesa edificatoria).
In un’ipotesi del genere è anche possibile ritenere che si è in presenza di una responsabilità contrattuale e non aquiliana.
Ciò in particolare si verifica allorquando i provvedimenti annullati con la sentenza non solo sono illegittimi, ma si pongono anche in contrasto con i precisi impegni obbligatori assunti dal comune e con il correlato dovere di comportarsi secondo buona fede, anche nell’esercizio della successiva attività provvedimentale, destinata a spiegare effetti sul rapporto amministrativo di derivazione consensuale.
Il potere unilaterale dell’amministrazione di rivedere il contenuto della pianificazione urbanistica, a suo tempo definita con la lottizzazione convenzionata, non può escludersi a priori, ma esso deve esercitarsi tutelando adeguatamente l’affidamento del soggetto privato.
In tale ottica assume un valore essenziale l’art. 15 della legge n. 241/1990 ove si afferma esplicitamente che gli accordi sostitutivi di provvedimenti amministrativi sono disciplinati dai principi codicistici in materia di obbligazioni.
In un contesto del genere spetterebbe all’amministrazione dimostrare l’assenza di colpa nel proprio comportamento illegittimo, che viola non solo l’affidamento del privato, ma anche l’impegno concretizzato nel precedente atto convenzionale[30].
E’, invece, dubbia la possibilità di tutelare nel processo amministrativo interessi che abbiano mera valenza procedimentale, in quanto collegati al rispetto di regole che attengono al corretto svolgimento del procedimento e che non incidono sull’interesse legittimo sostanziale. Sono noti, infatti, i limiti che riguardano la risarcibilità degli interessi procedimentali, anche dopo gli artt.35 del d. lgs. n.80 del 1998 e 7, comma 3, della legge n.1034 del 1971 novellato dalla legge n. 205 del 2000[31].
6 – La quantificazione
Ai fini della quantificazione del danno il problema si sposta sul piano probatorio, ovvero sulla necessità di dimostrare, con ascrizione dell’onere in capo al ricorrente secondo un principio squisitamente dispositivo, la sussistenza e la consistenza delle aspettative lese dal provvedimento illegittimo.
Detto danno va quantificato in base ai principi fissati:
– dall’art. 1223 c.c., che individua le due componenti del danno, come perdita subita e come mancato guadagno;
– dall’art. 1225 c.c., che prevede l’estensione anche al danno imprevedibile solo qualora sia integrato un comportamento doloso;
– dall’art. 1227 c.c., che sancisce la diminuzione del risarcimento in relazione all’eventuale concorso colposo del danneggiato nel cagionare il danno, secondo la gravità della colpa e l’entità dei danni derivati, ed addirittura preclude il sorgere stesso del diritto al risarcimento relativamente ai danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.
Tra le regole civilistiche che trovano applicazione nella materia de qua va ricordato il principio della compensatio lucri cum damno, alla stregua del quale, nella determinazione del danno risarcibile, va tenuto conto anche degli effetti vantaggiosi direttamente derivanti dal medesimo fatto consentivo del danno.
Minori difficoltà applicative si pongono allorquando l’atto illegittimo limitativo della aspettativa edificatoria comporti un danno economico immediato; circostanza che si verifica, ad esempio, quando dalla sospensione dei lavori, a seguito di provvedimento emesso nell’esercizio dell’autotutela, derivi un maggiore costo di realizzazione dell’opera (es. pagamento di penali allappaltatore).
Maggiore complessità presenta la quantificazione del danno conseguente dalla illegittima limitazione delle aspettative edilizie.
In applicazione dell’art. 35 D.Lvo n. 80 del 31 marzo 1998, può stabilirsi che l’Amministrazione è tenuta a risarcire i danni subiti dal ricorrente, prevedendo come criterio di quantificazione del danno la corresponsione al soggetto leso di una somma di denaro pari alla differenza di valore tra il suolo, quale destinato nel precedente P.R.G. e quello destinato dal sopravvenuto adottato P.R.G., tenendo conto dell’indice di edificabilità e dei vincoli rispettivamente previsti, secondo il precedente piano regolatore, e nelle zone normate secondo il nuovo piano regolatore.
L’entità del risarcimento come sopra quantificata dovrà essere ridotta in considerazione di due aspetti, che rendono potenzialmente temporanea la riduzione di valore dell’area di proprietà del ricorrente[32]:
– la misura di salvaguardia, che determina la attuale inedificabilità dell’area, perderebbe efficacia in caso di mancata approvazione del P.R.G. da parte della Regione con conseguente potenziale riviviscenza della precedente destinazione urbanistica;
– in caso di approvazione del P.R.G. con la attuale destinazione non edificatoria i vincoli avrebbero un’efficacia quinquennale, ai sensi dell’art. 9 comma 2 del T.U. 8 giugno 2001, n. 327 (e, precedentemente, dell’art. 2 comma 1 l. 19 novembre 1968 n. 1187[33]) e non sarebbero rinnovabili senza indennizzo, con la attribuzione all’area in questione della destinazione prevista per le c. d. “zone bianche”[34].
La flessibilità del sistema risarcitorio, quale delineato dall’art. 35 del D.L.vo 80 del 1998, consente di ipotizzare ed attuare un sistema alternativo di tutela dello jus aedificandi che potrebbe consistere nella scelta (in alternativa al risarcimento per equivalente) di costituire un credito urbanistico sulle aree nella disponibilità del soggetto stesso, ovvero da trasferire tra quelle nella disponibilità dell’Amministrazione, secondo lo schema argomentativo utilizzato dalla Corte cost. nella sentenza 20 maggio 1999 n. 179.
La Corte ha ritenuto, infatti, che l’indennizzo per il protrarsi del vincolo è un ristoro (non necessariamente integrale o equivalente al sacrificio, ma neppure simbolico) per una serie di pregiudizi, che si possono verificare a danno del titolare del bene immobile colpito, e deve essere commisurato o al mancato uso normale del bene, ovvero alla riduzione di utilizzazione, ovvero alla diminuzione di prezzo di mercato (locativo o di scambio) rispetto alla situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il vincolo.
Ha osservato, inoltre, la Corte che il legislatore dovrà precisare le modalità di attuazione del principio dell’indennizzabilità dei vincoli a contenuto espropriativo nei sensi sopra indicati, delimitando le utilità economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei confronti della Pubblica amministrazione, e potrà esercitare scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, e anche, in taluni casi, tra misure alternative riparatorie anche in forma specifica “mediante offerta ed assegnazione di altre aree idonee alle esigenze del soggetto che ha diritto ad un ristoro, ovvero mediante altri sistemi compensativi che non penalizzano i soggetti interessati dalle scelte urbanistiche che incidono su beni determinati”[35].
La Corte cost. con l’ord. n. 165 del 1998 in precedenza, affrontando la in termini di compatibilità costituzionale la tematica del risarcimento dei danni da lesione di interessi legittimi, aveva ritenuto che il “problema di ordine generale richiede prudenti soluzioni normative, non solo nella disciplina sostanziale ma anche nel regolamento delle competenze giurisdizionali e nelle scelte tra misure risarcitorie, indennitarie, reintegrative in forma specifica e ripristinatorie ed infine nella delimitazione delle utilità economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei confronti della pubblica amministrazione”.

* Consigliere del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania
[1] Intervento programmato nel corso del Convegno “Il risarcimento del danno ad opera del Giudice amministrativo”, presso l’Università degli Studi di Catania 26-27 Ottobre 2001.
[2] Per una ricostruzione della problematica del risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi:
– prima della sentenza delle SS.UU. n. 500/99 si vedano Alberto Romano, Sulla risarcibilità degli interessi legittimi: se sono risarcibili, sono diritti soggettivi, in Riv. Trim. di Diritto Amministrativo 1998 pp. 1 e ss, Follieri, Lo stato dell’arte della tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Possibili profili ricostruttivi, in Riv. Trim. di Dir. proc. amm. 1998 pp. 253 e ss., Moscarini, Risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi e nuovo riparto di giurisdizione in Riv. trim. di Dir. proc. amm. 1998 p. 803 e ss.
– dopo la sentenza delle SS.UU. e nell’ottica della evoluzione della giurisdizione del Giudice amministrativo, si vedano gli scritti Caringella –Garofoli, Riparto di giurisdizione e prova del danno dopo la sentenza 500/99 in Giust.it, Giacchetti La risarcibilità degli interessi legittimi è in coltivazione, Cons. Stato 1999 p. II pp. 1595 e ss, Veneziano Il Sistema della Giustizia amministrativa dopo il decreto l.vo n. 80/98 e la sentenza delle SS.UU. della Corte di Cassazione n. 500/99, in Diritto.it
[3] Cassazione civile, sez. un., 10 giugno 1983 n. 3988, Giust. civ. Mass. 1983, fasc. 6; Consiglio Stato sez.IV, 7 febbraio 1990 n. 66, Foro amm. 1990, 321. Cons. Stato 1990, I,144. Riv. amm. R.I. 1990, 439, Cassazione civile, sez. un., 10 maggio 1988 n. 3424, Giust. civ. Mass. 1988, fasc.5
[4] T.A.R. Lombardia sez. Brescia, 29 aprile 1995, n. 404, in Giust. civ. 1996,I,1216 Riv. giur. edilizia 1996,I, 191; Cassazione civile sez. un., 5 marzo 1993, n. 2667, in Vita not. 1994,1155 nota (CONIO); Cassazione civile sez. un., 26 aprile 1994, n. 3963 Giust. civ. Mass. 1994, 560, Foro it. 1994,I,2712
[5] Cassazione civile, sez. un., 6 aprile 1983 n. 2433, Giust. civ. Mass. 1983, fasc. 4 Riv. giur. edilizia 1983, I,383. Giur. it. 1983, I,1,1393.
[6] Cassazione civile, sez. un., 21 gennaio 1988 n. 436, Finanza locale 1989, 63.
[7] Cassazione civile, sez. II, 29 aprile 1983 n. 2953, Giust. civ. Mass. 1983, fasc. 4
[8] Cons.giust.amm. Sicilia 2 marzo 1991 n. 77, Cons. Stato 1991, I,525 (s.m.).
[9] La Corte di Cassazione, dopo aver ravvisato nello ius aedificandi una posizione di diritto soggettivo (sent. n. 1324/61; n. 800/63), ha infatti successivamente qualificato come interesse legittimo (pretensivo) la posizione del privato che aspiri al rilascio della licenza edilizia (possono ricordarsi, ad esempio: sent. n. 1589/90; n. 2382/92; n. 3732/94).
[10] Nella Regione siciliana l’approvazione degli strumenti urbanistici può avvenire con il sistema del silenzio assenso (art. 4 della l. r. n. 71 del 1978) ed il rilascio della concessione edilizia è disciplinato da un procedimento caratterizzato dalla formazione del silenzio assenso, rimuovibile soltanto con l’esercizio dell’autotutela (art. 2 della l. r. n. 17 del 1994.
[11] Cassazione civile, sez. un., 1 marzo 1990 n. 1589, Giust. civ. Mass. 1990, fasc. 3 Riv. giur. edilizia 1990, i,489.
[12] Consiglio Stato sez. V, 8 gennaio 1998, n. 53 Foro amm. 1998, 43.
[13] Il Consiglio di Stato con la decisione della sez. V del 6 agosto 2001 n. 4239 ha ritenuto che “La “flessibilità” del giudizio di ottemperanza e la portata “relativa” del giudicato devono essere intese in un significato circoscritto, direttamente connesso al principio di effettività della tutela giurisdizionale. Anche l’ampiezza dei poteri del giudice amministrativo in sede di ottemperanza non è incondizionata, ma esprime pur sempre l’attuazione della decisione passata in giudicato, nel rispetto dei principi di divisione dei poteri e della certezza della statuizione ormai irrevocabile.
In tale contesto, quindi, la concreta delimitazione dei poteri del giudice dell’ottemperanza, in relazione all’apprezzamento delle vicende sopravvenute, va ragionevolmente condotta tenendo conto di una pluralità di fattori. Tra questi, si segnalano, in particolare:
la consistenza della situazione giuridica soggettiva posta a base della domanda;
la natura oppositiva o pretensiva dell’interesse azionato;
il tipo di vizio accertato dalla sentenza di annullamento;
il carattere vincolato o discrezionale del potere amministrativo in contestazione;
le peculiarità della nuova situazione di fatto sopravvenuta”.
[14] T.A.R. Toscana sez. I, 23 dicembre 1994, n. 538 Foro amm. 1995, 130 , Consiglio Stato sez. IV, 3 maggio 2000, n. 2592 Foro amm. 2000,1644 , Consiglio Stato sez. V, 6 ottobre 1999, n. 1329 Riv. giur. edilizia 2000,I, 156, Cassazione civile sez. I, 25 gennaio 2000, n. 806 Dir. e prat. soc. 2000,f. 6, 73
[15] Consiglio Stato a.plen. 8 gennaio 1986 n. 1, Riv. giur. urbanistica 1987, 53, Consiglio Stato sez.V, 28 ottobre 1988 n. 614, Foro amm. 1988, 2856 .
[16] Il Consiglio di Stato con la decisione sez. IV del 3 maggio 2000 n. 2592 ha ritenuto che l’obbligo dell’Amministrazione di dare esecuzione al giudicato deve essere adempiuto comprendendo in esso tutti i comportamenti che, pur non espressamente prescritti dalla decisione, siano comunque necessari per far conseguire al ricorrente la situazione di vantaggio cui era preordinato il processo amministrativo, seppure nei limiti e con le modalità ritenuti conformi dal giudice dell’ottemperanza; considera, pertanto, illegittimo, in quanto viola l’obbligo di esecuzione del giudicato, il provvedimento col quale la Regione nega l’approvazione di una variante al piano regolatore generale di un Comune adottata dal Commissario ad acta nominato dal giudice dell’ottemperanza. (Nella specie, la Regione, che era stata parte nel giudizio di cognizione e in quello di esecuzione del giudicato, aveva negato l’approvazione della variante al piano regolatore adottata dal Commissario adducendo l’inedificabilità temporanea dell’area in quanto ricompresa in un piano paesistico in realtà non ancora approvato).
[17] Consiglio di Stato sez. V 26 maggio 1997 n. 563 il quale ha ritenuto che l’annullamento di concessione edilizia fa stato sull’illegittimità del progetto e, se l’opera sia stata realizzata, obbliga l’Amministrazione a ripristinare l’ordine giuridico violato; peraltro, in quest’ultima situazione l’ottemperanza comporta l’irrogazione di una delle sanzioni alternativamente previste per il caso di concessione senza titolo, cioè della demolizione coattiva o della sanzione pecuniaria, ma non è escluso che si possa provvedere conformando diversamente la situazione di fatto alla normativa urbanistica, in modo da realizzare l’interesse pubblico con il minor sacrificio possibile per gli interessi dei privati, come emanando una concessione in sanatoria su un progetto che contempli la modificazione del manufatto; si vedano anche Cons. Stato V Sez. 24 ottobre 1983 n. 493, 11 gennaio 1985 n. 6, nonché VI Sez. 24 aprile 1986 n. 333 e V Sez. 14 luglio 1986 n. 366;
[18] Con riguardo alla distinzione tra ottemperanza, esecuzione in forma specifica e risarcimento per equivalente Travi, Tutela risarcitoria e Giudice amministrativo, in Riv. trim. di Diritto amministrativo 2001, pagg. 7 e ss.
[19] Cons. Stato, sez. V, 12 luglio 1996, n.874
[20] Argomentazioni svolte diffusamente nella decisione del Cons. Stato IV 14 giugno 2001 n. 3169 in Cons. Stato 2001 p. I pag. 1304
[21] Cons. Stato IV 22 marzo 2001 n. 1684
[22] Per la responsabilità in materia di ritardo temporale sul rilascio di concessione edilizia è stato emanato il d.l. 5 ottobre 1993, n. 398, art. 4, convertito in legge 4 dicembre 1993, n. 493; d.l. 26 gennaio 1995, n. 24, non convertito in legge ma i cui effetti sono stati fatti salvi dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662, art. 2; in caso di procedimento su istanza di parte la previsione di indennizzo per il mancato rispetto del termine del procedimento o degli obblighi e prestazioni a carico dell’amministrazione attraverso una delegificazione e rinvio a regolamenti, è disposta dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, art. 20, comma 4, lettera h); e, in attuazione della delega legislativa contenuta nell’art. 11, comma 4, lettera g) della citata legge n. 59 del 1997 (prorogata con legge 15 maggio 1997, n. 127, art. 7, comma 1, lettera f));
[23] Cassazione civile sez. III, 7 febbraio 1995, n. 1394, Cassazione civile, sez. III, 5 febbraio 1979 n. 778
[24] Corte Cost. sentenza n. 575 del 1989
[25] C.G.A. sez. giurisd., 21 novembre 1997, n. 506
[26] Cons. Stato IV 14 giugno 2001 n. 3169.
[27] Si richiamano le indicazioni della giurisprudenza comunitaria (Corte Giustizia CE 5 marzo 1996, cause riunite n.46 e 48 del 1993; Id., 23 maggio 1996, causa C-5/1994).
Detto orientamento non è condiviso da altra sezione del Consiglio di stato sez. V n. 4239 del 2001 cit. nella quale si legge “Si dice, in sostanza, che la colpa si verificherebbe solo nei casi di illegittimità del provvedimento più grave ed evidente. L’opinione in esame riflette anche un certo indirizzo del giudice comunitario, incline a fondare il giudizio di colpa sulla effettiva gravità dell’accertata violazione della norma. Esisterebbe, quindi, una graduazione della illegittimità: solo quando essa trasmoda nella violazione dei parametri indicati dalla sentenza n. 500/1999 emergerebbe la colpa dell’amministrazione e la conseguente responsabilità risarcitoria. Ma la tesi non risulta persuasiva, in quanto la colpa va riferita al processo generativo dell’atto illegittimo, alla sua attitudine a pregiudicare gli affidamenti dei privati, e non alla misura della difformità dai parametri normativi che governano l’esercizio del potere amministrativo. La tesi criticata introdurrebbe, indirettamente, una limitazione della responsabilità alla colpa grave, senza adeguata base normativa. Inoltre, la prospettiva limitatrice finirebbe per assegnare alla responsabilità dell’amministrazione una funzione prevalentemente sanzionatoria, mentre lo strumento risarcitorio è preordinato, essenzialmente, a realizzare l’effettiva protezione dell’interesse leso dall’attività illegittima. Si può ritenere, in via largamente approssimativa, che le illegittimità più gravi esprimono, solitamente, anche la colpa dell’amministrazione. Ma non pare predicabile l’affermazione inversa: anche vizi oggettivamente meno evidenti (se considerati in modo isolato) potrebbero accompagnarsi alla colpa dell’amministrazione”.
[28] La ricerca della colpa muove dal presupposto che la responsabilità per lesione di interessi legittimi si inquadra nella ipotesi di responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ.; ricostruzione che è oggetto di una tesi critica che la configura nell’ambito della responsabilità contrattuale si veda Giacchetti La risarcibilità degli interessi legittimi è in coltivazione cit. pag. 1604 che ritiene “non sarebbe un’eresia neppure cominciare a tenere presente che, nella nuova prospettiva di una Pubblica Amministrazione privatizzata e fondata sulla concertazione e sul consenso, la violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione tende a trasformarsi da violazione di un dovere generico a contenuto negativo (collegato cioè al divieto del neminem laedere) in violazione di un obbligo specifico a contenuto positivo assunto nei confronti degli amministratori (= controparti); sicchè la violazione di quest’obbligo tende ad uscire dall’area dell’illecito aquiliano per entrare in quella dell’inaqdempimento di cui all’art. 1218 Cod. civ. con tutto ciò che ne consegue sul piano della prova e dell’estensione del danno risarcibile”; a conclusioni analoghe perveniva anche P. Puliatti, Regole autonome di risarcibilità degli interessi legittimi, in Giurisprudenza amministrativa siciliana 1998 pag. 292.
In giurisprudenza i più recenti orientamenti giurisprudenziali aderiscono alla tesi della riconducibilità della responsdabilità per lesione di interessi legittimi a quella aquiliana, vedi Cons. Stato n. 4239 del 2001 cit.
[29] Cons. Stato n. 4239 del 2001 cit
[30] in termini Cons. Stato n. 4239 del 2001 cit. ove si ritiene anche che “la pretesa all’attuazione del giudicato assume senz’altro la consistenza del diritto di credito, come è riconosciuto pacificamente dalla giurisprudenza, con riferimento alla individuazione del termine di prescrizione per la proposizione del ricorso per l’ottemperanza (C. Stato, sez. V, 15-03-1990, n. 307: l’azione nascente dal giudicato soggiace all’ordinario termine di prescrizione decennale stabilita dall’art. 2953 c.c.). Pertanto, quanto meno con riguardo al ritardo maturato a partire dalla formazione del giudicato, la relativa pretesa assume carattere obbligatorio, con tutte le conseguenze riguardanti la disciplina della responsabilità (onere della prova dell’elemento soggettivo, termine di prescrizione, ecc.)”.
[31] Cons. Stato IV 14 giugno 2001 n. 3169 cit.
[32] TAR Catania sez. 1^ 18 gennaio 2000 n. 38, in Foro Italiano 2000 parte 3^ pp. 196 e ss
[33] In Sicilia l’art. 1 l. reg. sic. 5 novembre 1973 n. 38 prevede una durata decennale.
[34] Corte cost. sent. 20 maggio 1999 n. 179, Consiglio Stato sez. IV, 20 maggio 1996, n. 651. Giova ricordare a tal proposito che l’art.39 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, recante: “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità” ha disposto che ” in attesa di una organica risistemazione della materia, nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo è dovuta al proprietario una indennità, commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto.
Va tenuto conto che la Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza della sez. II 2 agosto 2001 (Cooperativa La Laurentina c/ Italia) ha ritenuto che i vincoli ultraquinquennali preordinati all’esproprio violano il diritto al rispetto della proprietà.
[35] Come è noto ai sensi dell’art. 30 della legge n. 47 del 1985, in luogo della indennità di esproprio, i proprietari di lotti di terreno, vincolati a destinazioni pubbliche a seguito delle varianti di cui all’articolo 29, possono chiedere che vengano loro assegnati equivalenti lotti disponibili nell’ambito dei piani di zona di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, per costruirvi, singolarmente o riuniti in cooperativa, la propria prima abitazione.
I proprietari di terreni, coltivatori diretti o imprenditori agricoli a titolo principale, possono chiedere al comune, in luogo dell’indennità di esproprio, l’assegnazione in proprietà di equivalenti terreni, facenti parte del patrimonio disponibile delle singole amministrazioni comunali, per continuare l’esercizio dell’attività agricola.
I proprietari degli edifici per i quali è prevista la demolizione possono chiedere l’assegnazione di un lotto nell’ambito dei piani di zona di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, per costruirvi la propria prima abitazione.

Redazione

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