Interpretazioni della cassazione in tema di assegnazione della casa familiare: Corte Di Cassazione – Prima Sez. ROMA. Sentenza n.4816/2009 Corte Di Cassazione – Prima Sez. VENEZIA. Sentenza n.2210/2009

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La Prima Sezione della Corte di Cassazione (Sent. n. 4816/2009) ha decretato che solo l’immobile nella quale la famiglia ha vissuto può essere oggetto conteso dal coniuge affidatario dei figli minori. I Giudici del Palazzaccio hanno infatti stabilito che “l’assegnazione della casa familiare prevista dall’art. 155, quarto comma, c. c., rispondendo all’esigenza di conservare l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui s’esprime e s’articola la vita familiare, è consentita unicamente con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro d’aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione d’ogni altro proprietà immobiliare di cui i coniugi avessero la disponibilità”. Pertanto la richiesta formulata circa l’assegnazione di altro immobile ove non aveva vissuto la famiglia è stata respinta.
L’assegnazione della casa familiare, anche se tradotta in termini economici, particolarmente valorizzati dalla Legge n. 898 del 1970, articolo 6, comma 7 (come sostituito dalla Legge n. 74 del 1987, articolo 11), è abbinata all’affidamento dei minori. Infatti proprio nell’interesse di questa a poter rimanere nell’habitat domestico in cui e’ cresciuta, e non deve quindi essere trattata come se fosse una componente dell’assegno previsto dalla Legge n. 898 del 1970, articolo 5, per far fronte alle necessità economiche del coniuge meno abbiente, alle quali e’ destinato unicamente il predetto assegno. Quindi, anche se l’immobile sia in comunione dei beni, l’assegnazione del beneficio resta subordinata all’imprescindibile presupposto dell’affidamento dei figli minori o della convivenza con figli maggiorenni ma economicamente non autosufficienti: nel caso contrario infatti, è discutibile in materia di costituzionalità legittima del provvedimento, che, non potendo automaticamente essere modificato a seguito del raggiungimento della maggiore eta’ e dell’indipendenza economica da parte dei figli, diverrebbe in un vero e proprio esproprio e quindi violazione del diritto di proprietà (una sorta di usufrutto), per tutta la vita del coniuge assegnatario, in danno del comproprietario (Cass. 2006/1545; 2007/10994; 2007/17643).
 In passato, la maggior parte della giurisprudenza non prendeva in considerazione, dopo la separazione personale, il diritto di abitazione della casa familiare da parte del coniuge non proprietario e non titolare di alcun rapporto di locazione, sul rilievo che, in assenza di una specifica disposizione di legge che autorizzasse il giudice ad un tale tipo di intervento, il coniuge proprietario e quindi, gestore del diritto reale o personale non poteva essere privato del godimento del bene di sua proprietà (v. Cass. civ., Sez. Un., n. 11096/02). Infatti, il testo originario dell’art. 155 c.c. non prevedeva, tra i provvedimenti da adottare a tutela del coniuge e della prole, l’assegnazione della casa familiare.
In occasione della riforma del diritto di famiglia, il legislatore decise di modificare, in tema di separazione personale, al quarto comma dell’art. 155 c.c., il principio secondo il quale “l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza, e ove sia possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli”.
Quindi, sulla base dell’interpretazione etimologica della disciplina, ne scaturiva che, in caso di divorzio, la giurisprudenza non riconosceva al coniuge non proprietario (o comunque non titolare di altri diritti reali sull’immobile) il diritto di abitazione della casa familiare.
E’ ovvio che il mancato coordinamento con il quarto comma dell’art. 155 c.c. finiva con il generare confusione ed attriti dato che, al contrario, in caso separazione personale dei coniugi valeva espressamente il principio dell’assegnazione al coniuge affidatario, anche se non titolare di alcun diritto reale sulla casa familiare..
Successivamente,con l’entrata in vigore della successiva l. 392 del 1978 (art. 6, 2° comma), sulla disciplina delle locazioni di immobili urbani, la situazione peggiorò. Infatti, il legislatore si interessò di favorire il coniuge assegnatario nell’ipotesi di abitazione condotta in locazione, tutelandolo espressamente  con il diritto di successione per legge nella titolarità del contratto di locazione, sia nel caso di separazione che in quello di divorzio. Testualmente: “in caso di separazione giudiziale, di scioglimento, di cassazione degli effetti civili dello stesso, nel contratto di locazione succede al conduttore l’altro coniuge, se il diritto di abitare nella casa familiare sia stato attribuito dal giudice a quest’ultimo”.
Anche la Cassazione stessa ha sottolineato che “nell’esaminare la natura del diritto riconosciuto al coniuge non titolare di un diritto di proprietà o di godimento sulla casa coniugale con il provvedimento giudiziale di assegnazione della predetta casa in sede di separazione e/o di divorzio, la giurisprudenza di questa Corte è assolutamente costante nel ritenere che si è in presenza di un diritto reale di godimento (Cass. civ., 31 gennaio 1986, n. 624; Cass. civ. 28 marzo 1990, n. 2529; Cass. civ., 5 giugno 1991, n. 6348). È stato infatti esattamente osservato che non basta a far ritenere la realtà del rapporto il fatto che la norma adoperi il termine “abitazione”, dovendosi intendere lo stesso nel senso di facoltà di godimento, conseguente ad un provvedimento giudiziale di per sé non idoneo alla costituzione di un diritto reale, essendo i modi di costituzione di tali diritti tassativamente ed espressamente previsti dalla legge, e non rientrando tra essi un provvedimento del genere” (Cass. civ., n. 11508/93).
Inizialmente dicevamo che l’assegnazione della casa familiare non integra una componente delle obbligazioni pecuniarie conseguenti alla separazione o allo scioglimento del matrimonio, ma è a tutela funzionale dei minori.
Questo principale scopo consente di valutare oramai superate quelle posizioni della giurisprudenza remota che inquadrava l’assegnazione della casa familiare tra i diritti personali di godimento e sosteneva l’inopponibilità al terzo del provvedimento di assegnazione della casa familiare, sulla base della tassatività dei modi di costituzione dei diritti reali. Superate le diatribe conseguenti alle varie interpretazioni dell’art. 6, comma 6°, della legge sul divorzio, è possibile ricondurre, nel richiamo all’art. 1599 c.c., l’intento del legislatore di paragonare la normativa del coniuge assegnatario a quella del conduttore, rendendo così opponibile ai terzi il provvedimento di assegnazione, anche a prescindere dall’eventuale trascrizione.
 
L’art. 155 quater, comma 1, evince che il diritto all’assegnazione della casa familiare si estingua:
  • se l’assegnatario non dimori più in essa;
  • se l’assegnatario cessi di abitare stabilmente nella casa familiare;
  • se l’assegnatario instauri una convivenza more uxorio all’interno della casa oggetto di assegnazione;
  • se, infine, l’assegnatario contragga nuovo matrimonio.
Raramente ci s’imbatte nella prima ipotesi, poiché sono  casi eccezionali, nei quali, per imprevedibili e sopravvenute ragioni, l’assegnatario, benché tutelato dal decreto del Tribunale, decida di non occupare stabilmente la casa familiare, mettendo in atto un comportamento pregiudizievole per i figli tanto da rientrare nel presupposto indicato all’art. 709 ter c.p.c. per la modifica dei provvedimenti e per un ulteriore provvedimento sanzionatorio nei confronti dello stesso.
Nel secondo caso, è opportuno che il coniuge assegnatario rappresenti al giudice le mutate esigenze (riferite allo stesso oppure alla prole), e domandare una revoca o una modifica del provvedimento di assegnazione.
Più complessa si presenta la motivazione di estinzione costituita dal una convivenza more uxorio all’interno dell’immobile oggetto di assegnazione.
Infatti già si è notato come il legislatore abbia inteso “strumentale” l’assegnazione della casa familiare nell’interesse dei figli alla conservazione del pregresso “habitat familiare” al fine di tutelare il diritto del figlio a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori. Tale scopo  si rende rigido nel caso di estensione del godimento della casa familiare al convivente more uxorio dell’assegnatario. La giurisprudenza, infatti, ha palesato una certa riprorevolezza nell’allargare tale beneficio all’instaurazione di una relazione con un soggetto che, al cospetto dei minori, rischia di porsi come “figura alternativa” a quella dell’altro genitore.
E’ giocoforza che davanti ad una convivenza more uxorio – e in conformità col l’art. 4, comma 2, legge n. 54 del 2006, che prevede le nuove norme sull’affidamento condiviso ai casi di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati -è causa di cessazione del diritto al godimento della casa familiare il contrarre un  nuovo matrimonio da parte dell’assegnatario.
Contrariamente a quanto detto e, a sorpresa, la Sentenza n. 2210/2009, della Corte di Cassazione ha deliberato che la sentenza di divorzio fa recedere  dal diritto a vivere nella casa coniugale acquisito in sede di separazione. La “novità” che ne scaturisce, è che il diritto ad usufruire della casa coniugale, sancito in sede di separazione, cessa con la sentenza che dichiara la cessazione degli effetti civili del matrimonio, anche se, a tal riguardo, il coniuge non abbia avanzato nessuna richiesta al riguardo. IL FATTO: riguarda un coniuge, il quale conveniva davanti al Tribunale di Venezia, la ex moglie esponendo che il Tribunale di Venezia aveva omologato la separazione personale tra il ricorrente e la moglie, e disposto l’affidamento della figlia alla madre cui era stata assegnata la casa coniugale. Decorsi i tre anni dalla separazione, il Tribunale di Venezia dichiarava cessati gli effetti civili del matrimonio e, successivamente con  sentenza, passata in giudicato, lo stesso Tribunale stabiliva lo scioglimento della comunione patrimoniale inerente all’abitazione coniugale, già “assegnata” alla moglie precedentemente, disponendone la proprietà esclusiva ad esso attore e ponendo a suo carico il pagamento di una somma. Il coniuge penalizzato  rappresentava che , sebbene la figlia avesse raggiunto i 18 anni, la ex casa coniugale era tuttora utilizzata dalla moglie che non l’aveva restituita in quanto perdurava la  validità della sentenza di separazione  e della successiva sentenza di cessazione degli effetti civili, tant’è che non aveva adottato al riguardo alcun provvedimento. Dal conflitto tra l’ex marito che ne richiedeva il rilascio, e l’ex moglie che richiedeva il rigetto della domanda sul rilievo che la mancata richiesta di modifica in sede di divorzio delle condizioni della separazione in ordine al diritto di abitazione ne confermava implicitamente il mantenimento e che il mancato pagamento del conguaglio imposto dalla sentenza di scioglimento della comunione, determinava la risoluzione per inadempimento del trasferimento della proprietà dell’immobile. Il Tribunale di Venezia intimava al rilascio dell’immobile da parte dell’ex moglie, motivando che l’assegnazione della casa coniugale disposta in sede di separazione non aveva più validità con il passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili anche se in tale contesto nessun provvedimento era stato adottato al riguardo. La Corte di Appello confermava che con la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio la regolamentazione dei rapporti patrimoniali stabiliti in sede di separazione, tra cui anche l’assegnazione della casa coniugale, pur essendo mancato in tale secondo giudizio un espresso provvedimento al riguardo era decaduta. Avverso tale sentenza, la ex moglie ha ricorso in Cassazione, ma la Suprema Corte lo ha rigettato . Il Collegio ha motivato che in linea di principio la pronuncia di divorzio comporta, con il venir meno dello stato di separazione dei coniugi, un cambiamento giuridico dei rapporti adottati nel precedente giudizio e di conseguenza  l’eventuale assegnazione della casa coniugale disposta a favore di uno dei due. Pertanto, anche se la sentenza di divorzio non contempla nulla al riguardo, il coniuge già assegnatario e comproprietario dell’immobile non ha più diritto all’utilizzo esclusivo e i rapporti non possono che essere regolati dalle norme sulla comunione.
 
 
Dottoressa in Scienze dell’educazione
Consulente dell’educazione  familiare                                      
Mediatrice Familiare
                                                                          

Corbi Mariagabriella

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