Intento persecutorio del datore di lavoro e onere della prova del lavoratore

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1. Il mobbing

La parola viene dal verbo inglese to mob che significa aggredire, attaccare, scagliarsi [1].

Il mobbing consiste in comportamenti ostili reiterati e sistematici che assumono forme di persecuzione o di prevaricazione psicologica, da cui può conseguire l’emarginazione e la mortificazione morale del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e della sua personalità [2].

È configurabile ove ricorrano due elementi: quello oggettivo, una pluralità di comportamenti del datore di lavoro che non devono necessariamente integrare un reato o un illecito [3]; quello soggettivo, l’intento persecutorio del medesimo [4].

Il fondamento dell’illegittimità è l’obbligo datorile, di cui all’articolo 2087 c.c., di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore.

Il datore di lavoro deve adottare tutte le misure idonee a prevenire sia i rischi insiti all’ambiente di lavoro, sia quelli derivanti da fattori esterni e inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova, atteso che la sicurezza del lavoratore è un bene di rilevanza costituzionale che impone al datore di anteporre al proprio profitto la sicurezza di chi esegue la prestazione.

Lo specifico intento che sorregge il mobbing e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi, quale la mera dequalificazione di cui all’articolo 2103 c.c..

Ogni modifica in peius delle mansioni importa, infatti, la nullità della stessa.

Essa non trova applicazione nel caso in cui la modifica in peius sia dovuta: 1) ad una situazione di urgenza determinata da forza maggiore; 2) ai commi 2, 4 e 6 dell’articolo 2103 c.c..

Ex articolo 2103 comma 2, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.

Ex articolo 2103 comma 4, ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.

Infine, ex articolo 2103 comma 6, nelle sedi di cui all’articolo 2113 quarto comma o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita (il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro).

2. L’onere della prova

L’articolo 2697 c.c., al primo comma, stabilisce che chi vuol far valere un diritto in giudizio [5] deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento [6].

La norma esprime, in tema di prove civili, il fondamentale principio dispositivo in forza del quale alla base della decisione del giudice devono essere poste soltanto le prove che le parti hanno prodotto nel corso del procedimento.

Le disposizioni applicabili e la conseguente decisione finale del giudice dovranno essere fondate, dunque, su atti o fatti mostrati da attore e convenuto, con eccezione dei tassativi casi di possibilità di acquisizione della prova d’ufficio, ex lege previsti.

L’onere di provare un fatto ricade, quindi, su colui che invoca proprio quel fatto a sostegno della propria tesi (onus probandi incumbit ei qui dicit): chi vuol far valere in giudizio un diritto deve quindi dimostrare i fatti costitutivi, che ne hanno determinato l’origine [7].

Perciò è necessaria la dimostrazione del fatto costitutivo del danno, dell’entità di quest’ultimo e infine dell’esistenza dell’elemento psicologico, attribuito quindi all’autore [8].

Spetta al lavoratore che lamenti di aver subìto un danno l’onere di provare l’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro nonché il nesso tra dette circostanze; solo ove il lavoratore abbia dato prova di ciò, al datore spetta l’onere contrapposto di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il danno e che la malattia del dipendente non sia in alcun modo riconducibile all’inosservanza di tali obblighi [9].

Il dipendente deve dimostrare un rapporto di causa-effetto tra condotta e pregiudizio e la prova dell’elemento soggettivo e, cioè, dell’intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi [10].

Riepilogando, ai fini dell’accertamento di una condotta datoriale mobbizzante, è onere del lavoratore fornire una sicura prova circa: 1) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente prolungato e sistematico con intento vessatorio; 2) l’evento lesivo della propria personalità o della propria salute; 3) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) ed il pregiudizio alla propria integrità psico-fisica; 4) la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

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Note bibliografiche

[1] Per un approfondimento si veda Mobbing, La legge per tutti, disponibile all’indirizzo https://www.google.com/amp/s/www.laleggepertutti.it/amp/dizionario-giuridico/mobbing.

[2] Corte Cost., sent. n. 359 del 19 dicembre 2003; Cass. Sez. Un., sent. n. 8438 del 4 maggio 2004.

[3] Le azioni lecite, organizzate in sequela, con intento vessatorio, degradano ad azioni illecite, idonee a cagionare un danno che altrimenti non sarebbero in grado di causare.

[4] È, quindi, l’intento psicologico di arrecare il danno ingiusto a rendere rilevanti ai fini del mobbing atti di per sé stessi leciti.

[5] Si vedano, a tal proposito, gli articoli 99 e 100 c.p.c.. L’articolo 99 c.p.c. stabilisce che chi vuole far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente. L’articolo 100 c.p.c. statuisce, invece, che per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse.

[7] Si veda, a tal proposito, l’articolo 115 c.p.c.. L’articolo 115 c.p.c. stabilisce che salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita (il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza).

[8] Ad esempio, se A reclama l’osservanza da parte di B di un certo contratto, dovrà dare dimostrazione dell’avvenuta stipula del medesimo, esibendone l’avvenuta scrittura, o ancora, colui che vanta una pretesa risarcitoria di natura extracontrattuale dovrà provare la lesione del generale principio del neminem laedere, tutelato dall’articolo 2043. La vittima di un tamponamento, ad esempio, avrà l’onere di dimostrare, in aggiunta al fatto storico in sè considerato, anche la presenza di un requisito soggettivo di responsabilità (almeno al grado della colpa), in capo all’autore del sinistro, provando la non osservanza delle regole del codice della strada.

[9] Tribunale Torino Sez. V, sent. n. 724 del 10 maggio 2021.

[10] Tribunale Mantova Sez. Lav., sent. n. 103 del 28 ottobre 2020.

 

 

Tullio Facciolini

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