Impugnazioni: conseguenze acquiescenza del procuratore della Repubblica

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Cosa comporta, in materia di impugnazioni, l’acquiescenza del procuratore della Repubblica
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Corte di Cassazione -SS.UU. pen.- sentenza n. 21716 del 23-02-2023

Indice

1. Il fatto


Il Tribunale di Catanzaro dichiarava non doversi procedere nei confronti di una persona accusata in relazione ai reati di cui agli artt. 570, comma 1, c.p. (capo 1) e 12-sexies L. 1 dicembre 1970, n. 898 (capo 2), ora previsti dall’art. 570-bis c.p., in quanto delitti ritenuti entrambi estinti per intervenuta remissione di querela.
Ciò posto, avverso tale sentenza presentava ricorso immediato ai sensi dell’art. 569 c.p.p. il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Catanzaro il quale, con un unico motivo, deduceva la violazione di legge in relazione ai citati artt. 12-sexies L. n. 898 del 1970 e 570-bis c.p., per avere il Tribunale di Catanzaro erroneamente dichiarato la estinzione del reato di omessa corresponsione dell’assegno divorzile, contestato al capo d’imputazione 2), benché si fosse trattato di illecito procedibile d’ufficio.
In particolare, il ricorrente evidenziava come il rinvio contenuto nel predetto art. 12-sexies all’art. 570 c.p. si riferisse esclusivamente al trattamento sanzionatorio previsto per il delitto codicistico di violazione degli obblighi di assistenza familiare e non anche al relativo regime di procedibilità; e come tale valutazione fosse tuttora valida, anche dopo che l’art. 12-sexies era stato formalmente abrogato dall’art. 7 D.Lgs. n. 1 marzo 2018, n. 21, dato che la relativa disposizione incriminatrice era in sostanza confluita in quella dettata dall’art. 570-bis c.p., inserito nel codice dall’art. 2, comma 1, lett. c), D.Lgs. cit..

2. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione


La Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione, assegnataria del ricorso summenzionato, lo rimetteva alle Sezioni unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p., avendo la questione sottoposta al suo esame dato luogo nella giurisprudenza di legittimità ad un contrasto interpretativo.
In particolare, il Collegio rimettente rilevava come vi fossero contrapposti orientamenti in ordine all’esegesi della disposizione dettata dall’art. 593-bis c.p.p. introdotta nel codice di rito dall’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 6 febbraio 2018, n. 11, nell’ambito di una più ampia riforma della disciplina delle impugnazioni penali che, come noto, stabilisce che “Nei casi consentiti, contro le sentenze del giudice per le indagini preliminari, della corte d’assise e del tribunale può appellare il procuratore della Repubblica presso il tribunale”, mentre “il procuratore generale presso la corte d’appello può appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento”.
Più nel dettaglio, per un primo indirizzo giurisprudenziale, nel caso di ricorso per Cassazione proposto dal procuratore generale presso la Corte di Appello avverso sentenza astrattamente appellabile, ma per la quale, ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., non sussistono le condizioni legittimanti il diritto da parte dello stesso a proporre appello (avocazione o acquiescenza al provvedimento da parte del procuratore della Repubblica), ricorre l’ipotesi di ricorso immediato per Cassazione (ovvero “per saltum“), con conseguente operatività, in caso di accoglimento dell’impugnazione, del meccanismo di rinvio al giudice competente in grado di appello ex art. 569, comma 4, c.p.p.: ciò perché, si afferma, la mancanza delle suddette condizioni legittimanti non incide sull’ontologica esistenza del diritto ad impugnare in capo al procuratore generale, ma esclusivamente sulla possibilità del suo concreto esercizio (in questo senso, tra le altre, Sez. 2, n. 15449 del 14/01/2022; Sez. 5, n. 10692 del 10/12/2021, in un caso in cui il ricorso “per saltum” era stato presentato dal procuratore generale prima della scadenza del termine entro il quale il procuratore della Repubblica avrebbe potuto proporre appello; Sez. 3, n. 3165 del 22/11/2019).
Per l’indirizzo giurisprudenziale contrapposto, invece, nel caso di ricorso per Cassazione proposto dal procuratore generale presso la Corte d’Appello che, ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., non abbia legittimazione ad impugnare la sentenza, non ricorre l’ipotesi di ricorso immediato per Cassazione (cd. “per saltum“), essendo il ricorso ordinario l’unico rimedio “soggettivamente” esperibile: sicché, in caso di annullamento della sentenza da parte della Corte di Cassazione, il rinvio va disposto non al giudice competente per l’appello, come previsto dall’art. 569, comma 4, c.p.p., ma al giudice che ha emesso la sentenza impugnata (in questo senso, tra le diverse, Sez. 4, n. 33867 del 28/10/2020; Sez. 5, n. 34998 del 20/10/2020; Sez. 5, n. 13808 del 18/02/2020).
Tuttavia, il Collegio rimettente segnalava come le incertezze ermeneutiche avessero riguardato anche altre questioni strettamente connesse riguardanti ulteriori aspetti applicativi della disciplina “de qua“. In particolare, ci si era chiesti quali fossero i presupposti che, in generale, legittimano il procuratore generale ad appellare la sentenza ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p. ovvero il modo in cui può essere manifestata l’acquiescenza del procuratore della Repubblica; se tale forma di acquiescenza sia riferibile alla sola figura del procuratore della Repubblica presso il Tribunale, come indicato nell’art. 593-bis, comma 1, c.p.p., o anche a quella del rappresentante dell’ufficio del pubblico ministero che ha formulato le sue conclusioni nel corso del giudizio di primo grado, in quanto titolare di un’autonoma legittimazione ad impugnare ai sensi dell’art. 570, comma 2, cod. proc. pen; ed ancora, quali siano la natura della legittimazione del procuratore generale ad appellare ai sensi dell’art. 593-bis c.p.p. e la relazione esistente tra tale forma di legittimazione e quella a proporre il ricorso per Cassazione, “per saltum” a mente dell’art. 569 c.p.p. o, in alternativa, “ordinario” a norma degli artt. 606, comma 2, e 608 dello stesso codice di rito, avverso la sentenza emessa dal giudice di primo grado.

3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite


 
Le Sezioni unite, dopo avere delimitato le questioni di diritto sottoposte al loro scrutinio giudiziale, per ciò che concerneva la prima questione – e cioè, quali siano i presupposti che legittimano il procuratore generale ad appellare la sentenza ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p. – da valutarsi in via logicamente pregiudiziale, osservavano prima di tutto che, nel contesto di una più ampia riforma della disciplina codicistica delle impugnazioni penali, l’art. 593-bis c.p.p. è stato inserito dall’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 6 febbraio 2018, n. 11, al dichiarato scopo di ridurre il carico di lavoro dei giudici di secondo grado, evitando che gli stessi possano essere chiamati ad esaminare atti di impugnazione, semmai neppure coordinati nel loro contenuto, presentati da uffici diversi del pubblico ministero.
Al fine di ridurre l’area dell’appello attraverso una razionalizzazione “(del)l’esercizio (del relativo potere) da parte della pubblica accusa”, si è inteso stabilire – si legge nella relazione di accompagnamento a quel decreto legislativo – che “il potere dell’appello spetta al procuratore generale solo in alcuni casi e non può sovrapporsi a quello del pubblico ministero di primo grado”, rilevandosi al contempo che tale nuovo articolo, nel prevedere che, “nei casi consentiti, contro le sentenze del giudice per le indagini preliminari, della corte d’assise e del tribunale può appellare il procuratore della Repubblica presso il tribunale”, mentre “il procuratore generale presso la corte d’appello può appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento”, ha significativamente modificato il rapporto paritario, disegnato nella disciplina codicistica previgente, tra la legittimazione ad impugnare del pubblico ministero di primo grado e quella del pubblico ministero di secondo grado.
Premesso ciò, gli Ermellini facevano altresì presente che, se l’art. 570, comma 1, c.p.p. prevedeva (e continua, in generale, a prevedere), ai fini dell’esercizio del potere di impugnazione, il principio della tendenziale uguale posizione per il procuratore della Repubblica presso il Tribunale e il procuratore generale presso la Corte di Appello, in quanto titolari di concorrenti legittimazioni tra loro indipendenti, con specifico riferimento all’appello avverso le sentenze di primo grado, il nuovo art. 593-bis c.p.p. ha introdotto una deroga a quel principio, disegnando un rapporto differenziato tra tali diversi uffici requirenti, nel senso che, per il solo appello, alla legittimazione “prioritaria” del procuratore della Repubblica presso il Tribunale è affiancata una legittimazione del procuratore generale presso la Corte di Appello “secondaria” o, come efficacemente asserito dalla dottrina, “sussidiaria“, ovvero “condizionata“.
In altri termini, per perseguire la finalità di evitare una duplicazione degli appelli della parte pubblica, il legislatore del 2018, pur lasciando inalterata la doppia titolarità del potere di impugnazione dei due considerati rappresentanti dell’ufficio del pubblico ministero, ne ha condizionato ovvero ne ha limitato l’esercizio con riferimento alla figura del procuratore generale, deducendosi contestualmente che, degli effetti di tale novità legislativa, vi era già traccia nella più recente giurisprudenza delle stesse Sezioni unite che, nell’esaminare altra questione, hanno avuto modo di evidenziare come l’art. 570, comma 1, c.p.p. conferisca espressamente la facoltà di impugnazione “sia al procuratore della Repubblica presso il tribunale che al procuratore generale presso la corte di appello”, tenuto conto che: “la formulazione della norma indicata è onnicomprensiva, in quanto tale riferibile senza limitazioni ad entrambi gli uffici giudiziari; è di conseguenza consentita al procuratore generale l’impugnazione dei provvedimenti emessi da tutti i giudici del distretto (…) La norma fa salva la deroga di cui all’art. 593-bis c.p.p., successivamente introdotto dall’art. 3 D.Lgs. n. 6 febbraio 2018, n. 11, per effetto della quale il procuratore generale può appellare la sentenza di primo grado solo nei casi di avocazione o qualora vi sia stata acquiescenza del procuratore della Repubblica” (Sez. U, n. 47502 del 29/09/2022).
Detto questo, i giudici di piazza Cavour denotavano, a questo punto della disamina, che la disposizione contenuta nel comma 2 dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p. stabilisce che “il procuratore generale presso la corte d’appello può appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento”, facendosi al contempo presente che, benché la formula sia sincretica, la lettura congiunta del primo e del comma 2 di tale articolo permette di comprendere agevolmente che il “provvedimento” oggetto dell’appello è la sentenza emessa all’esito del giudizio di primo grado dal giudice per le indagini preliminari, dalla Corte di Assise o del Tribunale, nessun dubbio applicativo pone, poi, il riferimento al caso dell’avocazione, per l’ovvia considerazione che, dal combinato disposto dei commi 1, lett. a), e 2 dell’art. 51 c.p.p., si evince in termini inequivoci che, in tutti i casi di avocazione le funzioni, che nella fase delle indagini e nei procedimenti di primo grado spettano ai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale, sono esercitate dai magistrati della procura generale presso la Corte di Appello.
In siffatte ipotesi, dunque, per la Corte di legittimità,la legittimazione del procuratore generale non è “secondaria” o “sussidiaria” rispetto a quella del procuratore della Repubblica, bensì prioritaria ed esclusiva.
All’opposto, sempre ad avviso del Supremo Consesso, è di più difficile decifrazione il significato della formula “qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza”, istituto di cui il legislatore della novella non ha fornito una definizione né ne ha indicato in maniera specifica i contorni applicativi, perché, a differenza di quanto previsto per il processo civile, per il quale l’art. 329 c.p.c. disciplina espressamente l’istituto dell’acquiescenza (stabilendo che, salvi i casi di revocazione, “l’acquiescenza risultante da accettazione espressa o da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge, ne esclude la proponibilità”), il codice del rito penale non conosceva tale figura giuridica prima della riforma del 2018.
In passato, di acquiescenza ad un provvedimento si era in effetti parlato, nella giurisprudenza di legittimità, esclusivamente in ordine ai casi di inutile decorso del termine entro il quale la parte legittimata avrebbe potuto presentare impugnazione (così, tra le molte, Sez. 1, n. 31855 del 05/05/2021; Sez. 5, n. 48239 del 28/10/2019; Sez. 2, n. 55947 del 20/07/2018; Sez. 1, n. 50426 del 28/05/2016; vds. anche, Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007), escludendosi sempre  che l’acquiescenza ad un provvedimento possa essere confusa con l’istituto della rinuncia all’impugnazione regolato dall’art. 589 c.p.p., essendo pacifico che tale negozio processuale a contenuto abdicativo e di natura ricettizia, contenente una manifestazione di volontà espressa, non ammette equipollenti e non può essere validamente attuato prima dell’avvenuta presentazione dell’impugnazione, cioè prima dell’esercizio del diritto che ne costituisce l’oggetto (così, tra le tante, Sez. 1, n. 39219 del 12/02/2014; Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012; Sez. 6, n. 10880 del 29/09/1995), trattandosi di ragioni, queste, che hanno indotto prudentemente la maggioranza dei primi commentatori della novella a identificare l’acquiescenza dell’art. 593, comma 2, c.p.p. con l’inutile decorso del termine per impugnare previsto per il procuratore della Repubblica presso il tribunale.
Tuttavia, la scelta del legislatore del 2018, di non chiarire espressamente in cosa debba consistere l’acquiescenza del procuratore della Repubblica e, soprattutto, di non modificare la complementare disciplina dei termini per impugnare, rilevavano le Sezioni unite nella pronuncia qui in commento, sono i fattori all’origine dei dubbi applicativi che avevano creato quei contrasti giurisprudenziali in ragione dei quali era stato poi sollecitato l’intervento di queste Sezioni nel caso di specie.
Ed infatti, collegare quella forma di acquiescenza al mero avvenuto decorso del termine per proporre impugnazione per il procuratore della Repubblica e, nel contempo, condizionare la “concorrente” legittimazione del procuratore generale ad appellare alla conoscenza dello spirare di quel termine, per la Suprema Corte, ha creato una sorta di “corto circuito” operativo, e ciò perché, come è stato da più parti sottolineato, il decorso del termine per proporre appello potrebbe avere un dies a quo diverso per il pubblico ministero di primo grado (artt. 548, commi 1 e 2, e 585, comma 2, lett. a, b e c, c.p.p.) rispetto a quello previsto per il procuratore generale (artt. 548, comma 3, e 585, comma 2, lett. d, c.p.p.); con la conseguenza che, ben potendo il decorso dei due termini coincidere in tutto o in parte, se si ritenesse che il procuratore generale acquista la legittimazione a proporre appello contro una sentenza di primo grado solo dopo aver avuto conoscenza del fatto che il procuratore della Repubblica non ha esercitato il proprio potere di impugnazione nel termine consentitogli, lo stesso pubblico ministero di secondo grado si potrebbe trovare nella gran parte dei casi, per l’esiguità di un congruo intervallo cronologico, nella materiale impossibilità di predisporre e presentare quella impugnazione, tenuto conto altresì del fatto che potrebbe esserci il paradosso consistente nel fatto che, nel caso di deposito della motivazione della sentenza di primo grado senza il rispetto dei termini stabiliti dall’art. 548, comma 2, c.p.p., il procuratore generale che dovesse ricevere la comunicazione di quell’avviso di deposito prima del procuratore della Repubblica, si vedrebbe di fatto privato di ogni possibilità di esercitare quella facoltà di impugnazione.
Orbene, a tali inconvenienti si è ritenuto di poter fare fronte immaginando che, in pendenza del termine per impugnare previsto per il procuratore della Repubblica, il procuratore generale possa comunque proporre l’appello “al buio“, con un atto di impugnazione formalmente ammissibile, ma sottoposto ad una sorta di “condizione sospensiva” di validità; in tale caso, la verifica della conformità dell’atto al modello legale può essere effettuata solo in un momento successivo dal giudice dell’impugnazione, al quale sarebbe così affidato il compito di riscontrare la originaria esistenza della legittimazione dell’organo impugnante desumendola dall’inutile decorso del termine per impugnare previsto per il procuratore della Repubblica, cioè dal verificarsi di una condizione sospensiva estranea alla volontà del titolare del potere esercitato in via sussidiaria.
Pur tuttavia, per le Sezioni unite, tale opzione ricostruttiva, di certo molto suggestiva, e accreditata dalle numerose pronunce che hanno sostanziato il secondo degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità succitati, non era condivisibile, e ciò perché, a loro avviso, essa appare obiettivamente inconciliabile con il dettato normativo, dal momento che l’art. 591, comma 1, lett. a), c.p.p. stabilisce, in generale, che “l’impugnazione è inammissibile (…) quando è proposta da chi non è legittimato (…)” e collega, quindi, l’esistenza di tale presupposto al momento genetico della presentazione del relativo atto, mentre l’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., prescrivendo che il procuratore generale può appellare “qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza”, indica, invece, chiaramente l’acquiescenza come un elemento costitutivo della legittimazione in capo al pubblico ministero di secondo grado.
Inoltre, veniva altresì rilevato come l’accoglimento della predetta impostazione ermeneutica si porrebbe in insanabile contrasto con il principio, espressione di un consolidato orientamento della Corte di Cassazione, secondo il quale la verifica della sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge per l’impugnazione va compiuta con riferimento alla presentazione del relativo atto scritto, momento in relazione al quale va effettuato il controllo della esistenza di tutte le condizioni – tra cui la legittimazione della parte che esercita la facoltà – idonee a rendere l’atto medesimo idoneo a produrre validamente l’impulso necessario per dar luogo al giudizio di impugnazione, essendo stato, tra l’altro, reiteratamente puntualizzato che “tutte la cause di inammissibilità del ricorso per cassazione (ad eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione, costituente causa sopravvenuta di inammissibilità) integrano un vizio intrinseco dell’atto (e) impediscono la valida costituzione del rapporto processuale d’impugnazione” (così Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, in motivazione, p. 7.6; nello stesso senso Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005; Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000).
Ebbene, secondo i giudici di piazza Cavour, per comprendere la valenza del nuovo sintagma “acquiescenza del procuratore della Repubblica”, l’unico reale aggancio normativo – da valutare in stretta connessione con l’”asfittico” dato testuale dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p. – è contenuto nell’art. 166-bis disp. att. c.p.p., significativamente introdotto dall’art. 8 dello stesso D.Lgs. n. 11 del 2018, secondo cui: “Al fine di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni relative all’impugnazione delle sentenze di primo grado, il procuratore generale presso la corte d’appello promuove intese o altre forme di coordinamento con i procuratori della Repubblica del distretto”.
Con tale disposizione il legislatore della novella ha in effetti voluto affidare al procuratore generale di ciascuna Corte di Appello il potere-dovere di verificare, volta per volta, con riferimento ad ogni singola sentenza di primo grado emessa da un giudice del distretto, quali siano le intenzioni del procuratore della Repubblica competente, titolare della legittimazione per così dire “principale” ad appellare e, conseguentemente, se vi siano le condizioni per lo stesso procuratore generale di esercitare la facoltà di proporre tale impugnazione, in alternativa, sulla base della sua legittimazione “sussidiaria“.
Del resto, il dato testuale induce a ritenere che la norma non richieda una formalizzazione processuale di una manifestazione di volontà da parte del procuratore della Repubblica, assimilabile ad una sorta di rinuncia ad impugnare ovvero ad altro atto processuale tipico; e tanto meno impone che il termine previsto per tale ufficio per proporre appello sia già spirato.
La formula impiegata (“Al fine di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni relative all’impugnazione (…)”), invero, lascia intendere che la verifica debba essere compiuta dal procuratore generale durante il decorso di quel termine, potendosi, quindi, escludere che il legislatore abbia voluto far riferimento ad una qualche forma di acquiescenza tacita, ricavabile per facta concludentia, perché l’acquiescenza del procuratore della Repubblica, nella indicazione desumibile dal combinato disposto degli artt. 593-bis c.p.p. e 166-bis disp. att. c.p.p., finisce per rappresentare esclusivamente l’espressione del risultato di quella intesa o di altro modulo organizzativo che sia stato scelto per il coordinamento dei due uffici di procura.
Per di più, la norma de qua neppure prescrive che il procuratore generale presso la Corte di Appello debba allegare al proprio atto di impugnazione un qualche documento che attesti l’intervenuta acquiescenza da parte del procuratore della Repubblica: di talché è ragionevole ritenere che il procuratore generale – nella logica di “deformalizzazione” che ha qualificato la riforma, tesa ad assicurare “fludità” ed efficienza al sistema delle impugnazioni – non debba certificare formalmente, nel proprio atto di impugnazione, di aver compiuto quella verifica.
Una attenta esegesi letterale di quella disposizione permette, altresì, di rilevare come la disposizione in argomento non richiedi affatto che le relazioni tra il procuratore generale presso la Corte di Appello e i procuratori della Repubblica del distretto debbano essere necessariamente disciplinate, in linea generale, da un apposito protocollo o da altro documento organizzativo, tanto più se si considera che l’adozione di un formale modulo regolamentare che disciplini i rapporti tra i due uffici requirenti è di certo auspicabile, e nella pratica risulta che in quasi tutti i distretti iniziative di tale natura siano state in effetti adottate, trattandosi di accorgimenti per così dire di “soft-law“, tesi esclusivamente a favorire le relazioni tra i rappresentanti di quegli uffici, destinati tuttavia ad avere una rilevanza puramente interna, organizzativo-ordinamentale, non anche una valenza processuale: al pari di quanto accade per i protocolli organizzativi e per gli altri strumenti di coordinamento che i diversi uffici del pubblico ministero dovessero adottare a fini investigativi ai sensi dell’art. 371, comma 1, c.p.p., per i quali convincentemente si è negato che una inosservanza delle relative regole possa inficiare la validità degli atti di indagine compiuti da un pubblico ministero (in questo senso Sez. 6, n. 9989 del 19/01/2018) dato che l’art. 166-bis disp. att. c.p.p. prevede che il procuratore generale e il procuratore della Repubblica raggiungano una intesa ovvero definiscano un accordo come risultato di una qualsivoglia iniziativa di coordinamento tra i due uffici: intesa che, pertanto, ben potrebbe essere raggiunta volta per volta e in maniera informale, con riferimento ad uno o alcuni specifici procedimenti penali.
Va, dunque, per la Corte di legittimità, escluso – al contrario di quanto sostenuto da una parte della dottrina – che i protocolli eventualmente sottoscritti dal procuratore generale della Corte di Appello con i procuratori della Repubblica del distretto debbano essere allegati dal pubblico ministero di secondo grado al proprio atto di impugnazione, così come va anche rifiutata l’idea che la mancata osservanza delle indicazioni, di valenza puramente organizzativa, contenute in documenti di quella natura – che, peraltro, oltre ad avere contenuto molto diverso tra distretto e distretto, potrebbero persino in concreto risultare assenti – possa essere in qualche modo sanzionata processualmente, potendosi in tal senso essere condivise le specifiche argomentazioni su tali profili contenute nelle pronunce nelle quali si è evidenziato come quelle intese generali, concretizzatesi in regole protocollari nei rapporti tra gli uffici, “non poss(a)no trovare ingresso nel singolo processo” (così Sez. 2, n. 15449 del 14/01/2022, p. 2.2, non mass. sul punto; Sez. 2, n. 6534 del 15/12/2021, p. 1.1, non mass. sul punto).
Oltre a ciò, era altresì fatto presente che una lettura logico-sistematica della disposizione generale contenuta nel nuovo art. 593-bis, comma 2, c.p.p., ed il fatto che il legislatore della riforma abbia riservato non ad una norma del codice, ma ad una “di servizio“, come quella prevista nel collegato art. 166-bis delle disposizioni di attuazione del codice di rito, la disciplina delle intese giustificative dell’acquiescenza, sono elementi che portano ragionevolmente a ritenere che la novella del 2018 non abbia voluto mutuare criteri formali validi per la operatività di altri istituti, come quello della acquiescenza espressa o tacita regolato dal codice di procedura civile, bensì, affidando al procuratore generale il “potere” (di cui vi è esplicito riferimento nella rubrica dello stesso art. 166-bis) di verificare quale siano le intenzioni del procuratore della Repubblica, “al fine di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni relative all’impugnazione delle sentenze di primo grado”, abbia voluto assegnare al rappresentante dell’ufficio di vertice della magistratura requirente del distretto una funzione propulsiva di verifica e coordinamento in vista della razionalizzazione delle impugnazioni avverso il medesimo provvedimento, rilevandosi a tal riguardo che è la ratio di tale innovazione che fa comprendere il significato che il legislatore ha inteso dare alle disposizioni in esame, nel senso che, se lo scopo del nuovo art. 593-bis c.p.p. è stato quello di evitare che contro la medesima sentenza si possano sommare l’appello del pubblico ministero di primo grado e quello del pubblico ministero di secondo grado, sì da garantire che il giudice dell’appello sia investito di un’unica impugnazione, la correlata opzione legislativa di non modificare la disciplina generale dei termini per proporre l’impugnazione conduce logicamente a sostenere, per gli Ermellini, che il procuratore generale presso la Corte di Appello – ovviamente laddove abbia maturato l’intenzione di proporre appello contro la sentenza di primo grado, se del caso anche a seguito di una sollecitazione formulata dalla parte civile o dalla persona offesa ai sensi dell’art. 572 c.p.p. – debba promuovere le intese ed esercitare la indicata funzione di verifica in maniera tale da definire quale dei due uffici di procura presenterà l’atto di impugnazione.
Difatti, per le Sezioni unite, tale approdo ermeneutico appare essere idoneo ad eliminare gli inconvenienti paventati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, derivanti dal contestuale decorso dei termini per impugnare per il procuratore della Repubblica e per il procuratore generale presso la Corte di Appello, e porta a soluzioni applicative coerenti con i principi di sistema del processo penale.
In effetti, il procuratore generale, che propone un appello contro una sentenza di primo grado riconosce, assumendosi la relativa responsabilità ordinamentale, di avere esercitato il potere-dovere di coordinamento e di preliminare verifica assegnatogli dall’art. 166-bis disp. att. c.p.p., indica così il proprio ufficio come legittimato ad impugnare ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., mentre non vi è alcuna previsione normativa che autorizzi a sostenere che il giudice dell’impugnazione possa successivamente sindacare il contenuto della intesa raggiunta dal procuratore della Repubblica con il procuratore generale, confermata dalla presentazione da parte di quest’ultimo dell’unico atto di appello, trattandosi questa di una soluzione che non comporta alcuna ingiustificata limitazione o altro incongruo sacrificio per le ragioni difensive dell’imputato o delle altre parti private, in quanto tale innovativo “meccanismo” processuale richiede esclusivamente che contro la sentenza di primo grado sia presentato un solo atto di appello della parte pubblica.
L’applicazione “fisiologica” delle norme in esame dovrebbe quindi, per la Corte, escludere in radice la possibilità che, a fronte della proposizione dell’appello da parte del procuratore generale, risulti presentato avverso la medesima sentenza anche un atto di appello del procuratore della Repubblica, laddove un concorso di atti di impugnazione dovesse in concreto verificarsi: tale evento “patologico“, conseguenza della mancata osservanza delle regole interne di natura ordinamentale a carattere organizzativo, è l’indice della mancata acquiescenza e della non operatività delle intese.
In questo caso l’impugnazione del procuratore generale presso la Corte di Appello è quindi inammissibile.
Resta, invece, sullo sfondo, per la Corte di legittimità, il tema concernente la definizione dell’ambito di operatività della disposizione dettata dall’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., laddove oggetto dell’atto di appello sia una sentenza di primo grado soggettivamente o oggettivamente cumulativa: situazioni nelle quali ci si potrebbe domandare se la mancata acquiescenza al provvedimento da parte del procuratore della Repubblica precluda in assoluto la legittimazione residuale del procuratore generale oppure se tale organo possa proporre l’impugnazione con riferimento a talune posizioni soggettive o a capi e punti della decisione che non interessati dall’appello ‘principale’, trattandosi di questione che le Sezioni unite ritenevano di non dover esaminare, perché (stimata) non rilevante nel caso di specie, deducendosi al contempo come, del resto, su tale specifica problematica non vi fosse un contrasto giurisprudenziale, in guisa tale che si reputava opportuno lasciare che fossero le Sezioni semplici, in relazione alle peculiarità delle singole fattispecie, ad approfondire la tematica.
Precisato ciò, si riteneva necessario, a questo punto della disamina, esaminare la seguente ulteriore questione: se l’inammissibilità dell’appello del procuratore generale avverso la sentenza di primo grado derivi esclusivamente dall’avvenuta presentazione dell’appello da parte del procuratore della Repubblica presso il Tribunale o anche da parte del rappresentante della pubblica accusa che ha formulato le conclusioni nell’udienza del giudizio di primo grado.
Ebbene, gli Ermellini notavano a tal proposito prima di tutto come i dubbi de quibus fossero sostanzialmente dovuti alla divergenza esistente tra il testo del dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p. e quello dell’art. 1, comma 84, lett. g), della legge delega 23 giugno 2017, n. 103, in attuazione della quale è stato adottato il più volte citato D.Lgs. n. 11 del 2018, nel senso che: la prima disposizione fa riferimento all’acquiescenza del solo procuratore della Repubblica presso il tribunale; la seconda, invece, fissa per il legislatore delegato il principio “che il procuratore generale presso la corte di appello possa appellare soltanto nei casi (…) di acquiescenza del pubblico ministero presso il giudice di primo grado”, utilizzando così una formula più ampia, comprensiva anche della figura del sostituto procuratore, rappresentante dell’ufficio del pubblico ministero, che ha presentato le conclusioni nel giudizio, titolare di una distinta legittimazione ad impugnare, giusta la previsione dell’art. 570, comma 2, c.p.p..
Orbene, per il Supremo Consesso, l’interpretazione lessicale della chiara formula impiegata dal legislatore delegato non sembra lasciare spazio a dubbio alcuno, in quanto il preciso sintagma utilizzato nell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p. (“procuratore della Repubblica“) induce a ritenere che la legittimazione del procuratore generale presso la Corte di Appello non sia condizionata dalle iniziative eventualmente assunte dal pubblico ministero che nel giudizio di primo grado aveva presentato le conclusioni, dato che la novella del 2018 non ha inciso in alcun modo sull’autonoma legittimazione ad impugnare di tale ultima figura, con la conseguenza che l’appello proposto dal pubblico ministero che ha presentato le conclusioni nel giudizio (art. 570, comma 2, c.p.p.) ben può concorrere con quello del procuratore generale che dovesse risultare legittimato ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., ritenendosi come tale soluzione risponda, peraltro, alla logica di un sistema che riconosce al magistrato requirente che partecipa al giudizio e formula le sue conclusioni piena autonomia decisionale rispetto al procuratore della Repubblica: è pacifico che la disposizione dettata dal comma 2 dell’art. 570 c.p.p. deve essere letta come accrescitiva, e non limitativa, dei poteri del rappresentante del pubblico ministero che abbia presentato le conclusioni in udienza, conferendogli una piena e distinta legittimazione all’impugnazione (in questo senso Sez. 1, n. 11353 del 12/10/1992).
Il quadro normativo e giurisprudenziale e’, perciò, per la Corte, coerente con l’opzione interpretativa in base alla quale il pubblico ministero, che ha presentato le proprie conclusioni in udienza, conserva la legittimazione ad appellare la sentenza del giudice di primo grado indipendentemente dalla scelta, operata dal capo del proprio ufficio ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., di prestare acquiescenza a quel provvedimento.
L’inequivoco risultato dell’esegesi letterale e di quella logico-sistematica, pertanto, sempre ad avviso della Suprema Corte, toglie ogni spazio alla possibilità di valorizzare il diverso esito di una interpretazione teleologica, che una parte della dottrina ha reputato di poter utilizzare per far prevalere sul dato testuale della norma introdotta dal legislatore delegato la volontà del legislatore delegante di evitare duplicazioni di impugnazioni, rimanendo da chiedersi se la riconosciuta divergenza tra il criterio formalmente fissato dalla legge delega n. 103 del 2017, e il diverso testo adottato con il decreto legislativo delegato, possa sostanziare un dubbio di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 76 Cost.: questione che, tuttavia, per le Sezioni unite, oltre a sembrare non rilevante nel caso di specie, appariva essere manifestamente infondata, visto che la Corte costituzionale ha, in più occasioni, puntualizzato come il carattere vincolato della legislazione delegata, derivante dalla predeterminazione parlamentare dei principi e criteri direttivi, non escluda margini di discrezionalità nelle scelte che è chiamato a compiere il legislatore delegato (così, ex plurimis, Corte Cost., sent. n. 426 del 2008).
In particolare, si è chiarito che, pur sussistendo tra la disposizione delegante e quella delegata un “naturale rapporto di riempimento“, l’art. 76 Cost. non è di ostacolo all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo da parte del legislatore delegato, il quale non è tenuto “a una mera scansione linguistica delle previsioni dettate dal delegante” (così, tra le molte, Corte Cost., sent. n. 10 del 2018) essendo egli, invece, libero di individuare ragionevoli contenuti attuativi della legge delega, di cui vanno rispettati i limiti invalicabili, ben potendo – come nella fattispecie era accaduto – interpretare e scegliere fra le alternative che gli si offrono e valutare le specifiche situazioni da disciplinare (così, tra le diverse, Corte Cost., sent. n. 59 del 2016; e sent. n. 174 del 2005; sull’argomento, seguendo l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, vds. anche Sez. U, n. 17615 del 23/02/2023, p. 9.4; Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, omissis, p. 5.3).
Ebbene, per la Cassazione, i percorsi argomentativi fin qui esposti consentivano di formulare, in via logicamente consequenziale, ulteriori valutazioni in ordine alla terza delle questioni portate all’attenzione delle Sezioni Unite, attinente ai rapporti tra la legittimazione “sussidiaria” o “condizionata” del procuratore generale a proporre appello avverso la sentenza del giudice di primo grado (art. 593-bis, comma 2, c.p.p.,) e la sua legittimazione a presentare ricorso per Cassazione avverso la medesima sentenza.
In particolare, quanto alla facoltà di proporre ricorso immediato o “per saltum“, si faceva presente come l’art. 569, comma 1, c.p.p. stabilisca espressamente che la “parte che ha diritto ad appellare la sentenza di primo grado può proporre direttamente ricorso per cassazione”: formula, questa, che disegna un concetto di appellabilità in senso soggettivo, perché quel mezzo di impugnazione viene considerato come alternativo in relazione alla posizione della parte impugnante, e da tanto è possibile arguire, per la Suprema Corte, che il procuratore generale in tanto è legittimato a presentare ricorso immediato per Cassazione in alternativa all’atto di appello, in quanto sia legittimato a proporre quest’ultimo ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., dunque solo nei casi di avocazione o di acquiescenza del procuratore della Repubblica al provvedimento, con l’ulteriore conseguenza che, in tale ipotesi, il ricorso immediato del procuratore generale si converte in appello laddove la sentenza di primo grado sia stata appellata da una delle parti private (o dal rappresentante del pubblico ministero che ha presentato le conclusioni), giusta la previsione degli artt. 569, comma 2, e 580 c.p.p. Qualora, invece, in accoglimento del ricorso immediato, la Corte di Cassazione annulli con rinvio la sentenza di primo grado – salvi i casi in cui nel giudizio di appello si sarebbe dovuta annullare la sentenza impugnata – gli atti dovranno essere trasmessi al giudice competente per il secondo grado.
In assenza dell’acquiescenza del procuratore della Repubblica, a quest’ultimo è dunque lasciata l’alternativa di presentare l’atto di appello o il ricorso immediato per Cassazione: in tale situazione – fatta eccezione per i casi del tutto eccezionali di difettoso coordinamento tra l’ufficio di procura di primo grado e quello di secondo grado – il ricorso “per saltum“, eventualmente proposto dal procuratore generale presso la Corte di Appello, è destinato ad essere dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione.
In relazione a tale aspetto le Sezioni unite ritenevano, pertanto, di non condividere le riflessioni sviluppate nelle pronunce che, sulla base di percorsi talora parzialmente differenti, si inscrivevano nell’indirizzo giurisprudenziale non condiviso da parte di costoro.
Precisato ciò, a questo punto della disamina, era esaminato il quesito complementare, e cioè se il procuratore generale, che non sia legittimato a proporre appello per l’assenza delle condizioni previste dall’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., sia legittimato a presentare contro la sentenza di primo grado ricorso per Cassazione “ordinario“, ai sensi dell’art. 606, comma 2, c.p.p. (“Il ricorso, oltre che nei casi e con gli effetti determinati da particolari disposizioni, può essere proposto contro le sentenze (…) inappellabili”), ovvero dell’art. 608, comma 1, c.p.p. (“Il procuratore generale presso la corte di appello può ricorrere per cassazione contro ogni sentenza di condanna o di proscioglimento (…) inappellabile”).
Orbene, gli Ermellini evidenziavano a tal riguardo che l’interrogativo concerneva la definizione del concetto di “inappellabilità” al quale si riferiscono le disposizioni innanzi richiamate, nel senso che, se si ritenesse che il legislatore abbia voluto assegnare a quell’aggettivo un significato oggettivo (la sentenza di primo grado deve in ogni caso essere inappellabile dall’ufficio del pubblico ministero inteso a mente dell’art. 570, comma 1, c.p.p.), resterebbe preclusa la legittimazione del procuratore generale a proporre ricorso per Cassazione, laddove la sentenza sia appellabile dal procuratore della Repubblica, mentre se, invece, l’appellabilità è interpretata in chiave soggettiva con riferimento alla specifica posizione del soggetto processuale considerato, si dovrebbe riconoscere al procuratore generale, pur non legittimato a proporre appello, la facoltà di presentare il ricorso “ordinario” per cassazione.
Ebbene, per le Sezioni unite, l’esegesi degli artt. 606, comma 2, e 608 c.p.p. non permette di acquisire indicazioni di valenza univoca mentre, al contrario, l’interpretazione logico-sistematica delle predette disposizioni induce fondatamente a ritenere che, nel riconoscere al procuratore generale la legittimazione a proporre il ricorso per Cassazione avverso la “sentenza inappellabile“, il legislatore abbia inteso richiamare i casi nei quali è oggettiva la qualità della inappellabilità della sentenza, ossia quelli in cui il codice di rito esclude che l’ufficio del pubblico ministero, in tutte le sue articolazioni, possa presentare appello contro una sentenza di primo grado, qual può essere il caso della sentenza di condanna (salvo che non abbia modificato il titolo del reato) emessa all’esito di giudizio abbreviato ai sensi dell’art. 443, comma 3, c.p.p.; della sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti (salvo che non si tratti di pronuncia emessa nonostante il dissenso del pubblico ministero) adottata ai sensi dell’art. 448, comma 2, c.p.p.; della sentenza predibattimentale di cui all’art. 469 c.p.p.; della sentenza dibattimentale di condanna emessa in assenza dei presupposti dell’art. 593, comma 1, c.p.p. o in presenza dei requisiti di cui al comma 3 dell’art. 593 c.p.p..
In queste ipotesi è pacifico che il procuratore generale possa proporre contro la sentenza di primo grado ricorso per Cassazione “ordinario“, destinato, in caso di connessione ex art. 12 c.p.p., a convertirsi in appello se tale mezzo di impugnazione sia stato presentato da una delle parti private legittimate; qualora la Corte di Cassazione accolga il ricorso e disponga l’annullamento con rinvio, gli atti saranno trasmessi al giudice che ha emesso la sentenza in primo grado, giusta la previsione dell’art. 623, comma 1, lett. d), c.p.p..
Gli artt. 606, comma 2, e 608 c.p.p. non possono, dunque, per il Supremo Consesso, essere valorizzati in relazione all’ipotesi disciplinata dall’art. 593-bis, comma 2, nella quale non si può sostenere che la sentenza sia oggettivamente inappellabile, ben potendo l’atto di appello essere proposto dal procuratore della Repubblica presso il tribunale: sicché l’esercizio della relativa facoltà da parte del pubblico ministero di primo grado “consuma” il potere di appello e non serve a modificare, in relazione alla “concorrente” posizione del procuratore generale presso la Corte di Appello, la natura del provvedimento.
Invece, l’opposta soluzione esegetica, privilegiata in particolare dalle sentenze delle Sezioni semplici summenzionate, oltre ad apparire incompatibile con la lettera delle norme in esame, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, finirebbe nei suoi risultati pratici per contrastare con le esigenze di semplificazione del sistema sottese alla disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 11 del 2018.
In effetti, consentire che, in presenza dell’esercizio del potere di appellare da parte del procuratore della Repubblica presso il tribunale, il procuratore generale presso la Corte di Appello sia, comunque, legittimato a proporre il ricorso per Cassazione contro la sentenza di primo grado, per la Corte di legittimità, finirebbe per determinare una situazione processuale di difficile gestione, provocata dalla “sovrapposizione” di mezzi di impugnazione eterogenei aventi ad oggetto la medesima decisione, proposti da organi che rappresentano la stessa parte processuale, il che, sempre per la Cassazione, vanificherebbe la finalità perseguita dal D.Lgs. n. 11 del 2018, che è quella di deflazionare il lavoro del giudice di appello attraverso un razionale coordinamento delle iniziative degli uffici di procura di primo e di secondo grado.
In tale contesto, rilevavano sempre le Sezioni unite nella pronuncia in esame, non va poi trascurato che, tanto nel caso di sentenza oggettivamente cumulativa, avente ad oggetto più capi di imputazione tra loro connessi, che sia oggetto di rimedi impugnatori eterogenei, quanto nel caso di sentenza con un unico capo d’imputazione (v. Sez. 4, n. 18656 del 27/02/2018), l’applicazione dell’istituto della conversione del ricorso in appello, regolato dall’art. 580 c.p.p., frustrerebbe gli scopi della innovazione introdotta con la riforma del 2018 poiché, operandosi in tal guisa, si realizzerebbe l’irragionevole effetto di “alimentare” quel fenomeno di duplicazione di atti di impugnazioni omogenei provenienti da articolazioni diverse della stessa parte pubblica, neutralizzando il “meccanismo” processuale fondato sul coordinamento dettato degli artt. 593-bis, comma 2, c.p.p. e 166-bis disp. att. cod. proc. pen., con una sostanziale “restituzione” al procuratore generale di quella legittimazione ad appellare le sentenze di primo grado che la novella aveva inteso trasformare in meramente “sussidiaria” e “condizionata“.
Per dovere di completezza era infine sottolineato che l’opzione ermeneutica privilegiata nella decisione in commento, per le Sezioni unite, solo in apparenza si pone in contrasto con il principio di diritto di recente enunciato sempre da queste Sezioni, secondo il quale la sentenza di condanna che abbia omesso di applicare una pena accessoria è ricorribile per Cassazione per violazione di legge da parte sia del procuratore della Repubblica che del procuratore generale a norma dell’art. 608 c.p.p. (Sez. U, n. 47502 del 15/12/2022), dal momento che tale pronuncia riguardava il caso di una impugnazione presentata avverso una sentenza di condanna, emessa all’esito di giudizio dibattimentale, che non aveva modificato il titolo di reato, la quale non aveva escluso la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale e non aveva stabilito una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato, trattandosi, dunque, di una sentenza di primo grado oggettivamente inappellabile ai sensi dell’art. 593, comma 1, c.p.p., impugnata dal procuratore generale ai sensi dell’art. 608 c.p.p., per la quale non si poneva il problema di un possibile concorso di atti di appello proposti sia dal pubblico ministero di primo grado sia da quello di secondo grado.
Le Sezioni unite, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, formulavano i seguenti principi di diritto: “La legittimazione del procuratore generale a proporre appello avverso le sentenze di primo grado a seguito dell’acquiescenza del procuratore della Repubblica consegue alle intese o alle altre forme di coordinamento richieste dall’art. 166-bis disp. att. c.p.p. che impongono al procuratore generale di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni del procuratore della Repubblica in merito all’impugnazione della sentenza”; “L’acquiescenza del procuratore della Repubblica al provvedimento (art. 593-bis, comma 2, c.p.p.) non è riferibile anche al pubblico ministero che abbia presentato le conclusioni nel giudizio di primo grado”; “In assenza delle condizioni per presentare appello ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., il procuratore generale non è legittimato a proporre ricorso immediato per cassazione ex art. 569 c.p.p. né ricorso ordinario ai sensi degli artt. 606, comma 2, e 608 c.p.p.”.

4. Conclusioni


La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito cosa comporta, in materia di impugnazioni, l’acquiescenza del procuratore della Repubblica.
In assenza di un’apposita disciplina normativa che contempli siffatta eventualità, si afferma difatti in tale pronuncia, come appena visto, da un lato, che la legittimazione del procuratore generale a proporre appello avverso le sentenze di primo grado a seguito dell’acquiescenza del procuratore della Repubblica consegue alle intese o alle altre forme di coordinamento richieste dall’art. 166-bis disp. att. c.p.p. che impongono al procuratore generale di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni del procuratore della Repubblica in merito all’impugnazione della sentenza, dall’altro, che l’acquiescenza del procuratore della Repubblica al provvedimento (art. 593-bis, comma 2, c.p.p.) non è riferibile anche al pubblico ministero che abbia presentato le conclusioni nel giudizio di primo grado, rilevando inoltre al contempo che, in assenza delle condizioni per presentare appello ai sensi dell’art. 593-bis, comma 2, c.p.p., il procuratore generale non è legittimato a proporre ricorso immediato per cassazione ex art. 569 c.p.p. né ricorso ordinario ai sensi degli artt. 606, comma 2, e 608 c.p.p..
Siffatti principi di diritto, pertanto, devono essere presi nella dovuta considerazione, ove si verifichino situazioni processuali di questo genere.
Ad ogni modo il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché fa chiarezza su siffatta tematica giuridica sotto il profilo giurisprudenziale, non può che essere che positivo.

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