Imprese funebri, trasporto e interposizione di manodopera prima e dopo la riforma “Biagi” del lavoro.

Redazione 15/12/03
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di Roberto Gandiglio

Definizione di impresa funebre
L’attività funebre non ha, nel nostro paese, una definizione normativamente data non essendo la materia disciplinata se non a livello igienico – sanitario (D.P.R. n. 285 del 1990 recante Regolamento di Polizia Mortuaria). Per definirla si dovrà pertanto ricorrere a norme di carattere generale e ai dati dell’esperienza sensibile. Innanzitutto l’articolo 2082 del codice civile definisce l’imprenditore come “ … chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. L’impresa funebre è dunque l’impresa che fornisce professionalmente e in forma organizzata una attività prevalentemente ma non esclusivamente di servizio. Il core-businnes è infatti rappresentato dall’organizzazione del servizio funebre finalizzato alla sepoltura del cadavere. Per raggiungere l’obiettivo sono necessarie attività di genere diverso. Innanzitutto avremo attività di produzione di beni (feretri, casse di zinco, imbottiture, ecc.), poi attività di vendita di beni (feretri, imbottitura, zinchi, arredi funebri, fiori e corone, ecc.), avremo noleggi di attrezzature (tavolini per le firme, arredi per l’allestimento della camera ardente, ecc.) e noleggi di mezzi (autofunebre). Fondamentale è, poi, l’attività di intermediazione d’affari. Quando si verifica un decesso, i familiari del defunto, o altro conoscente, si rivolgono di norma ad un’impresa incaricandola di agire per loro conto al fine di ottenere dalle pubbliche amministrazioni coinvolte tutte le autorizzazioni di legge necessarie e di organizzare il servizio finalizzato, come detto, alla sepoltura del cadavere secondo le scelte della famiglia stessa. Ciò comporta contatti non solo con pubbliche amministrazioni, ma anche con i ministri del culto per il rito funebre religioso, e con altre imprese per forniture di beni (es. fiori) o servizi (trasporto) che esse non forniscono direttamente. Per svolgere questa attività per conto del richiedente è necessaria, per dottrina e giurisprudenza ormai consolidata, la licenza di pubblica sicurezza per agenzia d’affari di cui all’articolo 115 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza approvato con R.D. n. 773 del 18 giugno 1931. Come si vede l’attività cosiddetta “funebre” è composta da molteplici voci profondamente differenziate tra loro: comporre e vendere corone floreali è certamente attività economica diversa dal fornire manodopera per il trasporto della bara o dallo svolgere presso gli uffici di stato civile dei comuni attività di intermediazione per conto della famiglia del defunto. E’ così del tutto evidente che le imprese di onoranze funebri forniscano solamente alcuni di questi servizi e di queste prestazioni ricorrendo, anch’esse, al libero mercato per la fornitura di ciò che manca al completamento del servizio funebre da organizzare. La funzione principale dell’impresa di onoranze funebri diventa, così, il coordinamento del servizio per la cui definizione concorrono varie imprese.
Se così è, va sicuramente registrata la deficienza di una connotazione precisa e puntuale dell’impresa di onoranza funebri che comporta, oltretutto, conseguenze anche sul piano del trattamento fiscale, delle assicurazioni sociali obbligatorie e dei CCNL da applicarsi: definire un’impresa funebre quale impresa svolgente attività industriale piuttosto che artigianale o commerciale è infatti foriero di conseguenze diverse. Un intervento normativo, in materia, è pertanto auspicabile.
Dal punto di vista delle autorizzazioni amministrative necessarie per lo svolgimento dell’attività di onoranza funebre, si è già detto della licenza di agenzia d’affari necessaria per legittimare l’attività di intermediazione dell’impresa per conto della famiglia del defunto. Per la vendita di feretri, fiori e arredi funebri vari sono invece necessari i requisiti previsti per il settore merceologico non alimentare dal d.lgs n. 114 del 31 marzo 1998 (cd. decreto Bersani) sostitutivi dell’ex licenza commerciale. Ai sensi del già citato regolamento di polizia mortuaria (artt. 20 e 21 D.P.R. n. 285/90) è poi necessario, per la sosta di autofunebri, la dichiarazione di idoneità della rimessa e, per le singole autofunebri, la certificazione di idoneità sanitaria delle stesse. Sono entrambi atti di competenza dell’autorità sanitaria. Restano, poi, tutte le prescrizioni generali che interessano le imprese, quali l’iscrizione alla camera di commercio, industria, agricoltura e artigianato nel repertorio economico amministrativo e nel registro delle imprese, la titolarità della partita IVA, la regolare tenuta delle scritture contabili, ecc.
Come si vede, anche dal punto amministrativo la situazione è complessa. Se è difficile ipotizzare l’esistenza di un’impresa di onoranze funebri senza almeno la licenza di pubblica sicurezza e i requisiti che sostituiscono l’ex licenza di commercio, le restanti autorizzazioni necessarie dipenderanno dall’effettiva attività svolta.

Il trasporto funebre
Non può invece essere classificata come attività di onoranza funebre la semplice attività di “trasporto” della salma. Siamo piuttosto in presenza di un’attività di noleggio di soli mezzi (autofunebre) oppure di solo personale (necrofori) oppure di entrambi (autofunebre e necrofori).
Per svolgere l’attività di trasporto di un cadavere, inteso in senso non necessariamente coordinato con l’onoranza funebre, occorrono le già citate registrazioni presso le camere di commercio, industria, agricoltura e artigianato, e il mezzo riconosciuto idoneo dall’autorità sanitaria da depositarsi in una idonea rimessa. Tali accertamenti di idoneità sono disciplinati dagli articoli 20 e 21 del D.P.R. n. 285/90 che dispongono:
Art. 20: “I carri destinati al trasporto dei cadaveri su strada debbono essere internamente rivestiti di lamiera metallica o di altro materiale impermeabile facilmente lavabile o disinfettabile.
Detti carri possono essere posti in servizio da parte dei Comuni e dei privati solo dopo che siano stati riconosciuti idonei dalle Unità Sanitarie Locali competenti, che devono controllarne almeno una volta all’anno lo stato di manutenzione.
Un apposito registro, dal quale risulti la dichiarazione di idoneità, deve essere conservato sul carro in ogni suo trasferimento per essere, a richiesta, esibito agli organi di vigilanza.”
Art. 21: “Le rimesse di carri funebri devono essere ubicate in località individuate con provvedimento del Sindaco in osservanza delle norme dei regolamenti locali.
Esse debbono essere provviste delle attrezzature e dei mezzi per la pulizia e la disinfezione dei carri stessi.
Salva l’osservanza delle disposizioni di competenza dell’autorità di pubblica sicurezza e del servizio antincendi, l’idoneità dei locali adibiti a rimessa di carri funebri e delle relative attrezzature è accertata dal coordinatore sanitario dell’Unità Sanitaria Locale competente.”
Una qualunque impresa ai sensi dell’articolo 2082 c.c. può dunque con un autofunebre e un autista munito di patente trasportare per conto di una impresa di onoranza funebre un cadavere. D’altronde l’articolo 24 del DPR 285/90 dispone che “ l’incaricato al trasporto di cadavere deve essere munito di apposita autorizzazione del sindaco…” e che in base alla circolare interpretativa n. 24/93 del Ministero della Salute “per incaricato del trasporto della salma … è da intendersi il dipendente o persona fisica o ditta a ciò commissionata da impresa funebre in possesso congiuntamente delle autorizzazioni al commercio e di pubblica sicurezza…”.
Ma questo intreccio di imprese diverse che partecipano al servizio funebre ognuna per una parte del processo complessivo è regolare in un ordinamento che vieta gli appalti fittizi nella forma della cosiddetta interposizione illecita di manodopera? E soprattutto, dopo la riforma del lavoro operata con il d.lgs 276 del 10 settembre 2003 recante “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003, n.30” attuativo della cd. riforma Biagi, si può ancora parlare di interposizione illecita di manodopera?

Il divieto di intermediazione e interposizione di manodopera ai sensi della legge n. 1369 del 23 ottobre 1960
Per anni per i rapporti tra impresa di onoranza funebre e impresa esecutrice del trasporto vi è stato il dubbio se questi potessero essere ascritti ad un regolare appalto di servizi regolato dal codice civile oppure se rischiassero di integrare le fattispecie di appalto fittizio e pertanto illecito di cui alla legge n. 1369 del 23 ottobre 1960. Il problema investiva innanzitutto l’impresa di onoranza funebre che, ricevuto l’incarico dalla famiglia del defunto per l’esecuzione del servizio, si rivolgeva ad un’altra impresa che le forniva i necrofori necessari per la movimentazione della bara e magari l’autofunebre.
Così recitava l’articolo 1 della legge n. 1369 del 23 ottobre 1960 in ambito di divieto di intermediazione e di interposizione nei rapporti di lavoro: “1. E’ vietato all’imprenditore affidare in appalto, in subappalto o in qualunque altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono.
2. E’ altresì vietato all’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti, terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari.
3. E’ considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante.
4. Le disposizioni dei precedenti commi si applicano altresì alle aziende dello Stato ed agli Enti pubblici, anche se gestiti in forma autonoma, salvo quanto previsto dal successivo articolo 8.
5. I prestatori di lavoro, occupati, in violazione dei divieti posti dal presente articolo, sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni”.
Ma eravamo sicuri che l’appalto di servizio di movimentazione manuale del feretro integrasse la fattispecie di cui all’articolo 1, comma 1 e fosse pertanto illegittima? Si poteva infatti sostenere che l’attività di movimentazione manuale del feretro non potesse essere separata da un unitario concetto di servizio funebre. La fornitura dei necrofori da parte di altra impresa sarebbe così risultata essere un appalto di mera manodopera vietato dall’articolo 1, legge n. 1369/60. In realtà per sostenere questa tesi ci si basava su un presupposto che non ha mai trovato nessuna corrispondenza normativa: quello del servizio funebre inteso come concetto unitario; si trattava e si tratta di una forzatura concettuale posto che l’impresa funebre e quindi anche il servizio funebre non hanno, come si è visto, una definizione normativa. D’altronde la legge 1369 del 1960, come sostenuto nel celebre manuale di diritto del lavoro Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, “non esclude alcun vero e proprio appalto o subappalto: tale, infatti, non è un contratto col quale uno commette ad un altro la sola esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita da lui stesso e non, come dovrebbe ai sensi di codice, il compimento di un’opera o di un servizio con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio (ex articolo 1655 c.c.)”. Il problema, dunque, sembrava non potere essere definito aprioristicamente. L’appalto di necroforaggio, come l’appalto di facchinaggio, poteva rientrare – ma non necessariamente – nei casi vietati di appalto di manodopera. Si doveva dunque valutare caso per caso. Ma il criterio per distinguere un appalto lecito da uno illecito non era connesso al concetto di servizio funebre e la sua presunta stretta connessione con il trasporto, ma era invece legato alla presenza di un reale appalto dove l’appaltatore risultava dotato di sufficiente autonomia organizzativa e gestionale o se invece si ravvisasse la presenza di quegli indici elaborati dalla giurisprudenza che evidenziavano nell’appaltatore un imprenditore non genuino (sottoposizione del personale alla direzione gerarchica dell’appaltante, autorizzazione e coordinamento di quest’ultimo in materia di ferie permessi e assenze, omogeneità dell’orario lavorativo e intercambiabilità di ruolo con altri dipendenti dell’appaltante – Pret. Milano 8/4/98, est. Peragallo, in D&L 1998, 706). La presenza degli indici in discorso consentiva di definire un appalto come genuino o fittizio. Se l’impresa di trasporto operava con una propria struttura organizzata e correndo in proprio il rischio d’impresa si era in presenza di un appalto lecito. Se si riusciva a dimostrare la presenza degli indici giurisprudenziali citati si poteva dire, anche per il caso in esame, di essere in presenza di una fattispecie vietata ex articolo 1 della legge 1369/60, comportando ciò la nullità del contratto e la dipendenza dei lavoratori “forniti” direttamente in capo all’imprenditore che ne aveva utilizzato le prestazioni lavorative. Entriamo, a questo punto, nel dettaglio dell’elaborazione giurisprudenziale sugli indici rivelatori dell’appalto non genuino. Così la Cassazione: “ai fini della distinzione tra appalto lecito e interposizione vietata dall’art. 1 l. n. 1369 del 1960, occorre in concreto accertare se oggetto del contratto di appalto sia un’attività in grado di fornire un autonomo risultato produttivo, poiché solo in questo caso risulta possibile configurare la necessaria organizzazione e l’autonoma gestione dell’appaltatore, condizioni della liceità dell’appalto. E’ pertanto necessario individuare, anche mediante esame complessivo delle clausole, la comune intenzione delle parti, con particolare riguardo all’utilità finale connessa ai servizi appaltati, per poi verificare se nella fase di svolgimento del rapporto l’originaria convenzione sia stata modificata, e in quale misura” (Cass. Civ., sez. lav., 30 maggio 2001, n. 7362 in Riv. It. Dir. lav. 2002, II, 36). Ancora: “ai fini della configurabilità del divieto di appalto di manodopera di cui all’art. 1 legge n. 1369 del 1960, al di fuori delle ipotesi presuntive previste dal comma 3 di tale articolo, occorre in concreto accertare la qualità, le caratteristiche e la specializzazione dell’impresa’ dovendosi verificare, in particolare, anche in caso di attività esplicate all’interno dell’azienda appaltante, se il presunto appaltatore abbia dato vita, in tale ambito, ad un’organizzazione lavorativa autonoma ed abbia assunto, con la gestione dell’esecuzione e la responsabilità del risultato, il rischio d’impresa relativo al servizio fornito, tenuto conto che un’autonomia gestionale, relativa alla conduzione aziendale, alla direzione del personale, alla scelta delle modalità e dei tempi di lavoro, è configurabile anche se le caratteristiche del servizio affidato siano determinate dal committente.” (Cass. Civ. sez. lav., 12 dicembre 2001, n. 15665 in Giust. Civ. Mass. 2001, 2135). In materia di appalto di facchinaggio è poi interessante quanto sostenuto sempre dalla Cassazione “… sono leciti gli appalti di opere e servizi che, pur espletabili con mere prestazioni di manodopera, costituiscano un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza diretti interventi dispositivi e di controllo dell’appaltatore sulle persone dipendenti dall’altro soggetto” (Cass. Civ. sez. lav., 25 giugno 2001, n. 8643 in Giust. Civ. Mass. 2001, 1255). Chiara è anche la già menzionata pronuncia della Pretura di Milano: “… sono inoltre indici rivelatori di un appalto di mere prestazioni di lavoro: la sottoposizione del detto personale alla direzione gerarchica dell’appaltante; l’autorizzazione e il coordinamento di quest’ultimo in materia di ferie, permessi e assenze; l’omogeneità dell’orario lavorativo e l’intercambiabilità di ruoli con altri dipendenti dell’appaltante” (Pret. Milano 8 aprile 1998, in D&L 1998, 706).
Più complesso era invece il caso dell’appaltatore che utilizzasse macchine e/o attrezzature del committente (es. autofunebre – macchine per la movimentazione di feretri) fornendo magari la prestazione lavorativa dell’autista. In tal caso infatti sembrava operare la presunzione di cui all’articolo 1, comma 3 della legge 1369/60 che reputava illecito l’appalto qualora l’appaltatore “impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante”. Eravamo qui in presenza di un elemento presuntivo a favore della non genuinità dell’appalto di servizi che andava valutato, in ogni caso, insieme agli altri indici sopra citati. Anche in tal caso, però, la giurisprudenza si era recentemente espressa mitigando notevolmente l’apparente rigore del testo normativo: “Ai fini della configurabilità dell’infrazione al divieto di appalto di manodopera di cui all’art. 1 l. 23 ottobre 1960 n. 1369, ove sia accertata la autonoma organizzazione dell’impresa appaltatrice, tipica di una impresa vera e propria, non sono applicabili gli elementi presuntivi (impiego da parte dell’appaltatore di capitale, macchine ed attrezzature forniti dall’appaltante) di cui al comma 3 dello stesso articolo.” (Cass. Civ. sez. lav., 19 aprile 2001, n. 5737 in Giust. Civ. Mass. 2001, 824). La giurisprudenza sembrava dunque orientata senza troppe oscillazioni nel ritenere necessario, ai fini dell’operatività del divieto di interposizione di manodopera, un esame caso per caso della genuinità dell’appaltatore da effettuarsi utilizzando gli indici da essa stessa elaborati.

La riforma “Biagi” del lavoro e la somministrazione di manodopera
Come si è visto, già la giurisprudenza aveva fortemente ridimensionato gli ambiti del divieto di interposizione e intermediazione di manodopera interpretando negli anni la legge n. 1369/60. La legge n. 196 del 24 giugno 1997 (cd. Legge Treu), liberalizzando parzialmente il mercato del lavoro, aveva fatto salva la legge del 1960 introducendo il lavoro interinale che comunque rappresentava un’eccezione e come tale era ammessa solamente in presenza di determinati requisiti per l’agenzia che forniva il lavoratore e per l’impresa utilizzatrice. Ma la stoccata finale nei confronti della cosiddetta legge sul “capolarato” viene dalla legge 14 febbraio 2003, n. 30 recante “Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro” e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 Febbraio 2003. Tale legge delega prevede all’articolo 1, comma 2, lettera m) la “abrogazione della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, e sua sostituzione con una nuova disciplina…”. La nuova disciplina doveva essere basata su alcuni criteri individuati dalla legge delega tra i quali l’autorizzazione della somministrazione di manodopera solo da parte di determinati soggetti; la chiarificazione dei criteri di distinzione tra appalto e interposizione, ridefinendo contestualmente i casi di comando e distacco, nonché di interposizione illecita o laddove manchi una ragione tecnica, organizzativa o produttiva ovvero si verifichi o possa verificarsi la lesione di diritti inderogabili di legge o di contratto collettivo applicato al prestatore di lavoro; utilizzazione di meccanismo certificatorio previsto dalla stessa legge ai fini della distinzione concreta tra interposizione illecita e appalto genuino, sulla base di indici e codici di comportamento elaborati in sede amministrativa che tengano conto della rigorosa verifica della reale organizzazione dei mezzi e dell’assunzione effettiva del rischio di impresa da parte dell’appaltatore.
Come si vede, la cosiddetta legge Biagi fa propria la metodologia della giurisprudenza nel richiedere l’elaborazione di indici che garantiscano la genuinità dell’appaltatore.
Alla legge delega si è dato attuazione con il d.lgs 10 settembre 2003, n. 276
recante “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 235 del 9 ottobre 2003 ed in vigore dal 24 ottobre 2003. Considerato che l’articolo 85, comma 1, lettera c) del d.lgs 276 del 2003 abroga l’intera legge 1369 del 1960, attuando così la delega parlamentare, si deve ora esaminare come la riforma del diritto del lavoro, che inspiegabilmente e salvo qualche eccezione non si applica alle pubbliche amministrazioni (articolo 1, comma 2), modifichi il regime della somministrazione del lavoro, come incida sugli appalti di servizi di manodopera e come tutto ciò potrà riflettersi sul sistema del trasporto funebre sopra esaminato.
Intanto, l’articolo 2, comma 1, lettera a) definisce la “somministrazione di lavoro” come “la fornitura professionale di manodopera, a tempo indeterminato o a termine, ai sensi dell’articolo 20”. La somministrazione viene dunque regolamentata e passa attraverso un preciso regime autorizzatorio. Le “Agenzie per il Lavoro” che intenderanno somministrare forza lavoro dovranno iscriversi in un’apposita sezione dell’albo da istituirsi presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (articolo 4). Per l’iscrizione sono richiesti alcuni requisiti giuridici e finanziari elencati all’articolo 5.
E’ poi dall’articolo 20 al 28 che il decreto legislativo scende nel dettaglio della somministrazione di lavoro definendone le condizioni di liceità, la forma del contratto, la disciplina del rapporto di lavoro, la tutela del prestatore di lavoro, l’esercizio del potere disciplinare e il regime della solidarietà, i diritti sindacali e le garanzie collettive, le norme previdenziali, la responsabilità civile, la somministrazione irregolare e quella fraudolenta.
Applicando la riforma al caso di specie si potrà essere in presenza di un contratto stipulato tra un’impresa di onoranze funebri e un’Agenzia del Lavoro abilitata alla vendita di manodopera che potrà fornire necrofori per il trasporto funebre.
La somministrazione potrà essere a tempo indeterminato o a termine. Nel primo caso essa è ammessa “esclusivamente” per una serie di casi tra i quali, va detto, non figura il trasporto funebre. Figurano i lavori di “facchinaggio” così come “i servizi di trasporto di persone, …, merci” (articolo 20, comma 3, lettere a) e f)). Figura anche una clausola finale che lascia aperto a “ tutti gli altri casi previsti dai contratti collettivi di lavoro nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative”. Considerato pertanto che l’utilizzo dell’espressione “esclusivamente” non sembra lasciare spazio ad interpretazioni estensive o analogiche, sembra che l’unica possibilità per utilizzare contratti di somministrazione a tempo indeterminato nel settore in esame sia quello di prevederla nei contratti collettivi nazionali o decentrati (anche se è ipotizzabile una certa resistenza da parte sindacale).
La somministrazione di lavoro a tempo determinato (articolo 20, comma 4), invece, e’ ammessa a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore. La individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato e’ affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro. Questa seconda strada, pertanto, è ammessa dimostrandone le ragioni alla base. La norma non sembra particolarmente restrittiva per cui è prevedibile una sua utilizzabilità anche per il settore funerario.
L’articolo 20, comma 5 del decreto legislativo elenca i casi in cui è vietato l’utilizzo del contratto di somministrazione: sostituzione di lavoratori in sciopero; salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unita’ produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione ovvero presso unita’ produttive nelle quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione; da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 in materia di sicurezza sul lavoro.
Per ciò che concerne il trattamento dei necrofori che dipendono dall’agenzia di lavoro, va detto che avranno diritto al trattamento economico e normativo previsto per i dipendenti di pari livello dell’impresa di onoranze funebri organizzatrice del servizio e pertanto utilizzatrice dei necrofori. Potranno invece applicarsi trattamenti retributivi inferiori ai minimi fissati dal CCNL, detraendo l’eventuale indennità di mobilità, di disoccupazione o altro sussidio percepito, in caso di specifici programmi di formazione, inserimento e riqualificazione professionale erogati a favore di lavoratori svantaggiati, in concorso con le Regioni, dai centri per l’impiego ed enti locali. Si tratta di misure di incentivazione da realizzarsi in raccordo tra pubblico e privato ai sensi dell’articolo 13 del decreto legislativo.
Proseguiamo con una sorta di carrellata sull’articolato soffermandoci sui punti che sembrano di maggior rilievo.
L’articolo 21 determina la forma (scritta a pena di nullità) del contratto ed il contenuto obbligatorio dello stesso.
L’articolo 22 reca la disciplina del rapporto di lavoro. A tal proposito viene precisato che in caso di somministrazione a tempo indeterminato i rapporti di lavoro tra somministratore e prestatori di lavoro sono soggetti alla disciplina generale dei rapporti di lavoro di cui al codice civile e alle leggi speciali.
In caso di somministrazione a tempo determinato, invece, il rapporto di lavoro tra somministratore e prestatore di lavoro sarà soggetto alla disciplina di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (recante “Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES”), per quanto compatibile, e con esclusione delle disposizioni di cui all’articolo 5, commi 3 e 4. Tali norme sono quelle secondo le quali qualora il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera invece a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.
Il termine inizialmente posto al contratto di lavoro – recita il decreto attuativo della riforma Biagi – potrà in ogni caso essere prorogato, con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la durata prevista dal contratto collettivo applicato dal somministratore.
Si dice ancora che, in caso di contratto di somministrazione, il prestatore di lavoro non e’ computato nell’organico dell’utilizzatore ai fini della applicazione di normative di legge o di contratto collettivo, fatta eccezione per quelle relative alla materia dell’igiene e della sicurezza sul lavoro.
L’articolo 23 concerne invece la tutela del prestatore di lavoro e l’esercizio del potere disciplinare e del regime di solidarietà.
Si dice espressamente che l’utilizzatore e’ obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali.
I lavoratori dipendenti dal somministratore hanno altresì diritto a fruire di tutti i servizi sociali e assistenziali di cui godono i dipendenti dell’utilizzatore addetti alla stessa unita’ produttiva, esclusi quelli il cui godimento sia condizionato alla iscrizione ad associazioni o società cooperative o al conseguimento di una determinata anzianità di servizio.
Per ciò che concerne la sicurezza sul lavoro, di grande importanza in ambito di servizi di necroforaggio, il somministratore informa i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive in generale e li forma e addestra all’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento della attività lavorativa per la quale essi vengono assunti in conformità alle disposizioni recate dal d.lgs n. 626 del 1994.
Il contratto di somministrazione può prevedere che tale obbligo sia adempiuto dall’utilizzatore; in tale caso ne va fatta indicazione nel contratto con il lavoratore. Considerata la specificità della materia sembra consigliabile questa seconda strada.
Nel caso in cui le mansioni cui e’ adibito il prestatore di lavoro richiedano una sorveglianza medica speciale o comportino rischi specifici (si pensi per i necrofori al rischio da movimentazione manuale dei carichi), l’utilizzatore – recita l’articolo in esame – ne informa il lavoratore. L’utilizzatore osserva altresì, nei confronti del medesimo prestatore, tutti gli obblighi di protezione previsti nei confronti dei propri dipendenti ed e’ responsabile per la violazione degli obblighi di sicurezza individuati dalla legge e dai contratti collettivi.
Ci sembra a tal proposito di individuare una carenza nella norma. Considerato infatti che la movimentazione manuale di carichi (feretri) richiede la sorveglianza sanitaria di cui al d.lgs n. 626/94, non è chiaro se questa debba essere a carico dell’utilizzatore o del somministratore posto che la norma si limita a dire che “l’utilizzatore ne informa il lavoratore”. La soluzione al problema può essere fornita in riferimento al fatto che “l’utilizzatore osserva altresì, nei confronti del medesimo prestatore, tutti gli obblighi di protezione previsti nei confronti dei propri dipendenti ed e’ responsabile per la violazione degli obblighi di sicurezza individuati dalla legge e dai contratti collettivi”. Sembra dunque che l’onere possa ricadere sull’impresa utilizzatrice rientrando negli “oneri di protezione previsti nei confronti dei propri dipendenti”.
Ai fini dell’esercizio del potere disciplinare, che e’ riservato al somministratore, l’utilizzatore comunica al somministratore gli elementi che formeranno oggetto della contestazione ai sensi dell’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori).
In caso di somministrazione di lavoro a tempo determinato, si dice poi che e’ nulla ogni clausola diretta a limitare, anche indirettamente, la facoltà dell’utilizzatore di assumere il lavoratore al termine del contratto di somministrazione.
Proseguendo con l’esame dell’articolato si segnala che l’articolo 24 si occupa dei diritti sindacali e delle garanzie collettive mentre l’articolo 25 reca in rubrica “norme previdenziali”.
In ambito di responsabilità civile l’articolo 28 dispone che dei danni recati a terzi dal prestatore di lavoro nell’esercizio delle sue mansioni ne risponde l’utilizzatore.
L’articolo 27 concerne la somministrazione irregolare individuata in quella che avviene al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli articoli 20 e 21, comma 1, lettere a), b), c), d) ed e). In tal caso il lavoratore può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’articolo 414 del codice di procedura civile, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore, con effetto dall’inizio della somministrazione. In tal caso tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione.
Ai fini della valutazione delle ragioni di cui all’articolo 20, commi 3 e 4, che consentono la somministrazione di lavoro, il controllo giudiziale e’ limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento della esistenza delle ragioni che la giustificano e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano all’utilizzatore.
Viene infine prevista, all’articolo 28, un’ammenda di 20 euro per ciascun lavoratore coinvolto e ciascun giorno di somministrazione, a carico di somministratore e utilizzatore, ferme restando le sanzioni di cui all’articolo 18, quando la somministrazione di lavoro e’ posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo.

La riforma “Biagi” e gli appalti di servizi
Esaminate le norme della nuova disciplina sulla somministrazione di manodopera che potranno interessare il sistema impresa di onoranza funebre organizzatrice del servizio – impresa fornitrice di necrofori e/o autofunebri, resta da verificare se il d.lgs 276/03 rechi novità in ambito di appalto di servizio applicato al trasporto funebre.
In merito si deve fare riferimento all’articolo 29 del decreto legislativo in esame il quale dispone che “ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”. Prosegue poi la norma sostenendo che “in caso di appalto di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro e’ obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti.”
La nuova norma supera pertanto il precedente sistema di cui alla legge n. 1369 del 1960 sopra esaminato chiarendo il tratto distintivo tra l’appalto di servizi e la somministrazione di manodopera. E’ l’organizzazione dei mezzi e l’assunzione del rischio d’impresa a carico dell’appaltatore che determina un appalto genuino di servizi.
Ancora diverso è il caso del “distacco” regolato dall’articolo 30. Si dice che “l’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. In caso di distacco il datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore”.
Importante è poi l’articolo 84 del decreto in esame che reca in rubrica “Interposizione illecita e appalto genuino”.
Si dispone che “Le procedure di certificazione di cui al capo primo possono essere utilizzate, sia in sede di stipulazione di appalto di cui all’articolo 1655 del codice civile sia nelle fasi di attuazione del relativo programma negoziale, anche ai fini della distinzione concreta tra somministrazione di lavoro e appalto ai sensi delle disposizioni di cui al Titolo III del presente decreto legislativo. Entro sei mesi dalla entrata in vigore del presente decreto, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali adotta con proprio decreto codici di buone pratiche e indici presuntivi in materia di interposizione illecita e appalto genuino, che tengano conto della rigorosa verifica della reale organizzazione dei mezzi e della assunzione effettiva del rischio tipico di impresa da parte dell’appaltatore. Tali codici e indici presuntivi recepiscono, ove esistano, le indicazioni contenute negli accordi interconfederali o di categoria stipulati da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.”
Vi è dunque un rimando ad una sorta di codificazione di codici e indici presuntivi da utilizzarsi per distinguere un appalto genuino di servizi da un appalto fittizio e pertanto per fare emergere le interposizioni illecite di manodopera. E’ facile presumere che nella redazione di tali indici si attingerà copiosamente alla sopra riportata elaborazione giurisprudenziale operata in riferimento alla legge 1369 del 1960 oltre che, come si è visto, alle indicazioni che perverranno dalle organizzazioni dei datori e dei prestatori di lavoro.
Da chiarire resta invece il meccanismo delle “certificazioni” volontarie, di cui agli articoli 75 e seguenti, da utilizzarsi per distinguere una “somministrazione di lavoro” da un “appalto di manodopera” da parte di organi appositamente abilitati a cui le parti del contratto possono rivolgersi ai fini di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione contrattuale. Se ne valuterà la materiale attuazione.
Per ciò che concerne le conseguenze dell’emergere, in regime del vecchio sistema normativo, di un appalto non genuino, va detto che la giurisprudenza sanciva la nullità del contratto per contrasto con norme imperative ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile. La richiesta di imputazione del rapporto di lavoro al beneficiario, da ritenersi perfettamente valido, poteva essere fatta valere solo dal lavoratore mentre la nullità dell’appalto poteva essere fatta valere d’ufficio ovvero da chiunque ne avesse interesse (Cass., S.U., 19 ottobre 1990, n. 10183, FI, 1992, 523). Non sembra che l’orientamento in tema di nullità del contratto debba mutare con l’entrata in vigore del decreto attuativo della riforma Biagi. Per ciò che concerne l’imputazione del rapporto del lavoro in capo direttamente all’utilizzatore essa, come visto, è prevista in caso di somministrazione irregolare (articolo 27, comma 1) mentre nulla si dice per l’appalto non genuino di servizio.
Si tenga anche presente che l’articolo 18 del d.lgs in esame prevede una serie di fattispecie penalmente sanzionate e classificate come reati contravvenzionali (pertanto puniti con la pena dell’arresto e/o dell’ammenda). Sono previsti anche illeciti amministrativi puniti con sanzione amministrativa pecuniaria. Per ciò che concerne il contenzioso pendente in materia di intermediazione e interposizione nei rapporti di lavoro l’articolo 18, comma 6 prevede l’emanazione di un decreto da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per definire criteri interpretativi atti alla soluzione degli stessi.
L’articolo 19, in ultimo, prevede alcune ulteriori fattispecie a cui si applicano sanzioni amministrative.

Redazione

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