Il vago tentativo di ricerca del senso logico del tfr

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Per trattamento di fine rapporto si intende quella somma di denaro che spetta, a prescindere dalle ragioni di chiusura della relazione di subordinazione, a tutti i lavoratori dipendenti. La sua disciplina è rinvenibile all’art. 2120 del Codice Civile e il suo ammontare si calcola sulla base della retribuzione percepita nel corso del periodo lavorativo, tenuto conto della durata dello stesso. Concretamente il tfr spetta all’incirca nella misura di uno stipendio mensile all’anno. Più precisamente, per ogni anno di prestazione si divide l’intera paga annuale per 13,5. Questa “liquidazione finale” o “buonuscita”  si compone di accantonamenti regolari effettuati dal datore di lavoro. Il lavoratore subordinato, per di più, ha la possibilità di scegliere se mantenere il tfr in azienda (ed avere così il pagamento a chiusura del rapporto) oppure versarlo in un fondo pensione, o ancora ottenerlo anticipatamente in busta paga (novità introdotta lo scorso anno). Il precetto di riferimento dell’istituto resta  la Legge n. 297 del 29 maggio 1982.

 

Sul piano giurisprudenziale, invece, i giudici di legittimità si sono espressi nel 2014 con la sentenza n. 11579 e lo hanno fatto statuendo su un punto differente rispetto a quello che ha rappresentato il leitmotiv, la ragione dominante delle questioni che hanno portato i giudizi vertenti in tema di tfr dinanzi ai magistrati della Suprema Corte. Ai sensi della decisione appena menzionata, il diritto al tfr si configura alla cessazione del rapporto di lavoro e proprio da questa data decorrerebbe il termine di prescrizione.

Come anticipato, invece, la Corte di Cassazione è stata chiamata a rispondere innumerevoli volte in materia di tfr in relazione sempre alle “voci” dello stipendio che andrebbero a formare la retribuzione totale dell’operaio/impiegato.

Alla lettera, la sentenza n. 1211 del 2001 prevede nel calcolo delle spettanze la computabilità del compenso per lavoro straordinario se prestato con soluzione di continuità. Quest’ultima dev’essere ravvisabile nel criterio di regolarità, frequenza e periodicità (altresì in caso di variazioni dell’entità di tempo), restando esclusa dal calcolo solo quella parte del salario corrisposta per attività effettuata in via occasionale, transitoria e saltuaria.

Il principio secondo il quale la determinazione del tfr debba seguire i criteri previsti dall’art. 2120 del codice civile è del tutto inderogabile dalle parti, con la conseguenza che vanno inclusi nella base di calcolo tutti gli emolumenti riferiti ad eventi collegati al rapporto lavorativo o connessi alla particolare organizzazione dell’attività e quindi tutte le voci erogate a titolo di “retribuzione” (o equivalente) che abbiano carattere di controprestazione compensativa, anche se siano in sé disponibili (Cass., n. 4069/2009).

Ma è la pronuncia n. 24657/2008 quella che racchiude più di tutte la ratio legis della norma: il concetto di retribuzione recepito dall’art. 2120 c.c. (ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto) è ispirato al criterio dell’onnicomprensività, nel senso che nel conteggio occorre includere tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono connessi.

 

Ciò premesso, riesce difficile comprendere il senso logico di questa forma di “risparmio” a beneficio del lavoratore subordinato. Un accantonamento costante che il datore di lavoro dovrebbe curare nel rispetto di ogni competenza spettante ai suoi dipendenti. Non solo. Nello specifico, si tratta di somme soggette a moltiplicazione per i coefficienti di rivalutazione delle quote e derivati a partire dall’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati diffuso ogni mese dall’Istat. A prevederlo è sempre l’articolo 2120 del codice civile.

 

Il primo vero motivo che porta a ritenere quantomeno discutibile la fondatezza del tfr si lega alle sue origini. Questo trattamento risulta radicato nel risalente diritto del lavoratore a ricevere un’indennità proporzionata agli anni di servizio svolti. Una peculiarità tutta italiana, nata espressamente come “premio di fedeltà”. Basterebbe questo appunto per intuire il carattere se non altro obsoleto dell’istituto, quanto le sue stesse fondamenta. Una dote che, non a caso, resta a tutt’oggi sconosciuta anche ai paesi più vicini: Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, ecc.. A maggior ragione poi in uno scenario come quello attuale, represso dalla crisi e soffocato dai numeri da capogiro della disoccupazione, volendo parlare di premio di fedeltà sarebbe opportuno attribuirlo all’azienda più che al prestatore d’opera. Se la buonuscita – che storicamente ha sostituito quella che inizialmente si chiamava indennità di anzianità – è un elemento della retribuzione allora dovrebbe essere, al massimo, direttamente ricompresa nella paga mensile e in essa già assorbita o diversamente qualificata.

Il secondo aspetto alquanto controverso si scorge facilmente riflettendo sul fatto che questa “porzione” di retribuzione verrebbe differita con l’obiettivo di affrontare le difficoltà economiche connesse con il venir meno del reddito da lavoro. Al contrario, ci sarebbe da precisare che le vere difficoltà sorgono contemporaneamente per il datore di lavoro e per il lavoratore nel momento in cui quest’ultimo provi a ricevere il trattamento di fine rapporto maturato. Inoltre, per definizione, far fronte ai disagi scaturenti dalla perdita di occupazione è compito degli ammortizzatori sociali previsti dalla legge e dunque, in primis, l’indennità di disoccupazione (naspi). A queste forme di sostentamento si aggiungono le misure assistenziali varate su scala territoriale (come le iniziative promosse presso i centri per l’impiego).

 

Se il corrispettivo per le mansioni svolte, ovvero la remunerazione per il lavoro e l’apporto forniti a beneficio della ditta, si sostanzia nel pagamento dello stipendio al dipendente e se lo stato già predispone strumenti atti ad essere d’aiuto in circostanze di necessità (tra l’altro, come avviene in caso di licenziamento, facendo concorrere l’azienda al finanziamento della naspi) allora trovare una spiegazione all’esistenza, ma soprattutto al perdurare del trattamento di fine rapporto diventa quasi una probatio diabolica.

È giusto pensare che quando qualcosa possa far comodo ai lavoratori, e più in generale ai cittadini, allo scopo di traslare qualsiasi incentivo, sussidio o prerogativa esistente negli altri stati, l’opinione comune invocherebbe sfrenatamente il bisogno di copiarla, sostenendo, tra l’altro, che tutti i problemi sarebbero risolvibili in modo banale, cioè riproducendo in Italia quei sistemi e quei dispositivi messi a punto fuori dai confini nazionali. Al contrario, quando il nostro Paese, costituendo l’eccezione, attua e conserva meccanismi che, nonostante la loro inattualità e la carenza di appoggio logico, vanno gratuitamente a provvidenza del lavoratore si tende ad occultarli per continuare a proteggerli, senza spendere un minuto per ragionarci su e palesarne la manifesta illogicità.

 

A questo punto è possibile comprendere che le risorse che dovrebbero essere destinate al trattamento di fine rapporto, che nella realtà dei fatti, purtroppo, spesso non vanno a finire per intero (e talvolta neppure parzialmente) nelle tasche dei dipendenti, potrebbero essere utilizzate in maniera decisamente proficua e giusta. Diversamente da quanto accade, questi fondi, anziché scomparire del tutto (come auspicato poco prima), al più potrebbero essere investiti in un più ampio piano di tutela dei soggetti disoccupati, ad esempio allargandone la platea, oppure estendendo il periodo di indennizzo, o ancora creando altri istituti in grado di garantire l’eguale trattamento a tutti i lavoratori a conclusione del rapporto. Una regolamentazione in tal senso sarebbe fondamentale proprio al fine di scongiurare il persistere di situazioni discriminatorie ed illecite da azienda ad azienda, da lavoratore a lavoratore e pure (spiace dirlo) da regione a regione.

Francesco Pizzuto

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