Il trattamento di fine rapporto nella giurisprudenza

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Sommario: 1. Nozioni generali. – 2. Casistica giurisprudenziale.

 

1.  Nozioni generali

Ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 2120 c.c. in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto a un trattamento di fine rapporto.

Tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5.

La quota è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno, computandosi come mese intero le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni. Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.

Prima dell’intervento legislativo operato nel 1982 con la legge n. 297, la norma sopra menzionata prevedeva la corresponsione in favore del prestatore di lavoro all’atto della cessazione del rapporto di lavoro di una indennità denominata di anzianità (1).

Con sentenza n. 16636 del 1° ottobre 2012, la Cassazione ha affermato che anche l’auto aziendale rientra nel calcolo del Tfr (2).

La Suprema Corte chiarisce che la nozione di retribuzione contenuta nell’articolo 2120 c.c. è onnicomprensiva per cui deve ricomprendere “tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi”. Per cui nel Tfr va ricompreso “il controvalore dell’uso dell’autovettura di proprietà del datore di lavoro utilizzata anche per motivi personali, le relative spese di assicurazione e accessorie nonché le polizze assicurative stipulate dal datore di lavoro a favore del lavoratore”.

Non spetta, invece, l’indennità sostitutiva per ferie non godute da parte del dirigente che aveva la possibilità di autodeterminarsi i periodi di riposo, a meno che non dimostri le circostanze eccezionali che ne impedirono la fruizione.

 

2.  Casistica giurisprudenziale

In caso di cessione d’azienda assoggettata al regime di cui all’art. 2112 cod. civ. il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d’azienda, mentre il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall’art. 2112, secondo comma, cod. civ.

Invece quest’ultimo, quale datore di lavoro cessionario, è l’unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso successivamente al trasferimento d’azienda”.

La questione che assume carattere centrale per la soluzione della presente controversia è quella relativa all’individuazione del soggetto obbligato alla corresponsione del trattamento di fine rapporto ai lavoratori, nell’ipotesi di trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 cod. civ.

Tale questione è stata di recente riesaminata da Cass. 22 settembre 2011, n. 19291, che ha affermato il seguente principio di diritto: “in caso di cessione d’azienda assoggettata al regime di cui all’art. 2112 cod. civ. il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d’azienda, mentre il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall’art. 2112, secondo comma, cod. civ.

Invece quest’ultimo, quale datore di lavoro cessionario, è l’unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso successivamente al trasferimento d’azienda”. (Cass. civ., 11 settembre 2013, n. 20837).

 

La normativa che regola la cessione d’azienda non consente di considerare, di per sé, in frode alla legge o concluso per motivo illecito – non potendo ritenersi tale il motivo, perseguito con un negozio traslativo, di addossare ad altri la titolarità di obblighi ed oneri conseguenti – il contratto di cessione dell’azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali ed in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell’attività produttiva e dei rapporti di lavoro (Cass. 20 marzo 2013, n. 6969; Cass. 2 maggio 2006, n. 10108).

 

Con sentenza n. 24098 del 13 novembre 2009, la Cassazione ha affermato che nel caso di cessione delle attività e delle passività o dell’azienda, il trattamento di fine rapporto può essere fatto valere in giudizio – dai lavoratori – contro l’azienda cessionaria solo se lo stesso credito risulta dallo stato passivo (3).

 

Il Fondo di Garanzia, costituito presso l’INPS, è tenuto a pagare il T.f.r. nel caso in cui l’azienda del datore di lavoro è chiusa da oltre un anno ed il dipendente abbia eseguito un’azione esecutiva senza esito.

La Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha statuito due principi molto importanti, con riferimento all’interpretazione dell’articolo 2 della Legge n. 297/1982, legge attuativa della direttiva CE n. 987/1980.

Tale norma prevede il pagamento del TFR da parte dell’INPS, qualora l’impresa sia assoggettata al fallimento, ovvero nel caso in cui il datore di lavoro, non soggetto alla legge fallimentare, sia sottoposto ad esecuzione forzata senza esito.

Nella motivazione della sentenza in epigrafe, in particolare, vengono articolati i seguenti principi di diritto:

1) qualora un datore di lavoro sia assoggettabile a fallimento, ma, in concreto, non possa essere dichiarato fallito, in quanto ha cessato l’attività di impresa da oltre un anno, egli deve essere considerato “non soggetto” a fallimento e, conseguentemente, deve applicarsi l’articolo 2, comma 5, della legge n. 297/1982, norma che prevede l’intervento del fondo di garanzia, costituito presso l’INPS alle condizioni previste dalla medesima legge;

2) al fine di conseguire l’intervento del fondo di garanzia, è sufficiente che il lavoratore abbia infruttuosamente esperito una procedura di esecuzione mobiliare, eccezion fatta nel caso in cui risultino certificate delle circostanze dalle quali si possa evincere che esistono altri beni aggredibili con l’azione esecutiva. La prova di siffatte circostanze deve essere data dal Fondo. (Cass. civ., sez. lav., 19 gennaio 2009, n. 1178) (4).

 

Il diritto alla quota dell’indennità di fine rapporto dell’altro coniuge, anche quando tale indennità sia maturata prima della sentenza di divorzio, richiamato dall’articolo 12-bis della legge 898/1970, va interpretato nel senso che tale diritto sorge soltanto se il trattamento spettante all’altro coniuge sia maturato successivamente alla proposizione della domanda introduttiva del giudizio di divorzio, e quindi anche prima della sentenza di divorzio, e non anche se esso sia maturato e sia stato percepito in data anteriore, come in pendenza del giudizio di separazione, potendo in tal caso la riscossione dell’indennità incidere solo sulla situazione economica del coniuge tenuto a corrispondere l’assegno ovvero legittimare una modifica delle condizioni di separazione. Nell’ipotesi in cui l’indennità sia maturata in costanza di matrimonio, la stessa deve ritenersi normalmente utilizzata per i bisogni della famiglia, e nella parte in cui residua al momento della separazione costituisce elemento idoneo a determinare le condizioni economiche del coniuge obbligato e a incidere sulla quantificazione dell’assegno, mentre se matura in pendenza del giudizio di separazione resta operante il principio di piena disponibilità delle attribuzioni patrimoniali da parte del destinatario, nel rispetto delle norme generali fissate dall’ordinamento, salva la necessità di valutazione di tale attribuzione in sede di assetto economico della separazione. (Cass. civ., Sez. I, 29 settembre 2005, n. 19046, in Guida al Diritto, Edizione n. 44 del 12 novembre 2005, pagina 61).

 

Il diritto al trattamento di fine rapporto sorge soltanto al momento della risoluzione del rapporto e quindi, in caso di trasferimento di azienda e di prosecuzione del rapporto di lavoro dei dipendenti col cessionario della medesima, unico debitore del trattamento di fine rapporto deve considerarsi, anche per il periodo passato alle dipendenze del precedente datore di lavoro (cedente), il datore di lavoro (cessionario) che era tale al momento della risoluzione del rapporto di lavoro. (Cass. 27 agosto 1991, n. 9189, cui hanno successivamente aderito Cass. 14 dicembre 1998, n. 12548 e, più recentemente, Cass. 9 agosto 2004, n. 15371).

 

Manuela Rinaldi  
Avvocato foro Avezzano Aq – Dottoranda in Diritto dell’Economia e dell’Impresa Università La Sapienza, Roma, Proff. Maresca – Santoro Passarelli; Tutor di Diritto del Lavoro c/o Università Telematica Internazionale Uninettuno (UTIU) Docente prof. A. Maresca; Docente in corsi di Alta Formazione Professionale e Master e in corsi per aziende; già docente a contratto a.a. 2009/2010 Diritto del Lavoro e Diritto Sindacale Univ. Teramo, facoltà Giurisprudenza, corso Laurea Magistrale ciclo unico, c/o sede distaccata di Avezzano, Aq; dal 2013 Tutor di Diritto Civile c/o Università Telematica Internazionale Uninettuno (UTIU) Docente prof. Mauro Orlandi


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(
1)    La funzione di tale indennità era quella di permettere al prestatore di lavoro di superare il momento di difficoltà economica che insorgeva all’atto del venire meno del rapporto di lavoro e quindi della retribuzione.

(2)    http://www.dplmodena.it/cassazione/tfr.htm

(3)    http://www.dplmodena.it/cassazione/tfr.htm

(4)    http://www.filbi.it/Sentenza_pagamento_tfr_Fondo_Garanzia.htm 

Rinaldi Manuela

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