Il third party funding: profili generali e aspetti pratici

Redazione 12/06/19
Scarica PDF Stampa

di Jacopo Nisticò

Sommario

PARTE I. RILIEVI INTRODUTTIVI

1. Premesse

2. Origine storica: brevi cenni

3. Il (semi-)vuoto normativo

PARTE II. ASPETTI PRATICI DEL FINANZIAMENTO DEL CONTENZIOSO

4. Aspetti pratici

5. Il contratto di finanziamento del contenzioso

6. Disclosure e conflitto di interessi nell’arbitrato internazionale

III. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

PARTE I. RILIEVI INTRODUTTIVI

1. Premesse

Sul mercato dei servizi legali internazionale si è appalesata, ormai da diversi anni, una nuova pratica, denominata “finanziamento del contenzioso” (o, più diffusamente, third party funding, in breve “TPF”), rapidamente impostasi come uno standard di mercato in diversi ordinamenti di common law.

Una definizione universalmente accettata di TPF, allo stato, non esiste. Né potrebbe facilmente essere formulata, considerate le molteplici forme che tale pratica ha assunto nella prassi. È stata delineata, in linea generale, una distinzione tra la c.d. “forma standard” di TPF, i.e. il finanziamento della parte attrice (claimant-side TPF), e varie forme non-standard, come, ad esempio, il finanziamento della parte convenuta (respondent-side TPF) o il finanziamento tramite prodotti assicurativi o, ancora, il TPF “strategico”[1].

Ad ogni modo, in termini generali e non esaustivi, si può provare a definire il TPF come “qualsiasi soluzione finanziaria offerta a una parte e concernente il finanziamento di un processo”[2]. In altre parole, il soggetto finanziatore, erogando il finanziamento, si accolla il rischio di soccombenza, a fronte di un cospicuo ritorno economico in caso di vittoria.

[1] Tale classificazione è stata operata per la prima volta in A. Goldsmith – L- Melchionda, Third party funding in international arbitration: everything you ever wanted to know (but we are afraid to ask), in Heinonline 2012, 55.

[2] M. Scherer, A. Goldsmith, “Third party funding in international arbitration in Europe: funder’s perspective”, International Business Law Journal, 2012, pp. 208-209.

2. Origine storica: brevi cenni

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il finanziamento del contenzioso ha origini piuttosto lontane. Già nell’Antica Grecia e poi nell’Impero Romano erano diffuse alcune pratiche di finanziamento del contenzioso che, in epoca successiva, sono state recepite dai domini inglesi, ove si sono diffuse.

In particolare, grande attenzione ricevettero le pratiche denominate maintenance e champerty, che consistevano, l’una, nell’incaricare un terzo, a fronte di assistenza finanziaria, tanto diretta quanto indiretta, di promuovere o difendersi in giudizi civili, senza un motivo legittimo[3]; l’altra, che consisteva nell’accordo tra la parte in causa e un terzo secondo, tramite quest’ultimo avrebbe percepito una quota degli eventuali proventi della lite.

Tali pratiche, già considerate come reati nell’Antica Grecia e nell’Impero Romano, furono vietate anche in Inghilterra, ove, nel pieno dello sviluppo del sistema feudale, non era raro che i ricchi e potenti baroni prestassero il loro denaro per supportare azioni giudiziarie deboli, con il solo scopo di imporre i propri interessi personali, di fatto alterando la corretta amministrazione della giustizia.

La maintenance e la champerty furono vietate nel Regno Unito nel 1275 e non fu possibile praticarle lecitamente fino al 1967, quando il divieto fu rimosso dal Criminal Law Act. L’abrogazione delle norme penali ha consentito la rapida diffusione del TPF in tutto il mondo, a partire dall’Australia durante gli anni Novanta, per poi attecchire in gran parte degli ordinamenti di Common Law.

Al giorno d’oggi, specialmente nei paesi di Common Law, il TPF è considerato la linfa vitale del sistema giustizia e non difficile comprenderne il perché: il finanziamento e consente di incardinare azioni che altrimenti non vedrebbero la luce, aumentando il volume del contenzioso.

[3] In lingua inglese è descritto come segue: “the procurement, by direct or indirect financial assistance, of another person to institute, or carry on or defend civil proceedings without lawful justification”, cfr. Law Commission, “Proposals for the reform of the Law Relating to Maintenance and Champerty”, 1966.

3. Il (semi-)vuoto normativo

Il TPF è stato paragonato al “wild west”, a causa dello scarso (o, comunque, disomogeneo) livello di regolamentazione presente nel settore.

L’ordinamento più all’avanguardia è sicuramente quello inglese, dove, già da qualche anno, è stato implementato il Code of Conduct for Litigation Funders: un atto di soft law, emanato dal Civil Justice Council, inglese che descrive gli standard e le best practice cui devono attenersi i soggetti finanziatori che operano all’interno del Regno Unito.

Solo di recente, si è assistito a un mutamento di rotta in due ordinamenti di particolare interesse nell’ambito dell’arbitrato internazionale: a Singapore, sono state depenalizzate le condotte riconducibili alla maintenance e alla champerty, per cui il TPF è stato legalizzato; a Hong Kong, invece, ha previsto delle eccezioni alle suddette fattispecie criminose, per cui il TPF è, a partire dal 1 gennaio 2019, lecito nell’arbitrato internazionale, mentre non è consentito con riferimento al contenzioso davanti le corti[4].

In ambito europeo, l’unico atto dotato di un qualche valore precettivo è la raccomandazione 2013/396/UE del 11 giugno 2013 della Commissione Europea, avente ad oggetto i principi comuni dettati in materia di ricorso collettivo per il risarcimento del danno cagionato dalla violazione di norme dell’Unione Europea, che, inter alia, prevede alcune norme in tema di finanziamento del contenzioso.

Ad ogni modo, è evidente la carenza di armonizzazione delle norme in materia, tanto domestiche quanto internazionali. Sul punto, alcuni dati statistici interessanti sono stati raccolti dalla Queen Mary Task Force on third-party funding in international arbitration[5]: il 71% degli intervistati ha ritenuto necessaria la regolamentazione del fenomeno TPF; di questi, il 58% ha ritenuto sufficiente allo scopo una regolamentazione di soft law.

L’opinione espressa dalla maggioranza degli intervistati nel citato sondaggio è condivisibile, in quanto la flessibilità e la dinamicità garantite da una regolamentazione di soft law ben si attagliano a un fenomeno in continuo divenire e privo, per natura, di una forma ben delinata come il TPF. Vi sono, tuttavia, alcune riserve, in particolare in materia di disclosure e di conflitto di interessi, su cui è più difficile immaginare che possa essere efficace una semplice regolamentazione di soft law. Sul punto si tornerà oltre.

[4] https://www.lexology.com/library/detail.aspx?g=4647d8ba-26c4-4274-9cdf-ce5ed77f7095 consultato 20 aprile 2019.

[5] Consultabile all’indirizzo https://www.arbitration-icca.org/media/10/40280243154551/icca_reports_4_tpf_final_for_print_5_april.pdf.

PARTE II. ASPETTI PRATICI DEL FINANZIAMENTO DEL CONTENZIOSO

4. Aspetti pratici

Esaurita la descrizione del contesto in cui sta sviluppando il TPF, conviene spostare l’attenzione sui suoi più rilevanti aspetti pratici, con riferimento, come accennato supra, al c.d. claimant-side TPF (i.e. la forma c.d. standard).

Generalmente, l’origine del processo di TPF è da rinvenirsi nella situazione in cui si trova un soggetto giuridico, titolare di un diritto (molto spesso risarcitorio), che non è in grado di sopportare i costi del giudizio necessario per tutelare il proprio diritto. Va da sé, ovviamente, che gli ordinamenti dove questa situazione si verifica più spesso, sono quelli dove il contenzioso è più costoso: Regno Unito e Stati Uniti d’America.

In tal caso, grazie al TPF, il soggetto con poca liquidità può rivolgersi a un finanziatore che, valutato il caso e la convenienza dell’operazione (su cui v. infra), “comprerà” il caso, si assumerà per intero il rischio di soccombenza e trarrà profitto dall’eventuale vittoria, trattenendo una consistente porzione del risarcimento.

Come rilievo di carattere generale, si segnala che i finanziatori nella prassi utilizzano, alternativamente, due approcci nella gestione di un rapporto di TPF. Il primo, chiamato “hands-off”, si caratterizza per la totale estraneità del finanziatore alla gestione del caso: in sostanza, quest’ultimo provvede solo ed esclusivamente a fornire i capitoli, lasciando tutto il resto nelle mani della parte e dei suoi consulenti legali. Il secondo, chiamato “hands-on”, invece, si caratterizza per una maggiore ingerenza del finanziatore nella gestione del caso, che avrà la possibilità di indirizzare le scelte della parte e del consulente legale, fino, in extremis, ad imporre esso stesso il consulente legale da nominare.

Ad ogni modo, quale che sia l’approccio adottato dal finanziatore, la prima attività che costui dovrà svolgere sarà, in ogni caso, la selezione dei casi da finanziare. Tale selezione avviene tramite una scrematura iniziale, seguita da un’intensa e approfondita attività di due diligence sulla documentazione fornita dal cliente (i.e. l’aspirante finanziato), che può durare dalle tre settimane fino anche ai due mesi, a seconda della strategia del soggetto finanziatore, della complessità del caso e dalla quantità di informazioni necessarie. Non è raro, inoltre, che il soggetto finanziatore, nell’espletamento della due diligence, si avvalga anche di soggetti specializzati nel recupero da internet di informazioni nascoste (ad esempio, nel c.d. “deep web”).

Tale attività di due diligence ha ad oggetto i seguenti aspetti.

1.Valore del risarcimento: generalmente, i soggetti finanziatori richiedono che il loro ritorno economico in caso di vittoria in giudizio sia nell’ordine dei mip>[6];

2.spese legap>

3.giurisdizione: è molto importante che l’azione possa essere incardinata davanti a una giurisdizione che non sia di ostacolo al TPF (ad esempio, si evitano le corti statunitensi per via degp>disclosure previsti);

4.probabip>

5.durata del contenzioso: sono più appetibip>

6.solvibip>

7.esecuzione: è importante che la giurisdizione in cui dovrà, eventualmente, essere portato ad esecuzione il provvedimento, non contempp>

È bene sottolineare che, solitamente, non è richiesto che siano soddisfatti tutti i criteri, essendo sufficiente il soddisfacimento di tre o quattro di essi.

Spesso, tuttavia, tra la scrematura iniziale e la fase di due diligence si colloca uno step intermedio: il soggetto finanziatore potrebbe chiedere al cliente di firmare un accordo di esclusiva avente durata per tutto il periodo di tempo necessario a terminare la due diligence.

Quanto ai costi della due diligence, ci si potrebbe domandare chi dovrà sopportarli. A tal riguardo, i soggetti finanziatori generalmente agiscono seguendo uno dei seguenti due modelli:

1.il soggetto finanziatore paga i costi della due dip> in ogni caso, poiché il suo cp>i.e. il titolare del diritto) si trova in una situazione di difficoltà economica;

2.o il cp>

Nulla impedisce, tuttavia, che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, il soggetto finanziatore decida se agire diversamente dagli schemi appena prospettati.

Terminata la due diligence, il finanziatore dovrà decidere se il caso merita di essere finanziato o meno. Se la valutazione sarà positiva[7], gli aspetti da considerare sono solo altri due: la struttura del compenso del finanziatore e la scelta del consulente legale.

Quanto al primo aspetto, deve sottolinearsi che l’obiettivo della maggioranza dei finanziatori è di realizzare un ritorno economico che sia almeno il triplo dell’investimento effettuato. Tale risultato può essere ottenuto applicando una di due strategie alternative, che nella prassi vengono spesso combinate. La prima, più semplice, consiste nella pattuizione tra finanziatore e cliente di un compenso pari a una porzione del danno compresa tra il 15% e il 50% del danno. La seconda, invece, prevede la pattuizione di un moltiplicatore dei costi sostenuti, che può raggiungere anche il quadruplo degli stessi. Ad ogni modo, anche in questo caso, nulla esclude che il finanziatore possa valutare uno schema differente in base alle circostanze del caso concreto[8].

Infine, l’ultimo step da analizzare è la scelta del consulente legale. È chiaro che è nell’interesse del soggetto finanziatore che il consulente legale del suo cliente sia un professionista affidabile. Infatti, l’accordo sul professionista a cui conferire l’incarico è dirimente ai fini della conclusione del contratto di finanziamento del contenzioso: nessun finanziatore accetterebbe di finanziare un contenzioso che dovrebbe essere gestito da un professionista sulla cui scelta non è d’accordo. È, dunque, normale, nella prassi, che il finanziatore quantomeno suggerisca al cliente dei professionisti di sua fiducia per la gestione del caso. Non esistono tuttavia dei criteri standard cui fare riferimento per la scelta del legale, è, com’è ovvio, una questione di fiducia.

[7] Solo un caso su venti ottiene una valutazione positiva al termine della due diligence, cfr. A. Goldsmith – L- Melchionda, op. cit., 56.

[8] Cfr. S. Khoury – K. Hurford, Third Party Funding in international arbitration – Balancing benefits and risks, in PLC Magazine 2012, 2, in www.imf.com.au.

5. Il contratto di finanziamento del contenzioso

Terminata la fase della due diligence, le parti procedono alla redazione del contratto di finanziamento del contenzioso. Tralasciando le considerazioni sulla natura che tale contratto potrebbe assumere all’interno dell’ordinamento italiano[9], in questa sede ci si limiterà ad analizzarne il contenuto.

È chiaro che, trattandosi di un contratto atipico, peraltro molto delicato, il contenuto è strettamente collegato alle esigenze del caso concreto. Non mancano, tuttavia, alcune clausole standard, necessarie a caratterizzare il contratto. In particolare:

-la pattuizione del compenso del soggetto finanziatore e il meccanismo di calcolo dello stesso: come detto retro par. 4, il compenso può essere calcolato o prevedendo una percentuale, di sop>

-individuazione dei costi a carico del soggetto finanziatore: si tratta del compenso di consulenti legap>due dip>, o, ancora, dell’eventuale accollo delle spese di p>

-approccio del finanziatore (“hands-on” o “hands-off”): questa clausola ha lo scopo di definire l’ingerenza del soggetto finanziatore sulle scelte della parte e nella gestione del caso;

-clausola di riservatezza: necessaria per la tutela delle informazioni che vengono messe dalla parte a disposizione del soggetto finanziatore;

Il contratto di TPF, poi, al di là delle particolari clausole appena menzionate, che contribuiscono a caratterizzarlo, comprende anche tutte quelle clausole indispensabili per garantire l’equilibro di qualsiasi contratto. Vale a dire la disciplina delle modalità di risoluzione delle eventuali controversie tra parte e soggetto finanziatore, la disciplina dello ius variandi, la scelta del foro competente in caso di controversie[10].

[9] Per l’analisi della natura che il contratto di finanziamento del contenzioso potrebbe assumere in Italia, oltre a molteplici altre questioni relative all’adozione di questa pratica nel nostro ordinamento, si segnala E. D’Alessandro, Prospettive del third party funding in Italia, Milano, 2019.

[10] S. Forni, Il “Third Party Funding nell’arbitrato internazionale, I contratti 2013, 967.

6. Disclosure e conflitto di interessi nell’arbitrato internazionale

Tema centrale nel dibattito in corso, con particolare riferimento all’arbitrato internazionale, è quello relativo agli obblighi di disclosure del TPF e al possibile conflitto di interessi che potrebbe, in tal modo, rendersi manifesto. Basti pensare che molto spesso i componenti del collegio arbitrale in un arbitrato internazionale sono membri di grossi studi legali: non è difficile immaginare che un arbitro possa far parte di uno studio con cui il soggetto finanziatore collabora o con cui, comunque, ha avuto un qualsiasi tipo di rapporto.

Una circostanza del genere minerebbe uno degli elementi fondamentali dell’arbitrato: l’indipendenza dell’arbitro rispetto alle parti.

Come già detto, il basso livello di regolamentazione e di armonizzazione del settore non consente di individuare dei parametri precisi a cui fare riferimento, pertanto in ogni ordinamento saranno applicabili le norme domestiche sul conflitto di interessi. È per tale motivo, infatti, che vi sono ordinamenti più o meno ostici al TPF, come ad esempio l’ordinamento statunitense. Quest’ultimo, infatti, prevede i più ampi obblighi di disclosure in capo alle parti e viene generalmente evitato dai soggetti finanziatori.

Stante l’assenza di regole (più o meno) precise sul tema, sono state ipotizzate diverse soluzioni[11]: chiedere agli arbitri di rivelare ogni possibile relazione che potrebbe dare luogo a un conflitto di interessi; imporre alle parti l’obbligo di rivelare l’esistenza del TPF; chiedere alle parti e agli arbitri di produrre delle liste di relazioni che potrebbero dare luogo a conflitto di interessi, da sottoporre poi a un soggetto terzo imparziale incaricato di individuare eventuali conflitti.

Tutte queste ipotetiche soluzioni, tuttavia, comporterebbero dei problemi come, ad esempio, la rivelazione di più informazioni di quelle necessarie o ritardi nella costituzione del collegio arbitrale.

Allo stato, l’unico tentativo di, quantomeno, dare un’indicazione di massima è stato compiuto dall’IBA, che ha operato un’estensione ai soggetti finanziatori degli obblighi di disclosure di cui alla Standard Guideline 7[12] delle sue Guidelines on Conflict of Interest, che prevede l’obbligo per le parti di rivelare ogni relazione con gli arbitri[13]. Trattasi, ad ogni modo, di norme di soft law, pertanto non vincolanti, che potrebbero non essere sufficienti a disciplinare l’aspetto degli obblighi di disclosure e del conflitto di interessi.

[11] Cfr. A. Goldsmith – L. Melchionda, op cit., 226.

[12] IBA Guidelines on Conflict of Interest in International Arbitration, 24.

[13] IBA Guidelines on Conflict of Interest in International Arbitration, 14.

PARTE III. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Come si è detto, il mercato del TPF è in forte crescita e sarebbe un azzardo fare previsioni sui futuri sviluppi. Ciò che preme rilevare a questo stadio sono una necessità e una tendenza da tenere sotto controllo. Quanto alla necessità, ci sembra chiaro: sarà indispensabile, nel futuro prossimo, che siano adottate misure, più o meno rigide, per la regolamentazione del fenomeno. Il pensiero va in particolare alla descrizione dei limiti degli obblighi di disclosure e al conflitto di interessi, dall’altra alla possibile egemonia dei soggetti finanziatori sulle parti (in relazione all’approccio c.d. “hands-on”).

Quanto alla tendenza, non ci risulta difficile immaginare che, in un mercato legale in cui il TPF sia elemento comune, il “claim” assuma i connotati di uno strumento finanziario. D’altronde, nell’ottica del finanziatore, il caso da finanziare altro non è che un asset che acquista con l’intenzione di ottenere un guadagno. L’idea di strumenti derivati composti da claim finanziati non è così peregrina e sono evidenti le implicazioni etiche che un tale sviluppo implicherebbe.

Redazione

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento