Il silenzio inadempimento dopo la legge 80 del 2005

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Il problema giuridico del silenzio della pubblica amministrazione ha impegnato la dottrina e la giurisprudenza, sia per i profili sostanziali, che per le implicazioni processuali.
Il silenzio indica un comportamento inerte in cui manca ogni espressione di volontà dell’amministrazione, assumendo una valenza giuridica solo nei casi un cui la legge gli attribuisce un valore tipico.
In presenza di silenzio significativo la norma qualifica il comportamento inerte dell’amministrazione come equivalente ad un provvedimento a contenuto positivo (silenzio accoglimento) o negativo (silenzio diniego).
Di contro, quando la legge non equipara il silenzio ad un provvedimento si è di fronte ad un comportamento omissivo dell’amministrazione, definito come silenzio inadempimento o silenzio rifiuto.
Detta figura, in mancanza di una specifica regolamentazione, è stata oggetto di una lunga elaborazione giurisprudenziale, volta a trovare rimedi contro il comportamento inerte nei confronti dell’istanza di un privato che mira ad un provvedimento favorevole.
La soluzione fornita dalla giurisprudenza, sin dagli inizi del secolo scorso, richiedeva la notifica, da parte dell’interessato all’amministrazione inerte, di una diffida a emanare il provvedimento richiesto entro un termine congruo, decorso il quale era ammesso il ricorso al Consiglio di Stato.
Detto rimedio venne recepito dal legislatore con l’art.5 del regio decreto 3 marzo 1934 n. 383, che regolava il ricorso gerarchico.
Successivamente, con l’abrogazione del citato art.5, la giurisprudenza ha, invece, ritenuto esperibile il meccanismo della diffida e messa in mora dell’amministrazione, ex art.25 del decreto presidenziale 10 gennaio 1957 n. 3.
In tale ottica, l’interessato – a mezzo di apposita diffida a provvedere, notificata non prima di sessanta giorni dalla presentazione dell’istanza – doveva far constatare l’inerzia dell’amministrazione; decorsi infruttuosamente trenta giorni dalla notificazione, poteva, poi, impugnare il silenzio innanzi al giudice amministrativo, nel termine di sessanta giorni.
Su tale assetto è intervenuta la legge 7 agosto 1990 n. 241 sul procedimento amministrativo, il cui art. 2 prevede il dovere delle amministrazioni di concludere il procedimento amministrativo, iniziato ad istanza di parte o d’ufficio, con l’adozione di un provvedimento espresso, nel termine indicato dalla legge o da regolamento, oppure nel termine suppletivo di trenta giorni.
Detto articolo ha, da subito, posto la questione della vitalità o meno della diffida, quale condizione per adire il giudice contro l’inerzia delle pubbliche amministrazioni.
La dottrina maggioritaria – prendendo l’avvio dal principio di certezza dei termini dell’azione amministrativa, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990 – ha ritenuto che la formazione del silenzio, dovuto all’inadempimento all’obbligo di provvedere, sarebbe la conseguenza automatica dello spirare del termine del procedimento, escludendo, perciò, la necessità della diffida ex art.25 d.p.r. n. 3 del 1957.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, ha sostenuto, invece, che la diffida rimane una condizione essenziale per la formazione del silenzio ai fini dell’azione giurisdizionale, ritenendo insidiosi i silenzi automatici, che fanno decorrere il termine per l’impugnazione in assenza di un’adeguata consapevolezza da parte dell’interessato.
 Di contro l’indirizzo giurisprudenziale di primo grado – muovendo dal contenuto dell’art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971 n. 1034 istitutiva dei TAR, che si connota per la brevità dei termini, per la snellezza delle formalità e per la mancata previsione, tra le condizioni di ammissibilità, della messa in mora – ha ritenuto che quest’ultima rappresenti un ulteriore peso per il soggetto inciso dall’inadempimento dell’amministrazione.
 
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La legge 11 febbraio 2005 n. 15, recante modifiche ed integrazioni alla legge n. 241 del 1990, effettua una significativa integrazione all’art. 2 della stessa, aggiungendovi il comma 4 bis, secondo cui alla scadenza dei termini per la conclusione del procedimento, come stabiliti dai commi 2 e 3 del medesimo art. 2, il ricorso avverso il silenzio può essere immediatamente proposto senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente.
In tal modo, il legislatore ha posto fine alle dispute insorte con riferimento alla necessità o meno della diffida, individuando nel termine di conclusione del procedimento il momento di formazione del silenzio rifiuto dell’amministrazione.
In tale ottica, l’art.5 della legge n. 15 del 2005 ha inserito nell’art. 8 della legge n. 241 del 1990 la lettera c-bis), secondo cui la comunicazione di avvio del procedimento deve contenere l’indicazione della data entro la quale deve concludersi il procedimento, nonchè i rimedi esperibili in caso di inerzia dell’amministrazione.
Il citato comma 4 bis consente, inoltre, la proponibilità del ricorso entro un anno dalla formazione del silenzio e non nell’ordinario termine di decadenza di sessanta giorni, come sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria.
La previsione di detto termine, in aggiunta alla citata disposizione sulla comunicazione di avvio del procedimento, risolve il problema della pericolosità dei silenzi automatici, che rappresentava, per la giurisprudenza del Consiglio di Stato, la fondamentale ragione del mantenimento della diffida, ex art.25 d.p.r. n. 3 del 1957, quale presupposto imprescindibile per la formazione del silenzio rifiuto.
 
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Il decreto sulla competitività, convertito in legge 14 maggio 2005 n. 80, ha introdotto nel quinto comma dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990 il seguente inciso: «Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza».
Il riferimento è al giudice adito con ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione previsto dall’art. 21-bis della legge TAR (articolo introdotto dalla legge n. 205 del 2000).
Detta modifica contraddice la giurisprudenza amministrativa consolidatasi nella sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 2002, secondo cui il giudice amministrativo adito, contro il silenzio inadempimento, deve limitarsi ad accertare l’inerzia dell’amministrazione, lasciando a quest’ultima la determinazione del contenuto del provvedimento da adottare, con totale preclusione di un giudizio di merito volto a valutare la fondatezza dell’istanza.
Quanto sopra, senza distinguere tra attività vincolata e attività discrezionale, dato che su detta differenza la legge tace.
In detta prospettiva, è evidente che la disciplina del ricorso avverso il silenzio-inadempimento deve ricavavarsi da due norme, l’una di natura sostanziale (art. 2 legge n. 241 del 1990), l’altra di natura processuale (art. 21-bis legge TAR), che vanno lette contestualmente e  coordinate.
Vediamo, quindi, il significato da conferire all’espressione «Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza», introdotta nel quinto comma del citato art. 2.
Detta soluzione normativa, tuttavia, non precisa se il giudice possa sempre conoscere della fondatezza dell’istanza, ovvero soltanto in caso di attività amministrativa vincolata.
Detta novità, perciò, ha posto ulteriori interrogativi circa i poteri che il giudice può esercitare nel conoscere della fondatezza dell’istanza, facendo registrare due orientamenti giurisprudenziali.
Per un primo orientamento, il verbo “può” lascia intendere che sussistano dei limiti oltre i quali il giudice amministrativo non può conoscere la fondatezza della domanda.
Nel silenzio della legge, tali limiti dovrebbero desumersi dai principi generali e dalle elaborazioni giurisprudenziali e dottrinali precedenti l’innovazione legislativa.
Trattasi, in particolare, del limite posto dalla natura (vincolata o discrezionale) dell’attività amministrativa richiesta, secondo cui il giudice amministrativo potrebbe conoscere della fondatezza dell’istanza solo in caso di attività vincolata, e del limite della “pronta risolvibilità” della questione; bisogna vedere, quindi, se la valutazione della fondatezza dell’istanza sia compatibile con la snellezza del ricorso ex art. 21-bis.
Secondo un diverso orientamento, dalla formulazione testuale della norma non è possibile effettuare una distinzione fra attività vincolata o discrezionale, quali presupposti per la conoscibilità o meno della fondatezza dell’istanza.
In detta prospettiva, anche in caso di poteri discrezionali della pubblica amministrazione, il giudice amministrativo può conoscere la fondatezza dell’istanza.
Ebbene, seppure detto conflitto giurisprudenziale non sia di facile soluzione – sarebbe auspicabile un intervento del legislatore che aiuti a distinguere le diverse implicazioni dell’attività amministrativa discrezionale rispetto a quella vincolata – è possibile, comunque, svolgere alcune brevi riflessioni a sostegno dell’orientamento più restrittivo.
A ben vedere, si rivela insuperabile il dato letterale di cui all’art. 27 t.u. delle leggi sul Consiglio di Stato, che subordina la giurisdizione di merito del giudice amministrativo al rispetto del principio di legalità, con la logica conseguenza che la disposizione di cui all’art. 2, quinto comma, legge n. 241 del 1990 non può derogare a tale principio.
Ed ancora, nel caso in cui all’organo giudicante sul silenzio fosse consentito di pronunciarsi sulla fondatezza dell’istanza, anche in relazione ad attività amministrativa discrezionale, verrebbero violati sia il principio di separazione dei poteri, che il suo derivato corollario rappresentato dall’attribuzione, in via esclusiva, alla pubblica amministrazione del potere di provvedere alla cura concreta dell’interesse pubblico, attraverso il giusto contemperamento tra interesse pubblico primario ed altri interessi antagonisti.
Infatti, mentre nel caso di attività amministrativa vincolata il problema non si pone, dato che, una volta esaminati i presupposti di legge, il contenuto del provvedimento non può che essere quello prefigurato dal legislatore; nel caso, invece, di attività amministrativa discrezionale, considerata la possibilità di scelta tra più soluzioni rispettose dell’interesse pubblico primario, è probabile che il giudice amministrativo, nel pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa, effettui valutazioni diverse da quelle che avrebbe potuto svolgere l’ amministrazione, con conseguente violazione dei citati principi.
In merito, poi, alla compatibilità tra la disciplina sostanziale e quella processuale, rimasta immutata dopo l’introduzione dell’art. 21bis nella legge n. 1034 del 1971, ad opera della legge n. 205 del 2000, si potrebbe rilevare che, in virtù di detta disposizione, all’esito del giudizio sul silenzio, il giudice può solo ordinare all’amministrazione di provvedere, senza sostituirsi alla stessa nell’emanazione del provvedimento, emettendo sentenza costitutiva.
In tale ottica, qualora detta disposizione venisse interpretata come introduttiva di una nuova ipotesi di giurisdizione di merito, si determinerebbe, in assenza dei necessari interventi sul piano processuale, l’abrogazione tacita dell’intero comma 2 dell’art. 21bis.
Tenendo conto delle superiori considerazioni, appare più corretto ritenere che il potere di conoscere della fondatezza dell’istanza abbia natura aggiuntiva rispetto a quello di pronunciarsi sul ricorso avverso il silenzio amministrativo, dichiarando l’illegittimità o meno dello stesso, dato che la determinazione del contenuto del provvedimento è, in caso di attività vincolata, una naturale conseguenza dell’accoglimento del ricorso.
In questo caso, infatti, non cambia la natura della sentenza atteso che, anche quando riconosce la fondatezza dell’istanza, il giudice si limita ad ordinare alla pubblica amministrazione di provvedere, indicando anche il contenuto del provvedimento, che non potrebbe, data la natura dell’attività, essere diverso.
Nel caso di attività discrezionale, invece, il giudice dovrà limitarsi a giudicare sulla legittimità dell’inerzia amministrativa, ordinando se del caso di provvedere, lasciando, però, quest’ultima libera di esprimere le proprie determinazioni in merito al contenuto del provvedimento da adottare.
In tal senso muove una recente sentenza del Consiglio di Stato, n.5310 del 2007, secondo cui non si può ritenere che, a seguito delle modifiche dell’art. 2, comma 5, della legge n. 241 del 1990 sul silenzio della pubblica amministrazione, introdotte dalla legge n. 80 del 2005, ed in particolare a seguito della previsione del potere del giudice amministrativo di conoscere anche "della fondatezza della pretesa", sia stata prevista una nuova ipotesi di giurisdizione di merito; la giurisdizione di merito, infatti, al pari di quella esclusiva – ponendosi come derogatoria rispetto a quella di legittimità nel dettato costituzionale, improntato al principio di separazione dei poteri – richiede una puntuale previsione normativa.
Conclusivamente, nell’ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà conoscere della fondatezza o meno dell’istanza solo: nelle ipotesi di manifesta fondatezza, quando siano richiesti provvedimenti vincolati in cui non c’è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe portare a diverse soluzioni; nell’ipotesi in cui l’istanza sia manifestamente infondata, dato che risulta del tutto diseconomico obbligare la pubblica amministrazione a provvedere laddove l’atto espresso non potrà che essere di rigetto.
 
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Giunti a tal punto, sono opportune alcune brevi notazioni per evidenziare la coerenza dell’impianto dell’art. 4bis rispetto alla disciplina processuale in materia di silenzio inadempimento, come delineata dall’art. 21bis legge Tar, modificato dalla legge n. 205 del 2000.
L’obiettivo di rendere più agevole la formazione del silenzio inadempimento, evitando l’allungamento dei tempi procedimentali determinata dalla diffida, si rivela perfettamente in linea con l’art 21bis della legge n. 1034 del 1971, il quale, come evidenziato dall’Ad. Plenaria, sentenza n.1 del 2002, disegna un rito accelerato “caratterizzato dalla brevità dei termini e dalla snellezza delle formalità […] con il chiaro intento di indurre l’amministrazione ad esprimersi sollecitamente sull’istanza del privato”. In detta ottica, la riforma della disciplina sostanziale del silenzio inadempimento si salda perfettamente con quella processuale, rafforzando la tutela del cittadino nei confronti dell’attività amministrativa, al fine di renderla il più possibile rapida ed effettiva.
E’ utile, altresì, rilevare che la legge in questione, prevedendo un termine annuale per il ricorso avverso l’inerzia amministrativa, ha definitivamente risolto la questione relativa alla natura non impugnatoria del giudizio sul silenzio, con la conseguente impossibilità di ritenere applicabile al ricorso ex art. 21bis legge Tar il termine decadenziale di 60 giorni, previsto in via generale dalla citata legge per i giudizi di tipo impugnatorio.
In detta prospettiva è possibile dedurre la natura non provvedimentale del silenzio e, conseguentemente, la natura non impugnatoria del giudizio avverso lo stesso.
 
 
Angela Bruno
Avvocato – Dirigente – Ufficio di Staff Avvocatura del Comune di Vittoria – RG.       
Specialista in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni
Cosimo Costa
Funzionario Procura della Repubblica Tribunale di Catania – Specialista in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni

Bruno Angela – Costa Cosimo

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