Il rifiuto del lavoratore di trasferirsi equivale alle dimissioni

Mele Teresa 29/04/16
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La determinazione del luogo della prestazione lavorativa rientra nella potestà organizzativa datoriale ed incontra un limite solo nelle previsioni dettate in materia di trasferimento del lavoratore. Il trasferimento del prestatore di lavoro è regolato dall’articolo 2013 del codice civile il quale dispone che il trasferimento può essere attuato solo in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive.
Il lavoratore, quindi, potrà essere trasferito solo a patto e condizione che il datore di lavoro riesca a dimostrare:

– l’inutilità di quel lavoratore nella sede di provenienza;

– la necessità, di contro, della presenza di quello stesso lavoratore, con la sua particolare professionalità, nella sede di destinazione;

– la serietà delle ragioni che hanno fatto ricadere la scelta datoriale proprio su quel lavoratore e non su altri che svolgano analoghe mansioni.

In mancanza di quanto enunciato il trasferimento è illegittimo e potrà essere annullato dal giudice.

Ciò valorizza l’interesse del lavoratore a una sostanziale inamovibilità dal proprio posto di lavoro, dal momento che un consistente spostamento geografico del luogo di esecuzione della prestazione comporta effettivi disagi.

Il trasferimento del lavoratore è una misura che ricade nella discrezionalità del datore di lavoro e come tale è esplicazione del potere di libera iniziativa concessa all’imprenditore nell’esercizio dell’impresa (ex art. 41 Cost.), avendo egli la facoltà di valutare se ed in che misura una tale scelta sia necessaria sotto il profilo delle esigenze tecniche ed organizzative.

Ne consegue che il lavoratore non può fondatamente dolersi di un aggravio della prestazione conseguente al mutamento del luogo della prestazione disposto dal datore di lavoro dal domicilio del prestatore alla sede dell’azienda.

Il potere di trasferimento è regolamentato, com’è esplicitato, dall’art. 2103 cod. civ., secondo il quale “il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva a un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”, in difetto delle quali è nullo (Cass. 28 settembre 2006, n. 21037). Per aversi il trasferimento, occorre lo spostamento definitivo dall’unità produttiva presso la quale il lavoratore è addetto, per tale ravvisandosi qualunque articolazione autonoma dell’azienda avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità a esplicare, in tutto o in parte, l’attività dell’impresa, anche se composta da stabilimenti o uffici dislocati in zone diverse dello stesso comune. Non è unità produttiva l’ufficio o reparto con funzioni ausiliarie o strumentali. Il concetto di unità produttiva prevale su quello di ambito comunale, nel senso che la tutela opera anche per unità site nel medesimo territorio comunale ( Cass. 29 luglio 2003, 11660).

La disciplina del trasferimento è prevista e articolata anche dallo statuto dei lavoratori la cui disciplina è reperibile nell’art. 13 della l. n. 300  è inscindibilmente connessa alla nozione di unità produttiva definita all’art. 35 della stessa legge. 

Nello Statuto dei lavoratori, il «trasferimento» viene menzionato sia con riferimento alla tipologia del lavoratore in generale (art. 13 e 15, in tema di atti discriminatori) sia alla tipologia del lavoratore con ruolo di dirigente di r.s.a. (per il quale il trasferimento è condizionato al nulla osta dell’Organizzazione sindacale, ex art. 22).

L’aver menzionato,  in un testo organico e caratterizzato da una ratio realisticamente omogenea, il «trasferimento» in relazione a due tipologie diverse di prestatori di lavoro – portatori di interessi non identici tra loro, per la specificità di quelli del dirigente sindacale interno – ha occasionato non poche problematiche in sede di contenzioso e opinioni difformi in dottrina ed in giurisprudenza.

Inizialmente si è sostenuto che mentre per il lavoratore normale (senza incarico sindacale direttivo) il trasferimento di cui all’art. 13 implicava una immanente «alterità spaziale», cioè a dire una dimensione geografica o topografica di allontanamento stabile (cioè non provvisorio, come la trasferta per esigenze contingenti) dalla precedente sede di lavoro, per il dirigente di r.s.a. tutelato dall’art. 22 Stat. lav. il trasferimento aveva una connotazione diversa e consisteva in qualsiasi «spostamento» anche non geograficamente significativo, da cui scaturiva l’effetto dello sradicamento dal nucleo dei lavoratori che lo avevano espresso a  r.s.a. In tal modo garantendo al dirigente di r.s.a. una tutela intuitivamente più incisiva, con il condizionamento dell’iniziativa datoriale al nulla osta sindacale anche per i cd. spostamenti interni all’unità produttiva, da un reparto ad un altro contiguo.

Quanto sopra enunciato è stato riaffermato recentemente dalla Cassazione.

Importante è il caso di una lavoratrice che propone ricorso alla Suprema Corte contro la decisione della Corte d’appello territorialmente competente che aveva rigettato l’impugnativa da lei proposta avverso il licenziamento intimatole dalla società datrice di lavoro per essersi rifiutata di eseguire la propria prestazione non più a domicilio, ma presso i locali dell’azienda.

In particolare, con il ricorso in Cassazione la dipendente si duole del fatto che la Corte di merito abbia ritenuto legittimo l’ordine aziendale di mutare il luogo della prestazione lavorativa.

Con questa recente sentenza n. 5056 del 15 marzo 2016 la Cass. Civ., Sez. Lav.,  ha ribadito che la determinazione del luogo della prestazione lavorativa rientra nella potestà organizzativa datoriale e incontra un limite solo nelle previsioni dettate in materia di trasferimento del lavoratore (cfr. tra le più recenti Cass. Civ. n. 23110 del 2010) giungendo ad affermare la legittimità del licenziamento disciplinare del lavoratore sottrattosi alla direttiva di tornare a prestare l’attività lavorativa presso i locali aziendali anziché presso il proprio domicilio, nonostante la precedente decisione di disporre il cd. “lavoro a domicilio” fosse stata presa dal datore nell’ambito di proprie esigenze produttive ed organizzative, in quanto non sarebbe possibile ravvisare un’autonoma unità produttiva presso il domicilio del dipendente, ove al massimo è possibile rinvenire una cd. “dipendenza aziendale” rilevante ai fini di cui all’art. 413 c.p.c.

Sentenza collegata

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