Il processo tributario e il principio del termine ragionevole di durata del processo

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L’art. 6 della legge 4-8-1955 n. 848, la quale ha ratificato la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, stabilisce che: “Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale e costituito per legge, che decide sia in ordine alla controversia sui suoi diritti e obblighi di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale derivata contro di lei”.

A dare più concreta attuazione a detti principi, è intervenuta la L. n. 89/01 (c.d. Legge Pinto), la quale prevede che la violazione del principio della ragionevole durata del processo dà diritto ad ottenere un’equa riparazione per eventuali danni patiti.

Dispone, infatti, l’art. 1 della citata legge che: “Chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo…sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6…ha diritto ad un’equa riparazione”.

Nell’accertare la violazione il giudice deve valutare la complessità del caso, il comportamento delle parti, del giudice e di ogni altra autorità intervenuta. Il risarcimento è determinato ai sensi dell’art. 2056 c.c. (danno emergente e lucro cessante); è dovuta, inoltre, la riparazione per il danno morale. Il danno va quantificato con esclusivo riferimento al periodo di tempo eccedente quello della ragionevole durata del processo. (Art. 2).

La ragionevole durata del processo, non essendo quantificata, va desunta con riferimento anche alla complessità del caso e sottraendo i segmenti temporali attribuibili all’iniziativa delle parti, con l’onere di dimostrare il nesso tra il cattivo funzionamento del processo e l’incidenza della sua durata. (In tal senso Cass. S. U. n. 34559/2002).

La domanda di equa riparazione va proposta con ricorso che deve essere sottoscritto da un difensore munito di procura speciale. “L’istanza va avanzata nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del Ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare, del Ministro delle finanze quando si tratta di procedimenti del giudice tributario. Negli altri casi è proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri”. (Art. 3).

La legge costituzionale n. 2/98 ha novellato l’art. 111 Cost., “costituzionalizzando”, in tal modo, il principio del “termine ragionevole di durata del processo.”

Pertanto, non può sfuggire l’assunto che il processo, con riguardo all’art. 111 della Costituzione innovato, deve essere altresì un “giusto processo tributario”.

Tanto premesso, ci si chiede se l’irragionevole durata dei procedimenti instaurati dinanzi alle Commissioni Tributarie possa dare luogo al ristoro dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti dal ricorrente e, quindi, se quest’ultimo possa convenire dinanzi alla Corte D’Appello il Ministero delle Finanze, per violazione degli artt. 111 Cost., 2 e 3 della L. n. 89/2001, 2043 e 2056 del codice civile.

La problematica in questione è stata oggetto di diverse pronunzie da parte della Corte di Cassazione.

Poiché la Legge “Pinto” è strumentale all’attuazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il giudice nazionale deve interpretare tale convenzione in conformità agli indirizzi espressi dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, che ne assicura l’uniforme applicazione.

La delicata questione, pertanto, è stata risolta in senso negativo dalla Suprema Corte, in conformità alle indicazioni emergenti dalla Giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, e tutte nel senso della non estensibilità del campo di applicazione dell’ari. 6 della Convenzione alle controversie tra il cittadino ed il Fisco aventi ad oggetto provvedimenti impositivi, stante l’estraneità ed irriducibilità di tali vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile, cui ha riguardo la già citata norma pattizia. (Cass. Sez. Trib. n.17139/2004, n. 11350/2004 e n. 18739/2004).

Recentemente la Suprema Corte ha dato, inoltre, continuità al principio così affermato, consolidando tale orientamento giurisprudenziale. (In tal senso, Cass. Civ. n. 21653/05).

Vadiamo quali siano le premesse argomentative e i fondamenti logico-giuridici sottesi a tale filone giurisprudenziale.

Occorre porre l’accento, anzitutto, sul collegamento genetico e funzionale, testualmente ed univocamente postulato dall’art. 2 della citata legge nazionale, con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Come affermato anche in recenti pronunzie delle Sezioni Unite (nn. 1338 e 1340 del 2004), la Legge n. 89/2001 è stata, infatti, emanata al fine di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare quel principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, sul quale si fonda il sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo. Da tale principio deriva che gli Stati, i quali hanno ratificato la Convenzione, debbano riconoscere a tali diritti una protezione effettiva, tale, cioè, da porre rimedio alle eventuali loro violazioni, senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo.

La legge cosiddetta “Pinto” ha, quindi, posto riparo alle precedenti inadempienze dell’Italia, restituendo all’intervento della Corte europea il carattere suo proprio di sussidiarietà (e non di supplenza) rispetto all’intervento interno. Da ciò la perfetta simmetria di contenuto della norma nazionale rispetto alla prescrizione comunitaria, nel senso e per la ragione che il meccanismo riparatorio, introdotto dal legislatore italiano, mira ad assicurare al ricorrente una tutela analoga a quella che egli riceverebbe nel quadro della istanza internazionale. Il riferimento diretto all’art. 6 della CEDU (all’uopo inserito nel testo dell’art. 2) consente, infatti, di trasferire, sul piano interno, i limiti di applicabilità della medesima disposizione esistenti sul piano internazionale.

Occorre sottolineare, inoltre, il valore conformativo, in termini di diritto vivente, che riveste la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in relazione alla definizione e delimitazione della portata applicativa della fattispecie disciplinata dalla norma europea (art. 6), alla cui violazione il nostro legislatore ha inteso porre rimedio con il meccanismo riparatorio, che qui viene in discussione.

La ricordata simmetria tra i due piani (interno ed internazionale) di tutela dei diritti dell’uomo, coessenziale all’attuazione del principio di sussidiarietà si realizza, in altri termini, conformando la fattispecie violata, alla quale è ricollegata l’equa riparazione di cui alla L. n. 89/2001, a quella disegnata dalla norma comunitaria di riferimento, così come delineata dall’esegesi della Corte di Strasburgo.

In realtà, poiché il fatto costitutivo del diritto, attribuito dalla L. n. 89/2001, consiste in una determinata violazione della Convenzione, spetta alla Corte Europea dei diritti dell’uomo individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico, il quale, pertanto, finisce con l’essere “conformato” dalla predetta Corte, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all’applicazione della L. n. 89/2001, ai giudici italiani.

È d’uopo richiamare, inoltre, gli arresti, anche recenti, della Corte Europea, che hanno escluso, dall’area di operatività dell’art. 6 della CEDU, le controversie tra il cittadino ed il Fisco aventi ad oggetto provvedimenti impositivi. La Corte ha sottolineato la necessità che sia essa stessa a determinare “in modo autonomo” la nozione di controversia in materia civile e di controversia in materia penale (in relazione all’ambito in cui è tutelato dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU il diritto alla ragionevole durata del processo), poiché qualsiasi altra soluzione rischierebbe di portare a risultati incompatibili con l’oggetto e la portata della Convenzione. A tal fine, la Corte ha poi avuto occasione di escludere che rientrino nella sfera di applicazione della Convenzione le controversie relative ad obbligazioni, pur di natura patrimoniale, che “risultino da una legislazione fiscale” ed attengano, invece che a diritti di natura civile, a doveri civici “imposti in una società democratica.”

In un più recente indirizzo giurisprudenziale (Ferrazzini c. Italia del 12/07/01) la Corte Europea dopo aver verificato (alla luce dei cambiamenti intervenuti nella società con riguardo alla tutela concessa agli individui nei loro rapporti con lo Stato) se il campo di applicazione dell’art. 6 della CEDU dovesse, o meno, estendersi alle vertenze relative alla legittimità dei provvedimenti dell’Amministrazione finanziaria, ha ancora una volta ribadito la estraneità ed irriducibilità delle suddette vertenze al quadro di riferimento delle liti in materia civile, cui ha riguardo la più volte citata norma convenzionale. La Corte ha, pertanto, rimarcato che “le evoluzioni verificatesi nelle società democratiche non riguardano la natura essenziale dell’obbligazione per gli individui di pagare le tasse”, poiché “la materia fiscale fa parte ancora del nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica”.

Del resto, come è noto, la CEDU contempla due diverse aree di tutela dei diritti fondamentali: quella della materia civile e quella della materia penale. Da tale dicotomia (della quale è sintomatico proprio l’ari. 6, sul diritto a un processo equo) viene marginalizzata la materia pubblicistica, come si desume in particolare dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale, dedicato alla “Protezione della proprietà.” La norma, dopo avere affermato la salvaguardia del diritto di proprietà, chiarisce che la suddetta tutela non può portare “pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale, o per assicurare il pagamento delle imposte, o di altri contributi, o delle ammende”. In altri termini, è opinione diffusa che l’art. 1 del primo Protocollo addizionale ponga una deroga al principio di protezione della proprietà, al fine di consentire il più ampio e libero esercizio della potestà impositiva degli Stati, massima espressione della loro sovranità. In sostanza, si ritiene che la norma è orientata a estraniare la fiscalità dall’area della “materia civile” e, quindi, dal campo di applicazione della CEDU.

Da ciò la conclusione, per quel che qui rileva, che l’equa riparazione prevista dalla legge nazionale per la violazione dell’art. 6, paragrafo 1 della CEDU non è riferibile all’eventuale eccessiva protrazione della durata di controversie involgenti la potestà impositiva dello Stato, che restano escluse dal quadro di tutela della norma comunitaria.

Si è, infine, rimarcato, nelle sentenze della Corte, che siffatta conclusione non è contraddetta dalla previsione dell’art. 3 della Legge “Pinto”, che include, tra i soggetti legittimati passivi rispetto all’azione di riparazione, anche il Ministero delle finanze, quando si tratti di procedimenti tributari. Detta ultima disposizione, per la sua natura di norma processuale attinente alle forme di esercizio del diritto, non potrebbe immutare ed ampliare i contenuti della tutela, quale definita e circoscritta dalla normativa di portata sostanziale, di cui al precedente art. 2 della legge citata. La norma, infatti, va letta in modo assolutamente coerente con il complessivo impianto sistematico della legge nazionale e della Convenzione. La sua riferibilità, pertanto, si estende a quelle (e soltanto a quelle) controversie di competenza del giudice tributario, che siano riferibili: a) alla materia civile, in quanto riguardanti pretese del contribuente che non investano la determinazione del tributo, ma solo aspetti a questa consequenziali, come nel caso, ad esempio, del giudizio di ottemperanza a un giudicato del giudice tributario ex art. 70 del D.Lgs. n. 546/1992, o in quello (anch’esso di competenza di quel giudice come rammentato da Cass. n. 18208/2003), di giudizio vertente sull’individuazione del soggetto di un credito di imposta non contestato nella sua esistenza, o di giudizio riguardante rimborsi di imposte non dovute; b) alla materia penale, intesa quest’ ultima (secondo la “nozione autonoma” elaborata anche per tale profilo dalla giurisprudenza della CEDU, di cui il giudice nazionale deve tenere conto), come comprensiva anche delle controversie relative alla applicazione di sanzioni tributarie, ove queste siano commutabili in misure detentive, ovvero siano, per la loro “gravità”, assimilabili sul piano dell’ afflittività ad una sanzione penale. (Janoseviv c. Svezia 23 luglio 2002; Cass. Civ. n. 21653/05).

In conclusione, l’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte resta attualmente ancorato al principio secondo cui il processo tributario non è soggetto al vincolo del termine ragionevole, anche se rimane tuttora incerto l’ambito delle controversie “paratributarie”, nelle quali il principio, invece, troverebbe applicazione.

Frisco Caterina

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