Il principio di non contestazione ex art. 115 c.p.c. in un caso di mancata contestazione di conteggi nel rito del lavoro. Note a margine della sentenza della Corte di Cassazione civile, Sez. Lavoro, 6 agosto 2019, n. 20998 e breve trattazione del principio con riferimento sia al processo ordinario che a quello del lavoro

Redazione 16/04/20
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di Giulia Baruffaldi*

* Avvocato

Sommario

1. Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro, 6 agosto 2019, n. 20998: massima

2. La vicenda del caso di specie ed il contenuto della decisione

3. Le principali questioni poste in luce dal provvedimento: l’attinenza del principio di non contestazione ai fatti dedotti in giudizio e le fondamentali differenze con il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato

4. Breve trattazione del principio di non contestazione con riferimenti dottrinali e giurisprudenziali

5. Riflessioni conclusive

1. Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro, 6 agosto 2019, n. 20998: massima

Corte di Cassazione civile, Sez. lavoro, 6 agosto 2019, n. 20998

Nei procedimenti che seguono il rito del lavoro, il principio di non contestazione, con riguardo ai conteggi elaborati dal ricorrente ai fini della quantificazione del credito oggetto della domanda, impone la distinzione tra la componente fattuale e quella normativa dei calcoli, nel senso che è irrilevante la non contestazione attinente all’interpretazione della disciplina legale o contrattuale della quantificazione, appartenendo al potere-dovere del giudice la cognizione di tale disciplina, mentre rileva quella che ha ad oggetto i fatti da accertare nel processo e non la loro qualificazione giuridica“.

2. La vicenda del caso di specie ed il contenuto della decisione

Con la recente sentenza in commento, la Sezione Lavoro della Suprema Corte è tornata ad occuparsi dell’applicazione del c.d. “principio di non contestazione” nel rito speciale del lavoro, con specifico riferimento al tema dei conteggi elaborati dal ricorrente ai fini della quantificazione del credito oggetto della domanda di pagamento.

Nello specifico, la vicenda concreta da cui trae origine la pronuncia de qua attiene alla controversia tra il Comune di Sant’Antimo ed il Ministero dell’Interno – Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari Comunali e Provinciali ed un funzionario del Comune stesso, il quale in primo grado aveva ottenuto dal Tribunale di Napoli di essere riconfermato nell’incarico di Segretario Comunale nonché la condanna delle controparti, in via solidale tra loro, al risarcimento del danno, quantificato in complessivi euro 52.910,68.

La Corte di Appello di Napoli, decidendo sull’appello principale del Comune e su quello incidentale dell’Agenzia, confermava la decisione del giudice di prime cure in merito alla riconferma del dipendente pubblico, ma riteneva parzialmente fondato il motivo formulato avverso la quantificazione del danno patrimoniale, riducendo lo stesso all’importo di euro 25.111,27.

Il dipendente pubblico ricorreva avanti la Corte di Cassazione per la riforma della pronuncia della Corte di Appello di Napoli, sulla scorta di tre motivi, tutti ritenuti inammissibili.

Nonostante ciò, il primo motivo svolto dal ricorrente è comunque di interesse ai fini del presente lavoro poiché, pur appunto essendo stato dichiarato inammissibile, ha consentito alla Suprema Corte, come anticipato, di precisare i contorni del principio di non contestazione nel rito del lavoro e di confermarne le differenze con il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

In particolare, con il primo motivo il ricorrente, invocando proprio quest’ultimo principio, sosteneva come la Corte di Appello di Napoli avesse esaminato una parte della sentenza di primo grado che non sarebbe mai stata oggetto di contestazione da parte del Comune e dell’Agenzia, cioè la quantificazione del danno subito: secondo la ricostruzione del ricorrente, infatti, non solo il Tribunale aveva evidenziato nella sentenza di primo grado che i conteggi depositati dall’attore erano stati solo genericamente contestati dall’ente municipale ma, altresì, che l’Agenzia aveva censurato il quantum della pretesa per la prima volta in sede di appello, con conseguente impossibilità per il giudice di secondo grado di riesaminare la decisione in punto quantificazione del danno.

Aldilà, quindi, dei profili di inammissibilità di tale motivo[1], che non rilevano strettamente ai fini del presente commento, è interessante notare come la Suprema Corte abbia comunque preso spunto dalla censura del ricorrente per chiarire la corretta interpretazione del principio di non contestazione nel rito del lavoro e per fornire comunque il proprio convincimento sulla questione.

La Cassazione, infatti, dopo aver percorso l’iter argomentativo ed esaminato le questioni che verranno analizzate nel paragrafo seguente, conclude sostanzialmente respingendo nel merito la censura impropriamente posta dal ricorrente e validando la decisione sul punto della Corte di Appello: “Ne discende che, a prescindere dalla contestazione o meno dei conteggi, ben poteva essere fatta valere in appello l’erroneità della quantificazione del danno, per avere il Tribunale incluso voci retributive non spettanti, perché implicanti l’effettiva prestazione di una determinata attività, pacificamente non espletata a seguito del mancato rinnovo dell’incarico“.

[1] La Corte ha ritenuto che il primo motivo svolto dal ricorrente fosse inammissibile in quanto “[…] formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, perché non riporta, quantomeno nelle parti essenziali, il contenuto degli atti processuali rilevanti, non prodotti in questa sede e rispetto ai quali non vengono fornite indicazioni in ordine alla loro allocazione nei fascicoli d’ufficio dei diversi gradi del giudizio di merito o nei fascicoli di parte“. Il ricorrente, infatti, non ha provveduto a rispettare i vincoli formali imposti dai predetti articoli del codice di procedura civile, secondo cui è onere dello stesso indicare specificamente gli atti e i documenti su cui si fonda la censura, nonché la loro sede, affinché la Corte sia dispensata dal gravoso compito di accedere a fonti esterne e sia, quindi, posta nelle condizioni di avere completa e agevole cognizione della controversia, alla stregua del c.d. principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione.

3. Le principali questioni poste in luce dal provvedimento: l’attinenza del principio di non contestazione ai fatti dedotti in giudizio e le fondamentali differenze con il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato

Le principali questioni poste in luce dal provvedimento in esame e che hanno portato la Corte a concludere quanto poc’anzi rilevato, attengono in primis alla differenza tra il principio di non contestazione, di cui viene precisata la portata, e il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, impropriamente invocato dal ricorrente, secondo il quale la Corte di Appello di Napoli non avrebbe potuto diminuire il quantum del risarcimento per i motivi sopra enunciati.

Il ricorrente, infatti, sovrappone e confonde la regola della necessaria corrispondenza fra chiesto e pronunciato con gli effetti della mancata contestazione, pur operando i due principi su piani nettamente diversi, i quali vengono chiariti nella pronuncia in esame.

La disciplina dettata dall’art. 112 c.p.c., infatti, sancisce solo il divieto per il Giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una decisione che non trovi corrispondenza con la domanda, ma non vieta al giudice di pronunciare sulla scorta di una ricostruzione dei fatti diversa da quella prospettata dalle parti.

Il giudice violerà il predetto principio solo laddove alteri petitum o causa petendi, attribuendo al postulante un bene diverso da quello richiesto o comunque non ricompreso nella domanda[2].

Chiarito l’esatto significato del principio ex art. 112 c.p.c., la Suprema Corte precisa come non sussista alcuna violazione dello stesso nella decisione del giudice di rigettare, totalmente o parzialmente, la domanda per difetto delle condizioni della sua fondatezza, le quali ben possono essere rilevate d’ufficio, anche in grado di appello, ovviamente nei limiti delle risultanze acquisite in fase istruttoria e nei limiti del devoluto.

A tale conclusione, infatti, si perviene partendo da una corretta interpretazione del principio di non contestazione, di cui la Suprema Corte, nella sentenza in commento, ribadisce un chiaro e ben definito perimetro di applicazione:

Ciò perché la non contestazione, di cui all’articolo 115 c.p.c., comma 2, e articolo 416 c.p.c., comma 3, opera sul piano probatorio ed esclude dal tema di indagine i fatti che non siano stati espressamente contestati, ma non limita l’attività di giudizio e, quindi, non spiega effetti quanto alla qualificazione giuridica dei fatti stessi, che il giudice può compiere a prescindere dalle posizioni assunte dalle parti“.

La Suprema Corte, quindi, chiarisce come il principio di non contestazione attenga alla dimensione probatoria dei fatti e non al diverso piano dell’attività di giudizio, la quale, nei limiti delle risultanze istruttorie e del devoluto, può spingersi anche sino ad una qualificazione giuridica dei fatti diversa da quella prospettata. A tal proposito la Corte richiama i principi dalla stessa espressi da tempo, a partire dalla nota sentenza a Sezioni Unite n. 761 del 23 gennaio 2002[3], in tema di principio ex art. 115 c.p.c. applicato in particolare alla non contestazione dei conteggi, come nel caso di specie.

Infatti, come affermato dalla predetta sentenza del 2002, citata dalla pronuncia in esame, in merito agli effetti della non contestazione dei conteggi, occorre distinguere la componente fattuale di tali conteggi da quella giuridico-normativa, atteso che “per avere rilevanza, la non contestazione deve, fondamentalmente, riguardare i fatti da accertare nel processo e non la determinazione della loro dimensione giuridica“.

Il principio di non contestazione, quindi, riguarda la dimensione fattuale e non giuridica, non potendo quindi travalicare il suo ambito di applicazione per limitare impropriamente i poteri del giudice.

Alla luce dei principi sopra riassunti, si ricava la conclusione assunta dalla Suprema Corte, sezione Lavoro, la quale, pur dichiarando l’inammissibilità del primo motivo svolto dal ricorrente, conclude per l’irrilevanza o meno della contestazione in primo grado dei conteggi da parte dei resistenti, ben potendo essere fatta valere anche in sede di appello l’erroneità della quantificazione del danno nonché rilevata dallo stesso giudice sulla scorta della documentazione in atti, atteso che, nel caso di specie, il Tribunale aveva incluso nell’importo del risarcimento delle voci retributive non spettanti, in quanto esplicanti l’effettiva prestazione di una determinata attività, pacificamente non espletata a seguito del mancato rinnovo dell’incarico.

Nel caso di specie, infatti, non rileva la mancata contestazione dei conteggi in primo grado, ma la contestazione della circostanza/fatto secondo cui il ricorrente non avrebbe effettuato determinate prestazioni lavorative, con conseguente non debenza dei relativi corrispettivi.

[2] Sul punto, nello specifico, la Corte di Cassazione – sezione lavoro precisa che: “A soli fini di completezza osserva il Collegio che il ricorrente, nel momento in cui sostiene che il quantum della pretesa non poteva essere ridotto dalla Corte territoriale, pur a fronte di uno specifico motivo di appello proposto dall’Agenzia (del quale si da’ atto nel ricorso e nella sentenza impugnata), perché non specificamente contestato in primo grado, sovrappone e confonde la regola della necessaria corrispondenza fra chiesto e pronunciato, con gli effetti della mancata contestazione . Si tratta di principi che operano su piani distinti, perché la disciplina dettata dall’articolo 112 c.p.c. implica unicamente il divieto, per il giudice, di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti di causa autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti o qualifichi diversamente i fatti medesimi. Il principio della necessaria corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato può essere ritenuto violato solo qualora il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell’ambito del petitum, rilevi d’ufficio un’eccezione in senso stretto che, essendo diretta ad impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall’attore, può essere sollevata soltanto dall’interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda (in tal senso fra le più recenti Cass. n. 29200/2018)“.

[3] Non ci può esimere, visto il pregio della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 761/2002, dal citarne i punti essenziali, ponendo in luce come la stessa, dopo aver esaminato e contestato i tre principali orientamenti in materia di effetti della mancata contestazione dei conteggi nel processo del lavoro, abbia analizzato in generale e schematicamente il principio di non contestazione. In particolare, secondo le S.U.: “La non contestazione rileva diversamente a seconda dell’aspetto dell’elaborazione contabile su cui risulta concretamente riferibile. Se concerne l’interpretazione data alla disciplina legale o contrattuale della quantificazione, essa si colloca in un ambito di sostanziale irrilevanza, appartenendo al dovere-potere del giudice la cognizione di tale disciplina, che non può, dunque, essere condizionata dalle prospettazioni difensive e dai comportamenti processuali delle parti. Per avere rilevanza, la non contestazione deve, fondamentalmente, riguardare i fatti da accertare nel processo e non la determinazione della loro dimensione giuridica. […] Altro problema è, poi, quale debba essere questo apprezzamento, ovvero quali siano le conseguenze della non contestazione. Orbene, fermo restando il comune presupposto della rilevanza limitata ai casi di non contestazione di fatti, occorre nondimeno osservare che tali conseguenze variano in relazione al tipo dei fatti di cui trattasi, come suggerisce il testuale tenore delle nome, appena citate, istitutive dell’onere suddetto, lette alla luce di rilievi sistematici sulla struttura del processo in cui esse si inseriscono. Invero, non tutti i fatti processualmente rilevanti rinvengono in questo solo denominatore comune anche omogeneità di natura. Occorre, invece, distinguere i fatti costitutivi del diritto, dalle circostanze dedotte al solo fine di dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi : per riprendere l’esemplificazione di cui sopra, rispetto alla domanda di condanna al pagamento di compensi per lavoro straordinario, fatto costitutivo del diritto è l’avvenuta prestazione oltre i limiti dell’orario normale; circostanza di mero rilievo istruttorio è il comportamento del lavoratore consistente nel compiere il percorso casa-luogo di lavoro e viceversa in ore astrattamente coerenti con l’anzidetta prosecuzione della prestazione lavorativa. Posta, dunque, tale distinzione, appare agevole concludere che nei “fatti posti dall’attore a fondamento della domanda”, dei quali appunto è menzione nelle dette norme, è palesemente riconoscibile il connotato della prima categoria di fatti, potendosi della funzione fondante rispetto alla pretesa accreditare esclusivamente i fatti giuridici costitutivi della medesima. Gli artt. 167, primo comma e 416, terzo comma, imponendo al convenuto l’onere di prendere posizione su tali fatti, fanno della non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice , che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo sussistente, proprio per la ragione che l’atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell’esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti. In altri termini, la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal dettato legislativo, rappresenta, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto. […] Per i fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria, non è invece, formulabile identica conclusione. Essi, come si è detto, hanno una rilevanza che si esaurisce sul piano istruttorio, nel senso che, ove provati, il giudice può, in base ad essi, formare il suo convincimento circa l’esistenza dei fatti costitutivi del diritto . Per questa stessa ragione, essi non sono contemplati dalle norme in questione e, anche in processi di tipo dispositivo, si collocano in un’area che non è assegnabile all’esclusiva disponibilità delle parti. In quest’area, pertanto, la non contestazione viene restituita alla più generica categoria dei comportamenti non vincolanti per il giudice, ma apprezzabili liberamente come semplici argomenti di prova, ai fini del giudizio sulla sussistenza del fatto di cui trattasi. […] Ciò spiega il diverso rilievo della non contestazione, a seconda che riguardi fatti delle due diverse specie sopra indicate. Resta da rilevare che la non contestazione dell’elaborazione contabile, sotto il profilo dell’esatta osservanza delle regole tecnico-matematiche, risulta, analogamente a quella dei fatti secondari, valutabile non come manifestazione del potere di disposizione della situazione sostanziale, ma come momento del controllo di inferenza, al lume della disciplina scientifica della materia, dei dati da esaminare ai fini del contenuto della decisione, sicché essa stessa, al pari della seconda si colloca nell’area di libero apprezzamento ex art. 116, secondo comma c.p.c.” (Cass. civ. sez. un., n. 761/2002 – in F. it. 02, I, 2019, n. CEA) . Successivamente le S.U. espongono schematicamente i principi generali da seguire per decidere, caso per caso, il rilievo da attribuire al difetto di specifica contestazione dei conteggi elaborati dall’attore per la quantificazione del credito oggetto di domanda di condanna, relativamente alla quale siano intervenute soltanto contestazioni sull’esistenza del credito stesso. E questa analiticità e chiarezza rappresenta, a parere di chi scrive, uno dei motivi di pregio della pronuncia.

4. Breve trattazione del principio di non contestazione con riferimenti dottrinali e giurisprudenziali

La sentenza in commento, oltre a confermare la posizione maggioritaria della Suprema Corte in merito all’applicazione del principio di non contestazione in relazione allo specifico tema dei conteggi nel rito del lavoro, offre l’occasione di approfondire la portata generale di detto principio, nonché di dare conto brevemente degli ultimi approdi di giurisprudenza e dottrina sul tema.

Anzitutto, per principio di non contestazione si intende generalmente la regola processuale secondo cui, nel processo civile avente ad oggetto diritti e rapporti disponibili, i fatti allegati da una parte, che non siano stati espressamente contestati dall’altra, non hanno bisogno di essere provati.

Tale regola processuale costituisce, evidentemente, una deviazione rispetto alla regola generale dell’onere della prova sancita dall’art. 2697 c.c. e, di seguito, si esporrà la genesi ed il fondamento codicistico del predetto principio, nonché si esamineranno le diverse posizioni di giurisprudenza e dottrina in merito.

In particolare, l’art. 115 c.p.c. dispone, al primo comma, che “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita“.

Tale norma, novellata nel 2009, ha codificato il c.d. “principio di non contestazione” secondo cui, alla luce della giurisprudenza parrebbe maggioritaria, la mancata contestazione di un fatto esonera l’altra parte da ogni onere probatorio in relazione allo stesso, integrando una sorta di “presunzione processuale”, atteso che l’esigenza di prova al riguardo sorgerebbe solo quando il fatto sia contestato dalla controparte.

In altre parole, se una parte processuale non contesta un fatto dedotto dalla controparte nei termini processuali a ciò predefiniti, tale fatto non abbisogna di prova che, a causa della mancata contestazione, diviene superflua.

Del resto, tale principio generale trovava e trova conferma (ben prima della riforma del 2009) nella formulazione degli articoli 167 e 416 c.p.c., i quali impongono al convenuto l’onere di contestare specificamente i fatti dedotti dall’attore.

In particolare, con specifico riferimento al rito del lavoro, si richiama l’art. 416, 3 comma c.p.c., secondo cui, con riferimento alla costituzione del convenuto: “Nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare“.

Inoltre, ancora prima della novella del 2009, le Sezioni Unite della Suprema Corte avevano di fatto avallato il “principio di non contestazione”, successivamente normativizzato con la riforma dell’art. 115 c.p.c., con la nota e già supra citata sentenza a Sezioni Unite n. 761/2002, secondo cui “[…] la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal dettato legislativo, rappresenta, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto […] e, quindi, rende inutile provarlo, perché non controverso“.

Quindi, in materia di diritti disponibili, sulla scorta di tale tesi il fatto costitutivo non contestato dovrebbe essere ritenuto sussistente, senza alcun bisogno di prova, e a tale conclusione si perviene partendo dal presupposto secondo cui gli artt. 167 e 416 c.p.c. stabiliscono un vero e proprio onere di contestazione gravante sul convenuto.

Secondo la ricostruzione operata dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, quindi, la non contestazione comporta che il fatto de quo sia definitivamente espunto dal thema probandum.

La prevalente dottrina, tuttavia, da tempo avversa la tesi sopra riferita, resa significativa dalla posizione assunta dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, sostenendo come il principio in questione non possa essere il riflesso nel processo del principio dispositivo, affermando l’impossibilità di assimilare la non contestazione ad un atto di natura negoziale (vedasi TARUFFO, La semplice verità 09, 122 ss.).

L’effetto della non contestazione, quindi, non sarebbe la prova immediata del fatto non contestato, bensì si risolverebbe in quello della relevatio ab onere probandi a favore della parte che ha allegato il fatto non contestato, in quanto la pacificità di un fatto allegato al processo potrebbe derivare soltanto dall’ammissione espressa della sua esistenza o da un contegno processuale della parte inequivocabile.

La non contestazione, inoltre, non avrebbe alcun effetto vincolante per il giudice, rimanendo il fatto non contestato come incerto ed ancora passibile di essere provato.

Si rileva come, a seguito della riforma del 2009, sia sorto un ampio dibattito dottrinale avente ad oggetto il principio di non contestazione e gli effetti della novella (v. tra gli altri SASSANI, L’onere della contestazione, Giusto p. civ. 10, 401 s.s.; TEDOLDI, La non contestazione nel nuovo art. 115 c.p.c., R. d. proc. 11, 76 s.s.; DEL CORE, Il principio di non contestazione è diventato legge, Giust. Civ. 09, II, 273 ss.; MAERO, Il principio di non contestazione prima e dopo la riforma, Giusto p. civ. 10, 455 ss.; PACILLI, Osservazioni sul principio di non contestazione, R. trim. 11, 299 ss.; SANTANGELI, La non contestazione come prova liberamente valutabile, www.judicium.it 10; ROTA, in TARUFFO, Il processo, 181 s.s.; DE VITA, Onere di contestazione e modelli processuali, 12, 1 s.s. – rassegna dottrinale reperita in CEDAM, Commentario breve al Codice di Procedura Civile, nona edizione, pag. 483), la quale, tuttavia, non ha risolto il principale problema, cioè quello di verificare se e in che misura il legislatore abbia inteso aderire o meno all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite del 2002 circa il fondamento e gli effetti della non contestazione, oppure abbia recepito l’orientamento dottrinale secondo cui la non contestazione opererebbe soltanto una sorta di dispensa dal provare i fatti non contestati a vantaggio della parte che ha allegato questi ultimi (v. SASSANI, op. cit., 413 s.; FABIANI, F. it 10, I, 476 s.).

Se, infatti, da un lato si continua a ribadire che dalla non contestazione di un fatto scaturiscano effetti vincolanti per il giudice, il quale dovrebbe astenersi da qualsivoglia controllo probatorio e ritenere il fatto come provato (vedasi Cass. Civ., sentenza n. 12517/2016 in CEDAM, Commentario breve al Codice di Procedura Civile, nona edizione, pag. 483; Cass. Civ., Sez,. 3, sentenza n. 8647/2016; Cass. Civ., Sez. 6, ord. 15394/2016; Cass. Civ., Sez. 1, ord. n. 21227/2019), dall’altro lato, principalmente con riferimento al rito del lavoro, si afferma la possibilità, per il giudice, di accertare d’ufficio l’esistenza o l’inesistenza di un fatto non contestato in base alle risultanze ritualmente acquisite (vedasi Cass. Civ., ord. n. 26395/2016 in CEDAM, Commentario breve al Codice di Procedura Civile, nona edizione, pag. 483).

Ad esempio, la Suprema Corte, sulla scia di quest’ultimo orientamento, in una controversia avente ad oggetto la quantificazione di una parcella professionale, ha di recente ristretto gli effetti del principio di non contestazione, specificando come un fatto, per dirsi non contestato dal convenuto e non richiedente specifica prova, debba essere esplicitamente ammesso dal convenuto oppure difesa dello stesso debba fondarsi su fatti o argomentazioni incompatibili con il disconoscimento del fatto, imponendo, altresì, alla parte che invochi detto principio, di aver comunque per prima ottemperato all’onere probatorio posto a suo carico (v. Cass. Civ., Sezione 2, ord. n. 13828/2019[4]).

Con specifico riferimento, infine, al principio di non contestazione nel rito del lavoro, si segnalano le seguenti sentenze emesse di recente dalla Suprema Corte.

In particolare, in senso parzialmente contrario alla sentenza in commento, si segnala la sentenza della Suprema Corte, sezione Lavoro n. 21302/2019, secondo cui la mancata specifica contestazione dei conteggi in primo grado da parte del convenuto, comporta l’accertamento degli stessi in via definitiva[5].

Non mancano, tuttavia, numerose pronunce conformi alla sentenza in nota, tra cui le sentenze Cass. Civ., sez. Lavoro n. 7843/2018 e Cass. Civ., sez. Lavoro n. 15775/2019.

Da ultimo, si evidenzia la sentenza Cass. Civ., sez. Lavoro n. 2008/2020, la quale ha specificato come sia “consolidato il principio secondo cui l’onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti alla parte, non anche per quelli ad essa ignoti (così da ult. Cass. n. 87 del 2019, sulla scorta di Cass. n. 14652 del 2016), e concerne precipuamente i fatti oggetto di compiuta allegazione negli atti introduttivi, non estendendosi né ai giudizi, né a tutte quelle attività valutative compiute dalla parte che comportino il confronto di un certo fatto con regole di matrice legale o negoziale (così, fra le più recenti, Cass. n. 23445 del 2019)“.

[4] Sul punto la sentenza citata stabilisce che: “Alla stregua del principio di non contestazione, richiamato dall’articolo 115 c.p.c., perché un fatto possa dirsi non contestato dal convenuto, e perciò non richiedente una specifica dimostrazione, occorre o che lo stesso fatto sia da quello esplicitamente ammesso, o che il convenuto abbia improntato la sua difesa su circostanze o argomentazioni incompatibili col disconoscimento di quel fatto. D’altro canto, l a parte che invoca il cosiddetto principio di non contestazione dovrebbe dare dimostrazione di aver essa per prima ottemperato all’onere processuale, posto a suo carico, di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa , in merito ai quali l’altra parte era tenuta a prendere posizione; ne discende che l’enunciazione delle prestazioni professionali dedotte a sostegno della domanda di pagamento del compenso, operata mediante rinvio alla documentazione allegata, esonera comunque il convenuto dall’onere di compiere una contestazione circostanziata, perché ciò equivarrebbe a ribaltare sullo stesso convenuto l’onere di allegare il fatto costitutivo dell’avversa pretesa (arg. da Cass. Sez. 3, 17/02/2016, n. 3023). La non contestazione scaturisce, pertanto, dalla non negazione del fatto costitutivo della domanda , di talché essa non può comunque ravvisarsi ove, come nella specie, a fronte di una pretesa creditoria fondata sullo svolgimento di prestazioni professionali, il cliente abbia radicalmente opposto che nessun corrispettivo fosse stato pattuito e che le prestazioni “negligentemente rese dall’attore” attenessero alla competenza dei commercialisti e non dei consulenti del lavoro (cfr. Cass. Sez. 3, 24/11/2010, n. 23816; Cass. Sez. 3, 19/08/2009, n. 18399; Cass. Sez. 3, 25/05/2007, n. 12231; Cass. Sez. L, 03/05/2007, n. 10182; Cass. Sez. 3, 14/03/2006, n. 5488). E’ altrettanto costante, del resto, l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui, nel giudizio di cognizione avente ad oggetto il pagamento di prestazioni professionali documentato da parcelle, allorché il cliente svolga una contestazione soltanto generica in ordine all’espletamento ed alla consistenza dell’attività che si assuma prestata, il giudice rimane comunque investito del potere-dovere di verificare il quantum debeatur, costituendo la parcella una semplice dichiarazione unilaterale del professionista, sul quale perciò rimangono i relativi oneri probatori del credito azionato ex articolo 2697 c.c. (Cass. Sez. 2, 11/01/2016, n. 230; Cass. Sez. 2, 30/07/2004, n. 14556; Cass. Sez. 2, 25/06/2003, n. 10150)

[5] Si cita letteralmente la pronuncia laddove stabilisce che “Questa Corte ha ripetutamente affermato che nel rito del lavoro, il convenuto ha l’onere della specifica contestazione dei conteggi elaborati dall’attore, ai sensi dell’articolo 167 c.p.c., comma 1, e articolo 416 c.p.c., comma 3, e tale onere opera anche quando il convenuto contesti in radice la sussistenza del credito, poiché la negazione del titolo degli emolumenti pretesi non implica necessariamente l’affermazione dell’erroneità della quantificazione, mentre la contestazione dell’esattezza del calcolo ha una sua funzione autonoma, sia pure subordinata, in relazione alle caratteristiche generali del rito del lavoro, fondato su un sistema di preclusioni diretto a consentire all’attore di conseguire rapidamente la pronuncia riguardo al bene della vita reclamato. Ne consegue che la mancata o generica contestazione in primo grado rende i conteggi accertati in via definitiva, vincolando in tal senso il giudice (cfr. ex plurimis Cass. n. 4051 del 2011, Cass. n. 10116 del 2015, Cass. n. 29236 del 2017, Cass. n. 5949 del 2018)

5. Riflessioni conclusive

Alla luce della sentenza esaminata, nonché dal raffronto con le altre recenti pronunce della Suprema Corte sul tema, si ritiene che la riforma del 2009 relativa all’art. 115 c.p.c. e la successiva sentenza a Sezioni Unite del 2002, non siano riuscite nell’intento di uniformare e chiarire definitivamente l’interpretazione del c.d. principio di non contestazione, il quale, nella sua ampiezza, rimane inevitabilmente soggetto alle più ampie e diverse argomentazioni.

Il principale problema, quindi, sembra sempre risiedere nella interpretazione della novella del 2009, dovendocisi interrogare se ed in che misura il legislatore abbia inteso aderire alla posizione

inaugurata dalla Suprema Corte a Sezioni Unite nel 2002, oppure abbia recepito l’orientamento della dottrina secondo cui la non contestazione provocherebbe soltanto una inversione dell’onere della prova a vantaggio della parte che ha allegato il fatto non contestato.

Ad oggi, sul punto non pare esservi ancora una risposta univoca.

Si potrebbe auspicare, pertanto, un ulteriore intervento della Suprema Corte a Sezioni Unite, se risolutivo, o, meglio, una modifica legislativa che espliciti più chiaramente le concrete intenzioni del legislatore.

Redazione

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