Il principio della buona fede in diritto civile

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La buona fede (dal latino bona fides) costituisce un generico dovere che caratterizza l’intera legislazione civilistica italiana, con particolare relazione all’ambito dei contratti.

In una prima approssimazione, essa comporta la convinzione genuina del soggetto di agire in modo corretta, vale a dire senza malizia, e nel sostanziale rispetto delle regole, anche non scritte, e degli altri soggetti.

Il suo contrario è la malafede.

Il principio di buona fede è carattere che ricorre nella tradizione giuridica occidentale, secondo il quale i rapporti tra soggetti giuridici non devono essere fondati esclusivamente sul timore della sanzione, ma anche sulla correttezza.

La buona fede nel diritto italiano

La dottrina italiana mette una netta distinzione tra due categorie autonome di buona fede.

Una in senso soggettivo e l’altra in senso oggettivo.

La buona fede in senso soggettivo

La buona fede soggettiva o in senso soggettivo è l’ignoranza di ledere un altrui interesse giuridicamente tutelato.

Compare nel codice civile come requisito della regola “possesso vale titolo” (art. 1153 c.c.) e di conseguenza viene definita dal fondamentale articolo 1147 del codice civile in relazione al possesso, nonostante la definizione sia pienamente valevole anche per ogni altra circostanza giuridica.

L’articolo 1147 del codice civile, rubricato “possesso di buona fede” recita:

È possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto (535). La buona fede non giova se l’ignoranza dipende da colpa grave. La buona fede è presunta e basta che vi sia stata al tempo dell’acquisto.

La buona fede implica di conseguenza l’assenza della consapevolezza del danno che eventualmente si stia procurando a un’altra persona o del fatto che si stia contravvenendo o aggirando delle norme. L’articolo fornisce anche alcune basilari nozioni di contorno sulla generica presunzione di buona fede, salva diversa disposizione normativa, sulla suddetta presunzione non cade per sopravvenuta conoscenza della lesione del diritto altrui (mala fides superveniens non nocet), sull’assenza di buona fede nel caso di colpa grave, anche se non ci sia consapevolezza della lesione del diritto altrui).

La disposizione si occupa del possesso di buona fede, istituto giuridico che viene in rilievo se chi esercita un potere di fatto sulla cosa non ha la consapevolezza di causare a terzi la lesione di un diritto da essi vantato sulla cosa, sempre che una simile ignoranza non sia causata da colpevole trascuratezza, e si verifichi al momento dell’acquisto del possesso.

Qualificare il possesso come di buona fede rileva ai fini dell’individuazione dei suoi effetti.

Negli articoli precedenti, in materia di possesso di buona fede, a parte migliorare le disposizioni dal lato formale, il codice ha introdotto due innovazioni di carattere sostanziale, che sono l’abolizione dell’esigenza di un giusto titolo a fondamento del possesso di buona fede, salvo che per determinati effetti e l’sclusione dell’efficacia della buona fede, ogni volta che l’ignoranza, nella quale la stessa consiste, dipenda da colpa grave.

Allo stesso modo, l’una e l’altra innovazione sono da approvare.

La buona fede in senso oggettivo

La buona fede oggettiva o in senso oggettivo è il dovere di reciproca correttezza nei rapporti tra soggetti giuridici, ed è richiesta dal legislatore nelle fasi fisiologiche dell’atto negoziale.

Nelle trattative (art. 1337), dove esempio di mancanza di buona fede è l’improvvisa e immotivata rottura delle stesse quando la controparte aveva motivo di credere che le stesse sarebbero arrivate al termine.

La violazione del dovere di buona fede comporta di regola l’obbligazione di risarcire il danno (c.d. “prenegoziale”) causato alla controparte, durante la pendenza della condizione che gravi sul contratto (art. 1358 c.c.), nell’interpretazione del contratto (art.1366), nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.).

Ai sensi dell’articolo 1324 del codice civile, queste previsioni si applicano anche ai negozi unilaterali a contenuto patrimoniale tra vivi, salva specifica previsione normativa.

La vaghezza che caratterizza queste prescrizioni alla buona fede ha dato ampio spazio al lavoro dottrinale e giurisprudenziale per un loro più concreto inquadramento.

Secondo l’opinione maggioritaria, la buona fede oggettiva si sostanzierebbe in due principali doveri, quello alla lealtà e quello alla salvaguardia.

Il primo impone ai contraenti il dovere di tutelare il reciproco affidamento, ossia di comportarsi in ciascuna delle fasi della vita del contratto attribuendo alle reciproche dichiarazioni o contegni il loro significato sociale tipico e, conseguentemente, di non indurre o speculare sui fraintendimenti della controparte

Il secondo impone ai contraenti uno sforzo, entro la normale esigibilità e non tale da imporre un rilevante sacrificio, rivolto alla tutela degli interessi che la controparte ha inteso perseguire attraverso il regolamento contrattuale, indipendentemente da un’obbligazione giuridica in questo senso.

In altre parole, mira alla conservazione dell’utilità del contratto non solo per sé ma anche per la controparte.

Questo dovere di salvaguardia si distingue dal concetto di diligenza, che investe la disciplina dell’adempimento dell’obbligazione, è più forte del primo e richiede al debitore un adeguato utilizzo delle proprie energie e dei propri mezzi per procurare al creditore l’esatto adempimento, entro la ragionevolezza del sacrificio richiesto, oltre la quale si verrebbero ad evidenziare gli estremi dell’impossibilità sopravvenuta, con conseguente estinzione dell’obbligazione.

Il principio di salvaguardia è relativo a un principio di solidarietà contrattuale tra le parti, indipendentemente da una sussistenza di specifiche obbligazioni che impongano il perseguimento di un determinato risultato.

La buona fede e l’ordine pubblico

In dottrina, ancora oggi si discute se la buona fede agisca esclusivamente dove espressamente richiamata dal codice civile, oppure si possa rintracciare un obbligo per i consociati di comportarsi correttamente, la quale violazione rilevi come responsabilità contrattuale.

Per la seconda soluzione, nel nostro ordinamento l’obbligo di buona fede andrebbe a cadere nell’ambito dell’ordine pubblico.

Intesa come clausola di comportamento, non ci sono che in materia contrattuale esplichi il principio di solidarietà enucleato all’articolo 2 comma 2 della Costituzione, il quale, sotto la sua vigenza non può non caratterizzare l’intero ordinamento italiano.

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