Il prima e il dopo covid19 nel segno dell’etica professionale

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Premessa

Nel recente periodo in cui abbiamo dovuto osservare rigide regole antipandemiche è stato spesso ripetuto l’auspicio che il “dopo” debba necessariamente essere migliore del “prima”.

Ciascuno, nella propria area di interesse, avrà forse elaborato il suo convincimento su quel che sarà e, poiché l’ordinamento che governa i rapporti tra i cittadini nelle diverse sfere di interesse rimane comunque immodificato nella precipua funzione di salvaguardia e tutela di quei valori e principi che sono alla base di ogni società democratica, ritengo utile un richiamo a quelli che sono specifici dell’attività svolta dall’avvocato.

Ebbene, vale innanzitutto porre in risalto il fatto che l’avvocatura, proprio nel rispetto del rilievo costituzionale della difesa giudiziale, ha posto sempre una cura particolare e severa alla regolamentazione della propria professione.

Morale ed etica

E ciò, si badi bene, non è stato dettato da una esigenza di adeguare il proprio comportamento a quella morale che governa la vita sociale di un popolo e che viene coltivata nella coscienza di ogni cittadino, ma è stata sempre avvertita l’esigenza di dare concretezza in tanto ai dettati di una etica professionale in quanto questa costituisce la linfa dell’attività  dell’avvocato.

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E’ pur vero che il codice deontologico stabilisce che i doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza, lealtà, correttezza,  diligenza e competenza, devono essere osservati anche  al di fuori dell’attività professionale,  nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine  della professione forense.(art. 9 ivi) ma ciò non va inteso in chiave moralistica.

La morale di un popolo può modificarsi nelle varie epoche, ma l’etica professionale rimane sempre invariata.

In senso generale la morale può essere definita come quell’insieme di valori e di regole, su cui vengono elaborate norme di carattere generale a guida dei comportamenti umani, condivise da un gruppo sociale in una determinata epoca storica.

Si pensi che non più di quaranta anni fa era ritenuto grave illecito disciplinare il fatto che un avvocato tenesse in sospeso il conto dal droghiere.

Val bene precisare che, mentre la morale (dal latino mos moris «costume», coniato da Cicerone) si riferisce ai costumi, cioè al vivere pratico, in quanto comporta una scelta consapevole tra azioni ugualmente possibili, ma alle quali compete o si attribuisce valore diverso o opposto (bene e male, giusto e ingiusto), l’etica, invece, è la dottrina filosofica intorno al comportamento pratico dell’uomo, che ha per oggetto queste regole e questi valori e unisce un aspetto descrittivo, della condotta morale e dei valori di fatto a cui si ispira, a un aspetto normativo con l’indicazione dei valori e dei criteri che dovrebbero essere seguiti

Orbene, l’etica professionale, si definisce come l’insieme dei doveri strettamente inerenti alle attività professionali svolte nella società.

E, pertanto, anche l’avvocatura, come tutte le altre libere professioni, ha proceduto all’autoregolazione della propria professione nel senso di imporsi un insieme di norme riguardanti i diritti e, soprattutto, i doveri e le responsabilità dell’avvocato nei suoi rapporti con i clienti e con i colleghi.

Il Codice Deontologico Forense

Ebbene, il Codice Deontologico Forense, approvato dal Consiglio nazionale forense nella seduta del 31 gennaio 2014 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale n. 241 del 16 ottobre 2014, modificato nella seduta amministrativa del 23 febbraio 2018 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 86 del 13 aprile 2018, in vigore dal 12 giugno 2018, contiene una norma che si può ritenere di importanza primaria e cioè a dire l’art. 10 laddove viene sancito che l’avvocato deve adempiere fedelmente il mandato ricevuto, svolgendo la propria attività a tutela dell’interesse della parte assistita e nel rispetto del rilievo costituzionale e sociale della difesa (dovere di fedeltà).

Principi di etica professionale trascurati

Premesso quanto sopra, possiamo affrontare l’argomento che ci ha affannato nel periodo “prima” (del coronavirus), per poterlo esorcizzare per il periodo “dopo” e che riguarda un sempre più insistente malessere dovuto alla richiesta e percezione di somme di denaro da parte del difensore, scelto tra coloro che si sono iscritti agli elenchi dei patrocinatori a spese dello Stato, direttamente dal proprio assistito.

Ciò verrebbe giustificato in diversi modi (in ogni caso perdenti), come quello, per esempio, che si tratterebbe di una integrazione da parte del cliente di quello che sarebbe il reale compenso maturato per l’opera prestata e parzialmente liquidato dall’autorità giudiziaria.

Ebbene, vale rammentare che, come sopra accennato, il rapporto con l’assistito da parte dell’avvocato, libero di accettare l’incarico, è fondato sulla fiducia (art. 11 cod. deontolog.), ma, benchè  gli sia riconosciuta, nel corso del rapporto professionale, la facoltà di chiedere la corresponsione di anticipi, ragguagliati alle spese sostenute e da sostenere, nonché di acconti sul compenso, commisurati alla quantità e complessità delle prestazioni richieste per l’espletamento dell’incarico (art. 29 cod. deontolog.), nondimeno, allorchè venga nominato difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, non deve chiedere né percepire dalla parte assistita o da terzi, a qualunque titolo, compensi o rimborsi diversi da quelli previsti dalla legge (comma 8 ivi), essendo stabilito che la violazione di tale dovere comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno.

Tale condotta rispecchia fedelmente quanto dettato dal d.p.r. n. 115/2002, che regola l’istituto del gratuito patrocinio, e che prevede il divieto per il difensore di chiedere e percepire dal proprio assistito compensi o rimborsi a qualunque titolo, diversi da quelli previsti dallo stesso testo unico sulle spese di giustizia (art. 85 ivi), ciò che si pone in sintonia con il giuramento che l’avvocato, nel momento di chiedere l’iscrizione all’albo professionale, ha fatto proprio allo scopo di mantenere un comportamento improntato alla lealtà e probità, come si legge nel codice di procedura civile (art. 88, I comma, c.p.c.)

Ora, c’è da augurarsi che anche in questo caso l’avvocatura sappia applicare al proprio interno quegli antidoti necessari al fine di debellare il male di cui si è fatto cenno sopra, e presente sia  nel settore penale che in quello civile, e ciò in nome di quel potere di autoregolamentazione riconosciutogli in chiave privatistica.

E’ bene rammentare, al fine di evitare un malaugurato ritorno al potere disciplinare statale (che, visti i tempi che stiamo vivendo, non sembra un futuro inimmaginabile), che sotto l’egida della legge n. 3282 del 1923, quando non esisteva alcun codice deontologico (il primo avrebbe visto la luce soltanto nel 1997) il gratuito patrocinio era posto sotto la sorveglianza immediata del Procuratore generale nel distretto di ciascuna Corte d’appello, dell’Avvocato generale nella circoscrizione della rispettiva sezione distaccata di Corte di appello e dei Procuratori della Repubblica del circondario di ciascun tribunale i quali vegliavano affinché le cause dei poveri fossero diligentemente trattate, e in caso di qualche negligenza od altra mancanza, su loro richiesta, le Corti d’appello, le sezioni distaccate ed i tribunali civili e penali avevano rispettivamente il potere d’infliggere ai difensori responsabili le pene disciplinari stabilite dal codice di procedura civile per i difensori che trasgrediscano i loro doveri, secondo le forme ivi prescritte, senza pregiudizio dell’azione di danni riservata alle parti interessate (art. 4 ivi).

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