Il piano colao per la pubblica amministrazione: un primo passo verso la semplificazione?

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Sommario

  1. LA CORNICE NORMATIVA EMERGENZIALE IN ITALIA.
  2. GLI EFFETTI DEL CORONAVIRUS SULLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
  3. LA GRANDE INCOMPRESA: LA “BUROCRAZIA”.
  4. IL PIANO COLAO PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
  5. CONCLUSIONI. 

BIBLIOGRAFIA.. 

La cornice normativa emergenziale in italia.

L’ormai noto virus del “Covid – 19”, in pochi mesi ha cambiato radicalmente lo scenario globale, con una ricaduta spaventosa e incontrollabile, oltre che sulla salute dei cittadini di tutti i continenti, anche sulla realtà economico-sociale degli stessi, determinando l’adozione di misure straordinarie in campo sanitario e giuridico.

In particolare, nel nostro ordinamento giuridico, in primo luogo, è stato messo a dura prova il principio sancito dall’art. 32 della Costituzione, in base al quale “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

In Italia, infatti,  il 31 gennaio 2020, il Consiglio dei Ministri ha ufficializzato, lo stato di emergenza, per sei mesi dalla data del provvedimento, al fine di consentire l’emanazione delle necessarie ordinanze di Protezione civile, in deroga ad ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico; ha deliberato, inoltre, lo stanziamento dei fondi necessari per dare attuazione alle misure precauzionali derivanti dalla dichiarazione di emergenza internazionale effettuata dall’O.M.S.

A disciplinare la materia nella fase di emergenza è intervenuto, a seguito dei decreti legge n.6/2020, n.11/2020, e dei DD.PP.CC.MM. in data 4 marzo 2020, 8 marzo 2020 e 11 marzo 2020, anche il decreto legge 17 marzo 2020, n.18 (c.d. decreto legge “Cura Italia”), convertito con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n.27, che ha introdotto una serie di disposizioni normative rivolte alle pubbliche amministrazioni, tra cui quelle contenute nell’art. 87 recante “Misure straordinarie in materia di lavoro agile e di esenzione dal servizio e di procedure concorsuali”.

Successivamente, a regolamentare la normativa emergenziale, è stato emesso il D.P.C.M. in data 22 marzo 2020, pubblicato nella G.U. n.76 in pari data, che ha fornito ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6 ed ha impartito disposizioni innovative in ordine ai poteri del Prefetto, ampliandoli in maniera significativa.

Nel tentativo, poi, di semplificare la normativa emergenziale e cercare di dare una veste costituzionale ai precedenti provvedimenti normativi, è stato emanato il decreto legge n.19 del 25 marzo 2020.

In primo luogo, tale provvedimento ha precisato che possono essere adottate, una o più misure, per periodi predeterminati, ciascuno di durata non superiore a trenta giorni, reiterabili e modificabili più volte fino al 31 luglio 2020. Si è posto un limite, così, alla vortiginosa e discutibile legiferazione incontrollata da parte dell’esecutivo.

Con i DD.PP.CC.MM. in data 1°, 10 e 26 aprile 2020, poi, le misure emergenziali sono state prorogate sino al 17 maggio 2020, dando luogo alla c.d. fase due dell’emergenza.

In particolare il D.P.C.M. del 26 aprile 2020, nel definire le misure per il contenimento del contagio da covid-19, relativamente ai datori di lavoro pubblici, fa salvo quanto previsto dal richiamato art. 87 del decreto legge n.18/2020 che, tra l’altro, definisce il lavoro agile come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da covid-19, ovvero fino ad una data antecedente stabilita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione.

Successivamente, con il decreto legge n.28 in data 30 aprile 2020, sono state disposte “misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazione di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta covid-19”.

Con il decreto legge n.34 del 19 maggio 2020, poi, sono state emanate misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19.

Da ultimo, in data 8 giugno 2020 è stato consegnato al Presidente del Consiglio dei ministri il “piano Colao”, ovvero una serie di iniziative per il rilancio 2020-2022 ideate da una task force guidata dall’ex manager Vodafone Vittorio Colao.

Il documento consta di 121 pagine, suddivise in sei capitoli per altrettante macroaree di intervento: Imprese e Lavoro – Infrastrutture e Ambiente – Turismo, Arte e Cultura – Pubblica Amministrazione – Istruzione, Ricerca e Competenze – Individui e Famiglie.

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Mai come in questo periodo il tema degli ammortizzatori sociali è stato così sentito dall’intero sistema produttivo. In occasione della pandemia Covid19 ed alle conseguenti chiusure degli esercizi commerciali e dei siti produttivi il ricorso agli ammortizzatori sociali ha coinvolto praticamente tutto il mondo del lavoro. Un vero stress-test dell’impianto disegnato dal D.lgs 148/15. Il decreto legislativo, inserito nella più ampia manovra passata alla storia come JobsAct, traendo esperienza dalla crisi del 2009 ha previsto al fianco degli ammortizzatori sociali “storici” (il sistema della cassa integrazione ordinaria e straordinaria) una copertura rispetto a settori, fino a quel momento, poco interessati alla gestione di temporanee crisi d’impresa. Le considerazioni che si possono fare a valle del dramma Coronavirus, ed alle conseguenze che lo stesso ha determinato nel mondo del lavoro ed al nuovo assetto che ne deriva degli ammortizzatori sociali, sono diverse. Partirei dal porre quattro questioni che ritengo primarie:1) ha senso disegnare tanti sistemi e procedure diverse per affrontare i medesimi problemi? Non sarebbe più corretto giungere ad un meccanismo unico per rispondere alle crisi d’impresa?2) in che rapporto si deve porre sistema di ammortizzatori conservativi con un meccanismo di politiche attive del lavoro che favorisca la mobilità e la ricollocazione della forza lavoro?3) se il beneficiario dell’ammortizzatore sociale è il lavoratore come inquadrare l’inadempienza contributiva del datore di lavoro? Quali le sue conseguenze?4) chi deve pagare il sistema di ammortizzatori sociali? Il mondo del lavoro o la fiscalità generale?Sono quesiti importantissimi quelli che ci lascia come eredità la crisi della pandemia del 2020. Per provare a fornire una complessiva, sia pure in termini generali, risposta ritengo che sia necessario partire dalla valutazione di quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato in questi mesi.Avere tanti strumenti differenti suddivisi per tipologia e dimensione d’impresa crea una difficoltà enorme di gestione del sistema obbligando sia gli operatori professionali (consulenti del lavoro) che la PA ad impiantare, conoscere e manutenere sistemi tecnologici differenti. La tecnologia in una situazione del genere diventa un amplificatore di burocrazia. Esattamente il contrario dell’approccio digitale ai problemi. Un sistema non si semplifica trasformando moduli cartacei in digitali, si semplifica utilizzando l’analisi digitale per un suo ripensamento. Quindi uno strumento “tagliato su misura” per ogni impresa non diventa sinonimo di strumento idoneo, al contrario crea una babele di procedure nella quale è difficile districarsi. A tutto ciò deve aggiungersi che il D.lgs 148 ha previsto la creazione di ammortizzatori sociali di comparto, i fondi bilaterali, creati dalle forze sociali di settore. Un simile impianto prevede un presupposto fondamentale. La chiarezza di chi sia rappresentativo di un settore e quale sia la contrattazione collettiva di effettivo riferimento. Senza di ciò il sistema di finanziamento di questi fondi rischia di entrare in quel complesso di dubbi interpretativi che ha sempre accompagnato gli istituti presenti nella cd. “parte obbligatoria” del CCNL alla stregua degli enti bilaterali, della sanità integrativa o della previdenza complementare. In definitiva se non si parte dalla vigenza erga omnes di talune disposizioni diventa impossibile pretendere la contribuzione e, conseguentemente in un sistema puramente assicurativo, la prestazione.Veniamo al punto successivo. In mancanza di contribuzione manca la prestazione. Questo è evidente in un impianto assicurativo classico ma il concetto è difficilmente traslabile in un meccanismo di sicurezza sociale in cui il contraente (datore di lavoro) ed il beneficiario (lavoratore) sono soggetti diversi. La prestazione consente di evitare il licenziamento del lavoratore ed il mantenimento del rapporto di lavoro sia pure in fase di temporanea sospensione. Si evita di generare disoccupazione involontaria. Pertanto, in ossequio all’art. 38 Cost., dovrebbe valere, per ogni tipologia di ammortizzatore, il principio dell’automaticità della prestazione fermo restando l’obbligo contributivo del datore di lavoro.   Altro tema importante è quello relativo alla funzione propria degli ammortizzatori sociali. Il nome stesso “ammortizzatore” evoca la funzione di quel meccanismo che serve ad evitare colpi improvvisi ed a superare dossi o avvallamenti stradali con il minor danno possibile. Sul punto il richiamato D.lgs 148/15 aveva ben introdotto meccanismi che impedissero l’attivazione degli strumenti per funzioni diverse (pensiamo al caso di cessazione dell’attività aziendale) promuovendo in tali circostanze meccanismi di presa in carico del lavoratore da parte dei servizi di ricollocazione con supporto della assicurazione sociale per l’impiego (naspi). Negli anni questi concetti sono stati un po’ lasciati in disparte dal sistema che ha preferito “tornare all’antico” accantonando la ricollocazione dei lavoratori, propria delle politiche attive del lavoro, e privilegiando il sostegno al mancato reddito riprendendo quindi temi di politiche passive del lavoro. Un meccanismo così impostato rende difficile ipotizzare riprese occupazionali visto anche il dichiarato e mai realizzato potenziamento tecnico/organizzativo dei centri per l’impiego ai quali l’avvento della figura dei “navigator” non ha fornito alcun beneficio concreto.Ultimo tema sollevato è quello relativo al finanziamento degli ammortizzatori sociali. La questione è molto ampia e delicata. Mi limito solo a segnalare che la risposta dipenderà dalla funzione che il sistema darà agli stessi. Se rimanessero nell’alveo di uno strumento temporaneo di “sicurezza aziendale” il loro costo non potrà che essere a carico delle imprese e dei lavoratori. Se invece si evolvesse a meccanismo di generale ed universale difesa dalla povertà (reddito di cittadinanza), ancorchè temporanea, del lavoratore potrebbe aprirsi un tema di riconsiderare come destinatario del costo non il mondo del lavoro ma l’intera collettività. In questo caso l’aggravio per la fiscalità generale sarebbe compensato dal minor onere per le imprese che potrebbe tradursi con maggior gettito salariale e quindi maggior introito fiscale.Tematiche ampie e strutturali. Sicuramente lo stress test Covid19 non passerà inosservato anche in tema di ammortizzatori sociali che saranno probabilmente ristrutturati. Come ogni crisi, anche questa, avrà come conseguenza elementi di miglioramento. L’economista Joseph Schumpeter insegnava che proprio dalla crisi, la cui etimologia greca fa riferimento al cambiamento, deriva ogni miglioramento sociale. Speriamo valga anche questa volta.Paolo Stern – presidente Nexumstp S.p.A.Paolo SternConsulente del Lavoro in Roma. Socio fondatore di Nexumstp Spa. Autore di numerose pubblicazioni in materia di lavoro e relatore a convegni e seminari. Professore a contratto presso università pubbliche e private.Sara Di NinnoDottore in Scienze politiche e Relazioni internazionali, collaboratrice area normativa del lavoro presso Nexumstp Spa. Specializzata in Diritto del lavoro e Relazioni industriali, è dottore di ricerca in Diritto pubblico, comparato ed internazionale, con tema di ricerca in Diritto del lavoro internazionale, e docente in corsi di formazione in materia di disciplina del rapporto di lavoro.Massimiliano Matteucci Consulente del Lavoro in Roma, Socio Nexumstp spa. Laureato in Economia. Specializzato in normativa di Diritto del lavoro e previdenza sociale. Cultore della materia presso la Cattedra di Diritto del lavoro dell’Università La Sapienza di Roma e preso l’Università Niccolò Cusano di Roma. Membro del Centro Studi dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro Roma, relatore a convegni e seminari. È articolista per la rivista TWOC dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Roma. Consulente Asseveratore Asseco.Lorenzo Sagulo Laureato in Economia e Gestione delle imprese all’Università degli Studi “Roma Tre”. Collabora con Nexumstp Spa nell’area consulenza del lavoro. È specializzato in normativa di Diritto del lavoro e relazioni industriali. 

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Gli effetti del coronavirus sulla pubblica amministrazione.

Si deve rilevare, in primo luogo, la sicura influenza della normativa emergenziale sul funzionamento della pubblica amministrazione.

Tale normativa, dettata da indubbie ragioni di natura sanitaria, ha costituito un ulteriore vulnus per l’art. 97, secondo comma, della Costituzione, spesso inattuato, secondo cui “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione ”.

Per il settore pubblico, l’art. 18, comma 3, della legge n. 81 del 2017, prevede che le disposizioni introdotte in materia di lavoro agile si applicano, in quanto compatibili, anche nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

La citata normativa emergenziale prevede, poi, misure di incentivazione quali il ricorso a strumenti per la partecipazione da remoto a riunioni ed incontri di lavoro (sistemi di videoconferenza e call conference), l’utilizzo di propri dispositivi e l’attivazione di un sistema bilanciato di reportistica interna ai fini dell’ottimizzazione della produttività anche in un’ottica di progressiva integrazione con il sistema di misurazione e valutazione della performance.

Con le direttive della Ministro della Pubblica Amministrazione n.1 del 4 marzo, n.2 del 1° aprile e n.3 del 4 maggio 2020 è stato ribadito che il lavoro agile costituisce la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione fino alla cessazione dello stato di emergenza. Il provvedimento conferma che le amministrazioni sono chiamate ad uno sforzo organizzativo e gestionale per garantirne il pieno utilizzo, accessibile in modo temporaneamente semplificato, così da ridurre al minimo gli spostamenti e la presenza dei dipendenti negli uffici, correlandola ai servizi indifferibili non erogabili da remoto. Il ricorso al lavoro agile non esclude l’utilizzo, per motivate esigenze organizzative, agli altri istituti richiamati dalla norma, tra i quali ferie pregresse, congedo, banca ore, rotazione nel rispetto della contrattazione collettiva, mentre l’esenzione del lavoratore dal pubblico servizio è un’extrema ratio da motivare puntualmente.

Da quanto detto si comprende che la differenza fondamentale del lavoro agile pubblico e quello privato consiste nel fatto che, mentre nella pubblica amministrazione si tratta di un obbligo e non di una possibilità ed è possibile derogare agli accordi individuali e agli obblighi informativi di cui agli articoli dal 18 al 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, lo stesso non può essere detto per il lavoro privato in cui tale tipologia di lavoro non è un obbligo, ma una possibilità e deve, comunque, rispettare gli articoli sopra citati.

E’ indubbio, quindi, che il contagio ha avuto il “merito” di aver riproposto il tema del lavoro agile, prezioso strumento a disposizione anche delle Pubbliche Amministrazioni. Probabilmente sarebbe bastato seguire le indicazioni dell’Unione Europea che, con la risoluzione del 13 settembre 2016, si impegnava a “sostenere il lavoro agile”, per garantire maggiore inclusione e nuove assunzioni nel corso di questi anni, maggiore sicurezza e tutela della salute.

Le disposizioni normative e le indicazioni del Ministro per la Pubblica Amministrazione, quindi, dovranno essere eseguite ed implementate, ma non può nascondersi che tale processo, oramai avviato, dovrà essere affinato.

In tale materia interviene anche il piano Colao che, nella scheda 1.ii, suggerisce di utilizzare la fase attuale per un’attenta e profonda osservazione dello smart working e delle dinamiche ad esso connesse per identificare elementi con cui migliorare la normativa vigente (legge n.81/2017), per  renderla aderente al nuovo contesto che si sta sviluppando, in cui da un lato c’è la necessità di uno sviluppo diffuso di tale strumento per questioni anche di sicurezza e dall’altro l’obiettivo di dare a imprese e lavoratori un’opzione migliorativa sia della produttività sia delle condizioni lavorative. Al fine di evitare utilizzi impropri dello strumento già nell’immediato il documento raccomanda di adottare un codice etico per la PA e la necessità di superare il digital divide (divario digitale) in termini infrastrutturali e di disponibilità dei device (dispositivi elettronici) e una formazione digitale, al fine di poter garantire la piena fruibilità in tutte le aeree geografiche del Paese e in tutte le fasce della popolazione.

Nel breve periodo il piano invita a promuovere nella PA l’adozione di un codice etico con considerazione dei tempi extra lavorativi (tra i quali impegni domestici e cura della famiglia) e, in ottemperanza alla legge n.81/2017 (stesse ore lavorative e giornate come da contratto nazionale), con l’obiettivo di massimizzare la flessibilità del lavoro individuale, concordare momenti di lavoro collettivo, adottare sistemi trasparenti di misurazione degli obiettivi e della produttività al fine di valutare la perfomance sui risultati e non sul tempo impiegato.

Anche l’undicesima scheda (n.70) ribadisce la necessità di rivedere le modalità di lavoro, attraverso la diffusione dello smart working (attualmente pari al 16% nelle PA), introducendo sistemi organizzativi, piattaforme tecnologiche e un codice etico che consentano di sfruttare le potenzialità in termini di riduzione dei costi e miglioramento di produttività e benessere collettivo, tenendo conto anche delle differenze di genere e di età. I principi portanti di tale processo di trasformazione riguardano lo sforzo di rendere strutturale, mediante adeguata regolazione contrattuale, l’utilizzo del lavoro agile e l’applicazione di almeno il 50% del tempo lavorativo.

Gli strumenti suggeriti attengono alla necessità di concordare standard efficienti di applicazione, di superare il digital divide (divario digitale) in termini infrastrutturali e di diffusione dei device (dispositivi elettronici), promuovere la formazione digitale, prevedere la trasparenza nella comunicazione interna degli obiettivi.

Tuttavia, non possono ignorarsi alcune difficoltà strutturali per il ricorso a tale strumento.

In primo luogo, tale sistema lavorativo renderebbe più difficili i controlli previsti dalla vigente normativa. In un sistema pubblico, caratterizzato da un rilevante fenomeno di assenteismo (ad esempio, i cc.dd. furbetti del cartellino), la verifica dell’attività lavorativa, al di là delle buone intenzioni, diverrebbe ancora più difficile, con conseguenti responsabilità penali e contabili per i dirigenti.

In secondo luogo, la quasi totalità delle pubbliche amministrazioni svolge un compito di ricevimento del pubblico (c.d. front office), che diverrebbe più difficile con lo strumento del lavoro agile e distoglierebbe numerose unità lavorative destinate a tale compito, mentre sarebbe molto difficile interloquire con i cittadini non tutti in possesso di strumenti e competenze informatiche. Negli ultimi mesi, infatti, si è assistito alla parziale chiusura degli sportelli, con gravi disagi.

Infine, il progressivo ed abnorme invecchiamento dei lavoratori pubblici non sempre in possesso di professionalità informatiche e, soprattutto la carenza degli organici, giunta a livelli preoccupanti, potrebbero ostacolare il ricorso a tale forma di lavoro.

La grande incompresa: la “burocrazia”

Il termine burocrazia fa tradizionalmente riferimento al complesso degli uffici e dei funzionari che compongono la pubblica amministrazione. L’etimologia ibrida del termine, che coniuga il francese bureau (ufficio) al greco kràtos (potere), ne rivela l’origine tarda e la derivazione di matrice francofona.

Nonostante l’espressione “burocrazia” sia stata introdotta nella seconda metà del settecento, nelle società umane la formazione della burocrazia ha rappresentato un fenomeno costante in quasi tutti i paesi e in ogni epoca.

L’introduzione di un sistema di funzionari, suddiviso in uffici e basato su procedure unificate, è fatta risalire all’imperatore Claudio nel I secolo d.c. a seguito dello svuotamento dei poteri del Senato.

L’interposizione di un corpus di funzionari, seppure inizialmente legati in modo strettissimo al potere imperiale, come intermediario tra il potere e la società, rappresentò una vera rivoluzione concettuale. Claudio affidò arbitrariamente i vari uffici ai suoi liberti, i cui nomi sono ancora oggi sinonimo di corruttela, intrallazzo, cospirazione ed “esercitavano poteri regali con animo di schiavi” (Tacito).

In epoca imperiale la burocrazia continuò ad accrescersi ed espandersi, non senza risultare un potere frammentato in mano ai burocrati, coinvolto, come oggi, da una proliferazione di leggi e regolamenti. Ciò si manifestò chiaramente nell’impero bizantino, caratterizzato da un cerimoniale complesso, cavilloso e tortuoso.

L’apparato burocratico tipico ha assunto la sua forma più completa e rigorosamente organizzata in Francia ad opera di Napoleone Bonaparte che organizzò un apparato burocratico fortemente accentrato ed efficiente fondato sulla funzione dei prefetti, snello e ben funzionante.

Tale modello basato su un’amministrazione piramidale e coesa, è stato scosso alla fine del XIX secolo da almeno tre rilevanti riforme: il decentramento amministrativo, le privatizzazioni e la riorganizzazione degli apparati pubblici.

Nel novecento il sociologo e filosofo Max Weber, considerato il maggior teorico dell’organizzazione e della burocrazia come fenomeno tipico dell’età moderna, ha definito la burocrazia un elemento essenziale di razionalizzazione della società contemporanea.

La burocrazia, secondo Weber, rappresenta l’apparato amministrativo tipico per l’esercizio del potere legale, ovvero un sistema di norme e regolamenti precisi, da applicare in modo tendenzialmente impersonale e imparziale, attraverso procedure sistematiche, precise e razionali.

Le organizzazioni che adottano i principi burocratici, a suo parere, vedono un notevole aumento di produttività ed efficienza attraverso la spersonalizzazione, standardizzazione e divisione scientifica del lavoro: le regole generali, che sostituiscono le strutture ed i rapporti basati sulla pratica personale, garantiscono uniformità, continuità e stabilità.

Inoltre, trattandosi di un’organizzazione gerarchica, caratterizzata dalla separazione dei membri e delle funzioni svolte, diviene possibile coordinare il lavoro e facilitare i processi decisionali e si trae vantaggio da una gerarchia di uffici e competenze stabili, con funzionari la cui preparazione specialistica riduce il rischio di errori.

Le teorie del Weber, che negli anni successivi vennero confutate e discusse, non mancarono di raccogliere sostenitori e detrattori. Le tendenze critiche misero in luce i difetti del sistema ed evidenziarono come il processo irreversibile di burocratizzazione universale conducesse al rischio di imprigionare le persone in una rete di regole minuziose, rigide e cavillose.

Il termine ha assunto oggigiorno una connotazione principalmente negativa proprio a causa delle “conseguenze inattese” del fenomeno rilevate da molti ovvero rigidità, lentezza, incapacità di adattamento, inefficienza, inefficacia, lessico difficile o addirittura incomprensibile (c.d. burocratese), eccessiva pervasività, tendenza a regolamentare ogni minimo aspetto della vita quotidiana.

Nel suo valore dispregiativo, il termine indica anche l’eccessivo iter procedurale per il raggiungimento di determinati obiettivi, un’esagerata osservanza di regolamenti e forme procedurali, in particolare quando lo stesso iter delle pratiche amministrative risulta rigido, complesso, pedante al punto da rendere difficoltoso il raggiungimento di determinati obiettivi. Critiche, queste, accentuatesi nel periodo emergenziale del coronavirus, che ha richiesto un intervento pronto ed adeguato da parte dello Stato e degli altri Enti pubblici.

I difensori della burocrazia, invece, giustificano tali aspetti in quanto consentono la corretta applicazione delle leggi e procedure definite secondo principi di legalità e uguaglianza.

Soprattutto nel ventesimo secolo si sono moltiplicate le definizioni di burocrazia, concetto esaminato dal punto di vista storico, economico, psicologico, sociale e così via. Indubbiamente la maggiore sensibilità è stata accentuata dai cambiamenti dell’assetto geopolitico e dalla consapevolezza acquisita dai cittadini a seguito del confronto con realtà oltre confine.

Ciò ha contribuito ad una comprensione più profonda delle dinamiche sociali e ha spinto verso adeguate riforme e a necessari ridimensionamenti del “potere degli uffici”, soprattutto a seguito di cambiamenti legati allo sviluppo tecnologico, della differenziazione e frammentazione della domanda sociale e della dispersione del potere politico su nuovi livelli anche transnazionali.

Il modello burocratico è stato, quindi, rivisto sia nella teoria che nella pratica e si sono sviluppate forme di amministrazione partecipata, flessibile, contrattata sulla base di un modello telocratico, dal greco telos, insieme di strumenti per il raggiungimento di un fine/obiettivo.

Con il termine buròcrate si identifica di norma l’impiegato pubblico, oggi il funzionario, che si occupa dei procedimenti pubblici, figure che dovevano riuscire, secondo il modello originario, a rendere maggiormente efficiente la pubblica amministrazione.

Il burocrate puro, secondo l’analisi weberiana, avrebbe dovuto svolgere il suo ruolo grazie a particolari competenze acquisite con la frequentazione di scuole, l’ottenimento di titoli e corsi di tirocinio e organizzazione volti alla conoscenza approfondita e specializzata della normativa dell’organizzazione.

La figura del burocrate, tuttavia, è stata di recente analizzata in maniera critica e non sono mancate discussioni inerenti, in particolare, proprio la preparazione dei dipendenti, nonché la loro personalità, l’incorruttibilità e gli sviluppi di carriera.

Considerazioni critiche sono legate anche al concetto di “burocratismo”, ovvero quella tendenza alla cavillosità, al formalismo di facciata, alla burocratizzazione eccessiva dei rapporti tra cittadino e istituzione che oggi tende ad assumere i connotati di una vera e propria piaga sociale.

Anche molti sociologi si sono occupati del fenomeno scorgendo nella burocrazia la disumanizzazione della società a causa dell’esasperato formalismo giuridico non più correlato a superiori scopi e valori che risultano di fatto dispersi.

Il burocrate c.d. patologico è alla guida di una macchina organizzativa che investe direttamente la vita e i diritti dei cittadini: questi, anziché agire per migliorare le leggi e le normative, assicurandone il rispetto, viene visto come interessato a maneggiare documenti e riordinare carte allo scopo di evitare sanzioni e conseguenze negative, sacrificando chiarezza e perdendo di vista gli obiettivi che si pone l’apparato per cui lavora.

Inoltre, il burocrate è visto come un esponente di una classe sociale avente interessi propri diversi e contrastanti da quelli di altre classi. Ciò condiziona i fruitori del servizio e si risolve in conseguenze tendenzialmente egoistiche e in uno “spostamento di fini” a svantaggio della volontà del legislatore.

Le conseguenze negative dell’eccessiva burocratizzazione sono particolarmente avvertite in Italia che appare come un sistema iperburocratizzato e ipercentrista, dominato dall’eccesivo potere della pubblica amministrazione, in cui si è enfatizzata la religiosa osservanza delle procedure, perdendosi di vista il raggiungimento degli obiettivi. Il nostro paese appare con il maggiore numero di regole e di norme e con il maggior numero di controlli amministrativi e di enti che si sovrappongono. Secondo l’Unione Europea la pubblica amministrazione italiana si colloca al 23esimo posto su 27 per efficienza.

A subire le maggiori conseguenze del dominio della pubblica amministrazione e del potere degli uffici, soprattutto nell’attuale fase emergenziale, sono soprattutto le imprese e i cittadini, ad esempio a causa di complicazioni legate ad adempimenti fiscali, alle procedure in materia edilizia, alle autorizzazioni di inizio di attività di impresa, agli adempimenti in materia di lavoro e previdenza, alle procedure per i disabili e per accedere alle prestazioni sanitarie.

Nonostante il legislatore negli ultimi anni si sia mosso nell’ottica della semplificazione e ella trasparenza, è necessario l’apporto del modello della cultura manageriale mediante l’utilizzo di dirigenti con le giuste capacità e competenze, scelti in maniera meritocratica, valutati in relazione ai risultati e agli effetti in grado di produrre. A ciò si dovrà accompagnare un intenso snellimento delle regole, un completamento della digitalizzazione di servizi e procedure, nonché nuove assunzioni per inglobare più competenze e forza lavoro giovane.

Questo difficile percorso è stato avviato, ad esempio, dal Ministero dell’Interno con il D.P.R. n.139/ 2000, ma la strada da percorrere è ancora lunga ed irta di difficoltà.

Il piano colao per la pubblica amministrazione

Il piano realizzato da un comitato di esperti in materia economica e sociale, ha assunto la forza di un documento programmatico suddiviso in sei macro-settori, dalle imprese alla cultura, dalla pubblica amministrazione alla famiglia, giudicati essenziali per far ripartire il paese, combinando temi sociali, ambientali, economici.

I sei settori sono stati accompagnati da un sottotitolo che ne riassume l’obiettivo. Ogni capitolo è suddiviso in vari sottocapitoli, in cui sono elencate poi le varie misure concrete e azioni specifiche.

La prima scheda nel settore di interesse (n.60) si sofferma sul tema fondamentale della trasparenza delle prestazioni, consigliando di rafforzare la misurazione end-to-end delle stesse prestazioni attraverso indicatori chiave pubblicati regolarmente su una piattaforma aperta (il portale dei dati aperti aperto dati.gov.it) per consentire un confronto tra le diverse amministrazioni, vincolando incentivi diretti al miglioramento dei servizi. Ciò richiederebbe il tracciamento obbligatorio di indicatori chiave della performance delle singole amministrazioni obbligando le stesse a pubblicare il proprio rancking (posto) sui canali ufficiali e a pubblicare annualmente un report di sintesi della performance. Tutto ciò richiederebbe meccanismi di monitoraggio, vincolando gli incentivi diretti al miglioramento del servizio e predisponendo una campagna di comunicazione al cittadino sulla disponibilità di questi dati e sulle modalità di fruizione dei principali servizi. Viene, infine, suggerita l’attività di controllo dei dati, utilizzando anche verifiche a campione in capo ad un ente centrale in grado di applicare penali in caso di non conformità. Si tratta di un progetto realizzabile, ma che andrà incontro alle stesse difficoltà che ha incontrato l’attuale normativa sulla trasparenza delle pubbliche amministrazioni, in gran parte inattuata.

La seconda scheda (n.61) si sofferma sull’annoso problema dell’autocertificazione e il silenzio-assenso, invitando ad ampliare gli ambiti di autocertificazione e meccanismi di silenzio-assenso in tempi garantiti e parallelizzare gli iter di approvazione dei diversi enti pubblici. Il documento richiama le azioni di semplificazione previste dal 1° comma dell’art. 264 del decreto legge n.30/2020 (c.d. decreto rilancio) che rende effettivo il divieto di richiedere i documenti specifici laddove l’autocertificazione è contemplata (cfr. la legge n.183/2011). Si sostiene, inoltre, la necessità di prevedere la certezza dei tempi per il provvedimento conclusivo dopo la formazione del silenzio assenso, estendo il termine di 30 giorni previsto dal citato art. 264 per tutti i procedimenti che prevedono il silenzio assenso, riducendo i termini dell’annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi da 18 a 3 mesi non solo per i provvedimenti Covid, estendendone l’applicazione oltre il 31 dicembre 2020. Viene confermato, poi, l’inasprimento delle pene per le dichiarazioni mendaci introducendo anche forme di interdizione per i colpevoli, rendendo stabile il rafforzamento dei controlli con criteri proporzionali al rischio e alla rilevanza dei procedimenti, mediante anche l’interoperabilità dei dati. Anche questo sforzo, già in atto da tempo, richiederà il cambio di mentalità da parte degli operatori della pubblica amministrazione.

La terza scheda (n.62) si occupa della realizzazione degli interventi urgenti di semplificazione e velocizzazione delle procedure, promuovendo l’approvvigionamento elettronico (e-procurement) a tutti i livelli attraverso l’aggregazione delle stazioni appaltanti per raggiungere la soglia minima e la professionalità adeguata, attivando tutte le leve normative e operative necessarie. L’analisi parte dalla considerazione che gli appalti pubblici costituiscono una componente non trascurabile della spesa pubblica, pari al 16% del PIL europeo e che l’Italia presenta un indubbio ritardo nell’impiego di tecnologie informatiche nell’intero ciclo del procurement. Le azioni suggerite concernono il favorire l’aggregazione della domanda e gli appalti congiunti per ottenere risparmi e mettere a frutto la specializzazione e le competenze acquisite in materia di appalti da alcune stazioni appaltanti. Per far ciò sarà necessario introdurre la disponibilità di procedure telematiche nella gestione di procedure di gara quale requisito base per la qualificazione, rivedere le soglie di gara, completare la disciplina attuativa per la digitalizzazione degli appalti, emanare il DM per attuare quanto previsto dall’art. 44, comma 1, per la digitalizzazione delle procedure di tutti i contratti pubblici e superare i ritardi per la Banca Dati degli Operatori Economici (BDOE), valutando se istituirla  presso ANAC piuttosto che presso il MIT.

Nel medio periodo si invita il governo a rivedere l’architettura istituzionale, professionalizzando le stazioni appaltanti e sviluppando gli istituti di centralizzazione della committenza, creando una base di dati degli appalti pubblici.

Queste previsioni sono condivisibili e posso essere realizzate in tempi relativamente brevi.

La quarta scheda (n.63) parte dalla rilevazione del ritardo dell’Italia nell’utilizzo dei dati individuali di survey (sondaggio), fonte amministrativa e big data anche interconnessi ai fini statistici e di ricerca a causa di rigidità interpretative sul fronte del regolamento europeo privacy. Le azioni suggerite riguardano l’introduzione del concetto di utilità sociale del trattamento dati a fini statistici e di ricerca scientifica a fianco della garanzia di privacy dei cittadini, operando una semplificazione nelle competenze di riservatezza statistica, attualmente di competenza di tre organi diversi.

Questi suggerimenti dovranno essere attentamente valutati per non inficiare il principio della riservatezza fondamentale nel nostro ordinamento giuridico.

La quinta scheda (n. 64) affronta l’annoso e non risolto problema della digitalizzazione della pubblica amministrazione, invitando a incentivare, affiancare e supportare tutte le amministrazioni, anche locali, nel processo di trasformazione digitale, dotando il ministero dell’innovazione di risorse umane (circa 500 unità) e finanziarie consistenti per promuovere la migrazione e l’uso generalizzato di PagoPa (piattaforma per la gestione dei pagamenti elettronici), app.IO (erogazione di servizi attraverso un unico canale digitale fruibile da smartphone), SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) o CIE (Carta di Identità Elettronica).

Già il ministero dell’interno ha dato buona prova di questo processo nella realizzazione della citata Carta di Identità Elettronica (CIE) e dell’Anagrafe della Popolazione Residente (ANPR). Il piano suggerisce anche di attivare nuovi servizi accessibili e miglioramento della user experience, affinchè tutti i cittadini possano dotarsi di una identità digitale gratuita in maniera semplice e intuitiva, introdurre attributi qualificati che spesso sono necessari per l’erogazione di alcuni servizi fondamentali, valutare possibili ampliamenti degli ambiti di applicazione.

La strada proposta è obbligata e sarà favorita dal ricambio generazionale dei dipendenti della PA divenuto ormai improcrastinabile.

La sesta scheda (n. 65) si occupa del progetto Cloud PA per lanciare e finanziare il piano di migrazione al cloud per garantire un rilevante risparmio di risorse, maggiore sicurezza, coerenza e interoperabilità delle banche dati.

Come noto, il cloud computing (in italiano nuvola informatica) indica un paradigma di erogazione di servizi offerti su richiesta da un fornitore a un cliente finale attraverso la rete internet (come l’archiviazione, l’elaborazione o la trasmissione dati), a partire da un insieme di risorse preesistenti, configurabili e disponibili in remoto sotto forma di architettura distribuita.

Il documento parte dall’analisi della realtà italiana che considera le infrastrutture informatiche (IT) l’ossatura portante del sistema di servizi che la PA eroga ai cittadini e all’imprese. Il modello attuale di interoperabilità dati (SPcoop) richiede processi di interazione complessi e costosi che non considerano le interazioni con i privati e soffre di un’impostazione concettuale obsoleta. La conseguenza di questa impostazione rigida ha limitato l’interoperabilità nella PA e quella con i privati. A questo si aggiunge che i dati pubblici vengono conservati e utilizzati all’interno di ogni amministrazione secondo un modello a silos, impedendo la condivisione, lo scambio e l’uso tra amministrazioni in maniera agevole.

Viene, quindi, proposta l’assegnazione di budget e risorse dedicate a supporto della migrazione, con costi sostenuti centralmente in caso di migrazione delle amministrazioni locali entro i prossimi tre anni, la razionalizzazione dei datacenter della PA con il ricorso ad un’architettura cloud, con un’ottica differenziata in modo da ridurre i costi di gestione di rete infrastrutturale e consentire una politica di efficienza/risparmio in un’ottica green. I servizi essenziali dovrebbero essere trasferiti, con un piano di migrazione, al Polo Strategico Nazionale (PSN) che offre servizi di housing aggregando i datacenter già esistenti fino ad arrivare ad un’architettura cloud gestita dallo Stato con accesso limitato; invece, i servizi non essenziali devono essere trasferiti ad un’architettura cloud pubblica (Cloud Service Provider su territorio nazionale, controllato da una società a maggioranza italiana).

Viene, inoltre, prevista la completa interoperabilità delle banche dati della PA attraverso l’Application Programming Interface ovvero interfaccia di programmazione delle applicazioni con i quali vengono realizzati e integrati software applicativi (API), per consentire scambio e condivisione di dati e informazioni tra diverse PA senza la necessità dell’intervento del cittadino ogni volta che sia possibile. Per raggiungere questo obiettivo è necessario introdurre l’obbligatorietà della condivisione dei dati, di cui le singole amministrazioni continueranno ad essere titolari, nel rispetto della sicurezza e della tutela della privacy, come previsto dal Regolamento Europeo per la Protezione dei Dati Personali.

Si tratta di indicazioni tecniche ineccepibili, che tuttavia potrebbero inficiare la riservatezza dei dati pubblici a causa dell’interscambio con operatori privati.

La settima scheda (n. 66) prevede il rafforzamento della “cyberdifesa” sottolineando la necessità di dotare l’Italia di un sistema di eccellenza, per potenziare in misura significativa la capacità di prevenzione, monitoraggio, difesa e risposta, in linea con i migliori standard internazionali.

L’analisi sottolinea che le attuali competenze in materia sono allocate principalmente presso il Comparto Intelligence, il ministero dell’interno (polizia di Stato, polizia postale), difesa, che operano con strutture e budget definiti pre-accelerazione digitale. Le minacce, secondo il piano, saranno ulteriormente amplificate dalla crescita dell’Internet of Things e dalla connettività diffusa richiesta dalla società post Covid. La definizione di perimetri digitali sensibili (normativa sul Perimetro nazionale di sicurezza cibernetica) è un primo passo necessario, ma non sufficiente a garantire un efficiente monitoraggio, presidio, intervento e prevenzione coordinato attraverso i diversi attori statali, necessario in un Italia digitale che vedrà un’espansione drammatica di applicazioni digitali, messa in rete di vaste masse di dati sensibili pubblici e privati e accesso da remoto e distribuito alle stesse.

Le azioni suggerite consistono in una rapida attuazione del complessivo sistema di governance istituzionale così come delineato dalle recenti normative in attuazione della direttiva comunitaria approvata nel 2016 che impone agli Stati membri l’adozione di una serie di misure comuni per la sicurezza delle reti e dei sistemi informativi (NIS) e sul Perimetro nazionale di sicurezza cibernetica, un significativo incremento delle risorse umane qualificate, l’introduzione di uno speciale regime personale per i tecnici specializzati all’interno delle amministrazioni per permettere una maggiore rapidità ed efficacia di reclutamento tra laureati e dottorati, elasticità retributive e flessibilità gestionale, piano di investimenti per il potenziamento delle infrastrutture e dotazioni dei citati comparti, anche attraverso l’attivazione di procedure eccezionali.

La materia in questione è molto delicata e le azioni suggerite sono indispensabili, ma dovranno fare i conti con le limitate risorse finanziarie.

L’ottava scheda (n.67) cerca di regolamentare il piano competenze Procurement ICT, trasformando le modalità di acquisto dei servizi ICT della PA, attraverso una nuova unità dedicata di procurement di servizi ICT e lo sviluppo di processi ad hoc di procurement per prodotti e servizi digitali (ad esempio, cloud).

Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (acronimo TIC O ICT dall’inglese Technology Information and Communications) sono l’insieme dei metodi e delle tecniche utilizzate nella trasmissione, ricezione ed elaborazione di dati e informazioni (tecnologie digitali comprese).

Il codice dell’Amministrazione digitale (art. 14-bis, comma 2, lett. b) e la legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità per l’anno 2016), all’art. 1, comma 513 prevedono che l’Agenzia Digitale Italiana (AGID) predisponga il piano triennale per l’informatica nella PA. Lo stesso art. 14-bis del CAD, con riferimento al piano triennale, sottolinea che esso deve essere costruito anche sulla base di dati e informazioni acquisiti dalle PA stesse. Tale raccolta di dati e delle informazioni avviene tramite la realizzazione di una rilevazione periodica sulla spesa ICT delle principali amministrazioni centrali e, in qualità di soggetti aggregatori territoriali, delle Regioni, delle Province Autonome, città metropolitane e relativi comuni capoluogo.

Il documento in questione precisa che per l’approvvigionamento di beni e servizi informatici e di connettività la citata legge di stabilità 2016 ha imposto alle amministrazioni pubbliche il ricorso alle convenzioni CONSIP o al Mercato Elettronico o di altri soggetti aggregatori, per i beni e servizi disponibili presso gli stessi soggetti, senza alcuna distinzione di valore. Finora la trasformazione digitale della PA è avvenuta in un quadro di forte incertezza normativa con il conseguente allungamento dei tempi di gara, con un mercato digitale ristretto in dimensione e concentrato.

Il piano rileva, anche, che il decreto Cura Italia ha introdotto sino al 31 dicembre 2020 la possibilità di velocizzare il processo di acquisto limitatamente all’approvvigionamento di materiale informatico per perseguire obiettivi coerenti con il piano triennale ICT, prevedendo, innanzitutto, un numero di partecipanti minore da invitare alla selezione (almeno 4, di cui una start up/PMI innovativa).

Dopo questa analisi il documento suggerisce queste azioni:

  • realizzare un’unità dedicata di procurement di servizi ICT (in CONSIP o presso il Ministero per l’innovazione) con competenze specifiche ICT in modo da introdurre competenze specializzate nell’acquisto di prodotti e servizi digitali e migliorare la stesura dei requisiti di gara sia tecnici che decisionali;
  • incrementare la competizione e favorire la formazione di un ecosistema di innovazione nazionale, includendo start-up PMI innovative nel parco fornitori;
  • imporre un sistema di monitoraggio/valutazione dei fornitori per rendere efficiente l’esecuzione di progetto e sviluppare una scorecard (scheda) dei fornitori;
  • introdurre e applicare clausole contrattuali a tutela dell’amministrazione (ad esempio, penali, sostituzione del fornitore) in linea con le migliori pratiche attive nel settore privato.

Ad esclusione di quest’ultimo suggerimento di facile realizzazione e già attuato dalla maggior parte delle amministrazioni, più difficile appare il raggiungimento degli altri obiettivi.

La nona scheda (n.68) affronta il problema delle risorse umane della PA disciplinando il reclutamento del personale in entrata nei prossimi anni, gestendo volumi e specifiche competenze in chiave strategica e dinamica rispetto ai fabbisogni, per focalizzare il reclutamento sulle esigenze emergenti (ad esempio, competenze digitali, tecniche e di processo).

L’analisi è puntuale: il blocco del turn over ha portato a un sensibile innalzamento dell’età media dei dipendenti pubblici (la più alta dell’area OCSE), che ha raggiunto i 51 anni, mentre gli under 30 sono appena il 2,8%; il pubblico impiego sconta strutturalmente una composizione squilibrata verso i profili giuridico-amministrativi e a sfavore di professionalità tecniche e organizzative orientate all’innovazione; la formazione di funzionari e dirigenti della PA non ha mai avuto in Italia percorsi ben definiti, per cui il reclutamento avviene spesso in maniera difforme e senza specifici requisiti.

Il piano suggerisce di creare un’Agenzia per il reclutamento del personale dello Stato che salvaguardando settori già regolamentati (diplomazia, carriera prefettizia; non vengono menzionate le carriere della magistratura e dei dirigenti delle carceri), abbia le seguenti funzioni:

  • coordinare le politiche di reclutamento, con selezioni definite sulla base del turn over previsto, alle cui graduatorie le amministrazioni possano attingere per un periodo di 3-5 anni;
  • condurre analisi ricognitive del fabbisogno di competenze delle diverse amministrazioni, soprattutto di quelle che serviranno in futuro, distinguendo per la dirigenza tra profili manageriali e quelli tecnici di diversa natura;
  • differenziare i bandi, evitando la prevalenza dei profili giuridico-amministrativi, razionalizzare le prove preselettive generiche, avviare processi formativi post laurea ad accesso limitato e per merito che preparino per l’accesso e rilascino titoli per partecipare ai concorsi senza sostenere la prova preselettiva (obbligatoria per gli altri candidati). Per questo scopo dovrebbe essere anche valorizzato il dottorato di ricerca;
  • fornire supporto nella definizione delle prove dei concorsi, privilegiando l’accertamento del problem solving, l’attitudine a dirigere o partecipare a lavori di gruppo, le competenze manageriali e le soft skills (le competenze trasversali fondamentali da inserire nel curriculum vitae) per la dirigenza, sul modello dell’ENA francese, legando il livello retributivo d’entrata alle competenze dimostrate in sede di concorso (questa proposta sarebbe in netto contrasto con la normativa esistente in materia di trattamento economico dei dipendenti pubblici).

Deve, però rilevarsi, che non viene affrontato il nodo della composizione delle commissioni d’esame, che si ritiene determinante per una corretta gestione della nomina delle nuove leve nella PA.

La decima scheda (n.69) affronta il delicato tema della formazione continua, invitando a formulare un nuovo piano, a ridisegnare i processi di formazione ripristinando misure minime di investimento in formazione per ogni ente, richiedere la formulazione di piani di formazione dettagliati per unità e modernizzare le modalità formative, attraverso l’adozione di piattaforme e-learning da condividere nazionalmente.

Anche per tale settore l’analisi appare realistica rilevando il più basso tasso di laureati in Europa (39,4%), una forte flessione della spesa in formazione del personale, un tipo di formazione mirata alla manutenzione e non all’accrescimento o al rinnovo delle competenze sulla base dei bisogni dei cittadini e imprese o sul ridisegno della governance o sulle dinamiche di sviluppo sociale ed economico.

I rimedi, anche se corretti dal punto di vista metodologico, appaiono di difficile attuazione, in quanto eccessivamente onerosi. Essi prevedono il ripristino di una soglia minima di investimento per la formazione, inserire il piano della formazione nell’ambito dei documenti programmatici relativi al fabbisogno di personale e alla performance, rafforzando la posizione dei responsabili della formazione, progettare corsi di formazione continua per i dipendenti pubblici riguardanti l’aggiornamento rispetto a norme e tecniche, utilizzare piattaforme di e-learning già esistenti per la formazione continua delle amministrazioni.

A tal proposito si deve osservare che nel periodo del Covid-19 la Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA) ha organizzato numerosi corsi in videoconferenza con effetti positivi sui dipendenti pubblici.

La dodicesima scheda (n.71; dell’undicesima si è parlato in precedenza), prevede il rafforzamento della formazione del middle-management pubblico, in quanto il nostro Paese presenta un forte ritardo nel ricorso a pratiche manageriali evolute, nell’adozione delle tecnologie digitali e nell’innovazione organizzativa soprattutto nell’ambito del middle-management che può costituire un acceleratore dell’innovazione.

Pertanto, si suggerisce di sviluppare un piano per identificare le figure di middle-management più suscettibili di beneficiare di interventi formativi di tipo manageriale, avviare iniziative formative al nella PA, prevedere incentivi anche non monetari (progressione in carriera, incarichi, autonomia decisionale, iniziative strutturate di mentoring (attività di formazione effettuata affiancando lavoratori più  esperti a quelli appena assunti) e coaching (attività di affiancamento e guida), strutturare i percorsi formativi in modo tale che sia possibile valutarne l’effetto causale sui discenti, calcolarne costi e benefici, e migliorarne l’erogazione nel tempo.

Il piano coglie un aspetto importante, spesso ignorato, in quanto tale tipologia di dirigente è fondamentale per un corretto funzionamento della PA.

A tale proposito si segnala che l’Aran, l’agenzia governativa che rappresenta il governo al tavolo della trattativa per il rinnovo del contratto del comparto per le funzioni centrali, ha convocato i sindacati per illustrare il documento conclusivo sull’ordinamento professionale.

Il testo prevede, tra l’altro, “la previsione di incarichi manageriali o professionali: i primi correlati a responsabilità di risultato su uffici o strutture, con elevato grado di autonomia, con delega di funzioni ed assunzione di responsabilità verso l’esterno; i secondi, a responsabilità professionali derivanti dallo svolgimento di funzioni richiedenti l’iscrizione ad albi”.

Oggi i dipendenti statali sono strutturati in tre aree (la prima, la seconda e la terza), al loro interno poi suddivise in diverse posizioni. Per poter passare da un’area all’altra, oppure alla dirigenza, è sempre necessario effettuare un concorso pubblico. Secondo l’Aran, in questo modo si corre il rischio di non vedere adeguatamente valorizzate competenze e capacità dimostrate sul campo.

Le conclusioni dell’Aran sono state inviate al ministro della funzione pubblica che potrebbe inserirle nell’atto di indirizzo per l’avvio delle trattative per rinnovo dell’accordo per il triennio 2019-2021.

L’iniziativa è in linea con il piano Colao, ma dovranno essere fissati criteri rigorosi per evitare il ricorso a promozioni discrezionali e dettate da motivazioni extra professionali.

L’ultima scheda (n.72) suggerisce di predisporre una direttiva per rendere più sostenibili le PA, rendendo sistematiche le azioni già intraprese per la gestione energetica, dei rifiuti, della mobilità, delle risorse umane, dell’acquisto di beni e servizi e così via, alla luce dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e degli indirizzi politici dell’Unione Europea e di definire e coordinare le responsabilità interne alle amministrazioni (energy manager ecc.) per aumentare la coerenza, l’efficacia e l’efficienza delle azioni a favore della sostenibilità.

L’analisi parte dalla constatazione che la legislazione vigente prevede già l’utilizzo di strumenti come il green public procurement per gli acquisti di beni e servizi, l’impegno per aumentare l’efficienza energetica, senza che vi sia un indirizzo politico chiaro.

Il Green Public Procurement (GPP), in Italiano acquisti verdi della PA, è l’integrazione di considerazioni di carattere ambientale nelle procedure di acquisto, cioè il mezzo per poter scegliere quei prodotti e servizi che hanno un minore, oppure ridotto, effetto sulla salute umana e sull’ambiente rispetto ad altri prodotti e servizi utilizzati allo stesso scopo.

Per converso, lo sviluppo sostenibile è stato assunto come elemento strategico della programmazione dell’Unione europea ed è citato come obiettivo centrale del Governo. In tale contesto, i fondi europei potrebbero essere orientati a rendere le pubbliche amministrazioni più sostenibili sul pieno ambientali e sociali.

Per realizzare questo obiettivo, il piano invita ad emanare, a cura del ministro della funzione pubblica, una direttiva per migliorare la gestione delle risorse, del patrimonio e del personale, così da inserire nella loro programmazione strategica e pianificazione operativa obiettivi e azioni concrete nella direzione della sostenibilità. In questa direzione, dovrebbe anche essere rafforzata la formazione dei dirigenti pubblici sui temi della gestione sostenibile delle PA.

Si tratta di affermazioni di principio, difficilmente realizzabili e che vanno a contrastare con i principi di carattere economico-finanziario perseguiti dalle attività industriali.

Conclusioni.

Certamente il piano Colao si inserisce in maniera autorevole e innovativa nel sistema della nostra pubblica amministrazione, già atavicamente in una situazione di difficoltà strutturale e funzionale.

Però, già a pochi giorni dalla presentazione, si sono levate critiche, peraltro senza un serio approfondimento, da parte di tutte le forze politiche, come se il documento di cui trattasi avrebbe dovuto soddisfare le divergenti richieste dei vari attori istituzionali.

Deve, anche, rilevarsi che l’emergenza Coronavirus sta contribuendo a rendere possibile un passaggio epocale nella pubblica amministrazione, in quanto finalmente si sta cercando di attuare le disposizioni in un’ottica non solo formalistica, ma con riguardo ai servizi resi ai cittadini ed al risultato, garantendo, pur con il ricorso a forme di lavoro agile, servizi pubblici essenziali, quali sanità, istruzione, protezione civile, sicurezza, infrastrutture, trasporti, interventi per la sicurezza del lavoro. Si stima, infatti, che nei settori attivi, allo stato, circa 3,7 milioni di lavoratori, tra il pubblico e il privato, utilizzano tale tipologia di lavoro.

Il piano è, tuttavia, solo un primo strumento, sia pure teorico, per raggiungere quella semplificazione invocata da più parti, ma solo l’impegno di tutte le componenti sociali potrà contribuire a favorire il ricorso a procedure innovative ed utili al funzionamento della nostra pubblica amministrazione, come, ad esempio, lo smart working, nel rispetto però delle disposizioni poste a tutela del nostro ordinamento democratico e dei diritti dei cittadini.

Certo, bisognerà mettere in conto anche le limitate disponibilità delle risorse, ma a queste si potrà sopperire, almeno in parte, con i fondi europei.

Con il provvedimento in esame è stato, quindi, fornito un’utile strumento in materia; sarà però necessario lo sforzo di tutti gli attori istituzionali, ma anche di tutti i cittadini, per rendere pienamente operativo il tentativo di semplificare il funzionamento della pubblica amministrazione al servizio della collettività in ossequio al citato art. 97 della nostra carta costituzionale.

Solo così si potrà evitare il dominio o l’eccessivo potere della pubblica amministrazione, con l’improduttiva pedanteria delle consuetudini, delle forme, delle gerarchie che ne ricalcano gli aspetti e, soprattutto, i difetti di quella oramai demonizzata, e non sempre a ragione, “burocrazia”.

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Mai come in questo periodo il tema degli ammortizzatori sociali è stato così sentito dall’intero sistema produttivo. In occasione della pandemia Covid19 ed alle conseguenti chiusure degli esercizi commerciali e dei siti produttivi il ricorso agli ammortizzatori sociali ha coinvolto praticamente tutto il mondo del lavoro. Un vero stress-test dell’impianto disegnato dal D.lgs 148/15. Il decreto legislativo, inserito nella più ampia manovra passata alla storia come JobsAct, traendo esperienza dalla crisi del 2009 ha previsto al fianco degli ammortizzatori sociali “storici” (il sistema della cassa integrazione ordinaria e straordinaria) una copertura rispetto a settori, fino a quel momento, poco interessati alla gestione di temporanee crisi d’impresa. Le considerazioni che si possono fare a valle del dramma Coronavirus, ed alle conseguenze che lo stesso ha determinato nel mondo del lavoro ed al nuovo assetto che ne deriva degli ammortizzatori sociali, sono diverse. Partirei dal porre quattro questioni che ritengo primarie:1) ha senso disegnare tanti sistemi e procedure diverse per affrontare i medesimi problemi? Non sarebbe più corretto giungere ad un meccanismo unico per rispondere alle crisi d’impresa?2) in che rapporto si deve porre sistema di ammortizzatori conservativi con un meccanismo di politiche attive del lavoro che favorisca la mobilità e la ricollocazione della forza lavoro?3) se il beneficiario dell’ammortizzatore sociale è il lavoratore come inquadrare l’inadempienza contributiva del datore di lavoro? Quali le sue conseguenze?4) chi deve pagare il sistema di ammortizzatori sociali? Il mondo del lavoro o la fiscalità generale?Sono quesiti importantissimi quelli che ci lascia come eredità la crisi della pandemia del 2020. Per provare a fornire una complessiva, sia pure in termini generali, risposta ritengo che sia necessario partire dalla valutazione di quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato in questi mesi.Avere tanti strumenti differenti suddivisi per tipologia e dimensione d’impresa crea una difficoltà enorme di gestione del sistema obbligando sia gli operatori professionali (consulenti del lavoro) che la PA ad impiantare, conoscere e manutenere sistemi tecnologici differenti. La tecnologia in una situazione del genere diventa un amplificatore di burocrazia. Esattamente il contrario dell’approccio digitale ai problemi. Un sistema non si semplifica trasformando moduli cartacei in digitali, si semplifica utilizzando l’analisi digitale per un suo ripensamento. Quindi uno strumento “tagliato su misura” per ogni impresa non diventa sinonimo di strumento idoneo, al contrario crea una babele di procedure nella quale è difficile districarsi. A tutto ciò deve aggiungersi che il D.lgs 148 ha previsto la creazione di ammortizzatori sociali di comparto, i fondi bilaterali, creati dalle forze sociali di settore. Un simile impianto prevede un presupposto fondamentale. La chiarezza di chi sia rappresentativo di un settore e quale sia la contrattazione collettiva di effettivo riferimento. Senza di ciò il sistema di finanziamento di questi fondi rischia di entrare in quel complesso di dubbi interpretativi che ha sempre accompagnato gli istituti presenti nella cd. “parte obbligatoria” del CCNL alla stregua degli enti bilaterali, della sanità integrativa o della previdenza complementare. In definitiva se non si parte dalla vigenza erga omnes di talune disposizioni diventa impossibile pretendere la contribuzione e, conseguentemente in un sistema puramente assicurativo, la prestazione.Veniamo al punto successivo. In mancanza di contribuzione manca la prestazione. Questo è evidente in un impianto assicurativo classico ma il concetto è difficilmente traslabile in un meccanismo di sicurezza sociale in cui il contraente (datore di lavoro) ed il beneficiario (lavoratore) sono soggetti diversi. La prestazione consente di evitare il licenziamento del lavoratore ed il mantenimento del rapporto di lavoro sia pure in fase di temporanea sospensione. Si evita di generare disoccupazione involontaria. Pertanto, in ossequio all’art. 38 Cost., dovrebbe valere, per ogni tipologia di ammortizzatore, il principio dell’automaticità della prestazione fermo restando l’obbligo contributivo del datore di lavoro.   Altro tema importante è quello relativo alla funzione propria degli ammortizzatori sociali. Il nome stesso “ammortizzatore” evoca la funzione di quel meccanismo che serve ad evitare colpi improvvisi ed a superare dossi o avvallamenti stradali con il minor danno possibile. Sul punto il richiamato D.lgs 148/15 aveva ben introdotto meccanismi che impedissero l’attivazione degli strumenti per funzioni diverse (pensiamo al caso di cessazione dell’attività aziendale) promuovendo in tali circostanze meccanismi di presa in carico del lavoratore da parte dei servizi di ricollocazione con supporto della assicurazione sociale per l’impiego (naspi). Negli anni questi concetti sono stati un po’ lasciati in disparte dal sistema che ha preferito “tornare all’antico” accantonando la ricollocazione dei lavoratori, propria delle politiche attive del lavoro, e privilegiando il sostegno al mancato reddito riprendendo quindi temi di politiche passive del lavoro. Un meccanismo così impostato rende difficile ipotizzare riprese occupazionali visto anche il dichiarato e mai realizzato potenziamento tecnico/organizzativo dei centri per l’impiego ai quali l’avvento della figura dei “navigator” non ha fornito alcun beneficio concreto.Ultimo tema sollevato è quello relativo al finanziamento degli ammortizzatori sociali. La questione è molto ampia e delicata. Mi limito solo a segnalare che la risposta dipenderà dalla funzione che il sistema darà agli stessi. Se rimanessero nell’alveo di uno strumento temporaneo di “sicurezza aziendale” il loro costo non potrà che essere a carico delle imprese e dei lavoratori. Se invece si evolvesse a meccanismo di generale ed universale difesa dalla povertà (reddito di cittadinanza), ancorchè temporanea, del lavoratore potrebbe aprirsi un tema di riconsiderare come destinatario del costo non il mondo del lavoro ma l’intera collettività. In questo caso l’aggravio per la fiscalità generale sarebbe compensato dal minor onere per le imprese che potrebbe tradursi con maggior gettito salariale e quindi maggior introito fiscale.Tematiche ampie e strutturali. Sicuramente lo stress test Covid19 non passerà inosservato anche in tema di ammortizzatori sociali che saranno probabilmente ristrutturati. Come ogni crisi, anche questa, avrà come conseguenza elementi di miglioramento. L’economista Joseph Schumpeter insegnava che proprio dalla crisi, la cui etimologia greca fa riferimento al cambiamento, deriva ogni miglioramento sociale. Speriamo valga anche questa volta.Paolo Stern – presidente Nexumstp S.p.A.Paolo SternConsulente del Lavoro in Roma. Socio fondatore di Nexumstp Spa. Autore di numerose pubblicazioni in materia di lavoro e relatore a convegni e seminari. Professore a contratto presso università pubbliche e private.Sara Di NinnoDottore in Scienze politiche e Relazioni internazionali, collaboratrice area normativa del lavoro presso Nexumstp Spa. Specializzata in Diritto del lavoro e Relazioni industriali, è dottore di ricerca in Diritto pubblico, comparato ed internazionale, con tema di ricerca in Diritto del lavoro internazionale, e docente in corsi di formazione in materia di disciplina del rapporto di lavoro.Massimiliano Matteucci Consulente del Lavoro in Roma, Socio Nexumstp spa. Laureato in Economia. Specializzato in normativa di Diritto del lavoro e previdenza sociale. Cultore della materia presso la Cattedra di Diritto del lavoro dell’Università La Sapienza di Roma e preso l’Università Niccolò Cusano di Roma. Membro del Centro Studi dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro Roma, relatore a convegni e seminari. È articolista per la rivista TWOC dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Roma. Consulente Asseveratore Asseco.Lorenzo Sagulo Laureato in Economia e Gestione delle imprese all’Università degli Studi “Roma Tre”. Collabora con Nexumstp Spa nell’area consulenza del lavoro. È specializzato in normativa di Diritto del lavoro e relazioni industriali. 

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BIBLIOGRAFIA

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Prof. Paolo Gentilucci

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