Nuovo reato di tortura, rischio di strumentalizzazione in ambito penitenziario

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Con la Legge 14 luglio 2017, n. 110[1] il legislatore ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano gli artt. 613-bis e 613-ter c.p., aventi ad oggetto rispettivamente la tortura e l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura[2].

Al riguardo, va osservato che il provvedimento normativo di cui sopra rappresenta il risultato di un lungo iter parlamentare, avviato nei tre anni precedenti a seguito dell’approvazione in Senato di un disegno di legge espressione della riunione di sei vecchie proposte e oggetto di reiterate modifiche nei passaggi tra Camera e Senato sino all’odierna definitiva approvazione[3].

L’introduzione nel codice penale dell’art. 613-bis consente al Belpaese di attuare la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (CAT), adottata nel 1984 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Ris. n. 39/46 e resa esecutiva in Italia con la Legge 3 novembre 1988, n. 498[4].

De facto, in più occasioni a livello internazionale[5] è stata evidenziata per l’Italia la necessità di sancire esplicitamente l’incriminazione del delitto di tortura[6]. A titolo meramente esemplificativo, si pensi alle Raccomandazioni del Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite e del Comitato per la prevenzione e la repressione della tortura del Consiglio d’Europa (CPT), come pure a quanto dettato dallo Statuto di Roma, con cui si è giunti all’istituzione della Corte Penale Internazionale, ratificato con la Legge 12 luglio 1999, n. 232[7].

Proprio in ragione di ciò sovente i giudici di Strasburgo[8] hanno condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 CEDU, che prescrive il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti, ponendo in risalto la ritenuta inidoneità dell’ordinamento penale italiano nel sanzionare i fatti qualificabili come tortura.

A fronte di tale quadro sovranazionale, il legislatore domestico con la Legge 31 gennaio 2002, n. 6[9] ha dapprima introdotto nel codice penale militare di guerra l’art. 185-bis[10], rubricato “Altre offese contro persone protette dalle convenzioni internazionali” e, ex post, con il D.Lgs. 12 gennaio 2007, n. 11[11] ha previsto il divieto di commercio di strumenti utilizzabili per la pena di morte, la tortura o altri trattamenti inumani o degradanti, lasciando la lacuna, nel codice penale, di una esplicita incriminazione del delitto di tortura fino all’emanazione della Legge 14 luglio 2017, n. 110.

Reato di tortura: condotta tipica

Procedendo con ordine, ai sensi del primo comma dell’art. 613-bis c.p., colui che, mediante violenze o minacce gravi, ovvero operando con crudeltà, provoca acute sofferenze fisiche o un accertabile trauma psichico ad un individuo “privato della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”, è punito con la reclusione da 4 a 10 anni se il fatto è commesso tramite più condotte ovvero se genera un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona[12].

La condotta tipica è, dunque, rappresentata alternativamente dall’impiegare violenze, minacce gravi ovvero dall’agire con crudeltà. Relativamente all’elemento oggettivo, l’art. 613-bis si configura quale reato di evento a forma vincolata, poiché è necessario che la condotta dell’agente si traduca in specifiche modalità e che la medesima cagioni un evento lesivo per la vittima.

In particolare, è necessario che il soggetto attivo atti “violenze o minacce gravi” ovvero agisca “con crudeltà”: queste azioni, a loro volta, possono integrare il reato de quo unicamente se “il fatto è commesso mediante più condotte” ovvero comporti “un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”.

Ne deriva, allora, che la norma in commento costruisca l’elemento della condotta su due livelli.Il primo si estrinseca nell’alternativa tra le violenze, le minacce gravi o l’agire crudele e, ove sia integrato uno di tali elementi, sarà appurabile l’esistenza del livello successivo, consistente nel binomio – ex novo alternativo – pluralità di condotte/trattamento inumano e degradante[13].

In relazione all’art. 613-bis c.p., sia la violenza che la minaccia si presentano come metodo adoperato dal colpevole al fine di arrecare direttamente un danno alla vittima, in ossequio allo schema concettuale della violenza o minaccia-mezzo. Non occorre, invece, che la condotta sia realizzata con il precipuo obiettivo di coartare la volontà del soggetto passivo, obbligandolo a fare, omettere o tollerare qualcosa.

L’uso della forma plurale per qualificare le violenze o minacce osta alla configurabilità del reato in caso di un solo atto di violenza o di minaccia, quantunque idoneo a provocare l’evento delineato ex art. 613-bis c.p.

Per di più, il criterio della pluralità delle violenze o minacce spinge a qualificare la tortura, allorché sia posta in essere con tali modalità, come reato abituale, per la cui integrazione è necessaria la reiterazione di più condotte nel tempo[14], sebbene, da altra prospettiva, la previsione normativa di cui all’art. 613-bis c.p. sancisce che il fatto comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità dell’individuo. Ebbene, proprio la presenza di questo requisito sembra essere dirimente per permettere di configurare la tortura in presenza anche di un unico atto di crudeltà.

In merito, secondo la dottrina maggioritaria, è irrazionale che nel dettato dell’art. 613-bis c.p. il trattamento inumano e degradante sia ipotizzato in modo alternativo alla pluralità delle condotte come se non ci fossero torture non inumane né degradanti per la dignità umana. Peraltro, pure per tale parametro valgono le censure di eccessiva indeterminatezza che determinano una violazione al principio costituzionale di precisione[15].

Come sopra accennato, in luogo all’utilizzo di violenze o minacce gravi, il reato in commento può essere commesso “agendo con crudeltà”. In riferimento a quest’ultimo profilo le Sezioni Unite del Supremo Consesso con la decisione del 23 giugno 2016, n. 40516[16] hanno chiarito che: “La circostanza aggravante dell’avere agito con crudeltà, di cui all’art. 61, n. 4, c.p., è di natura soggettiva ed è caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole”.

Evento e circostanze aggravanti

L’evento del reato è espresso dalle acute sofferenze fisiche o da un appurabile trauma psichico. Nei seguenti commi la disposizione giuridica in commento rinviene talune fattispecie aggravate per le ipotesi nelle quali:

  1. l’evento sia stato commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri concernenti la funzione o il servizio, con la precisazione che tale circostanza non si applica se le sofferenze scaturiscono solamente dall’esecuzione di legittime misure privative o riduttive di diritti[17];
  2. dal fatto discenda una lesione personale, una lesione personale grave, una lesione personale gravissima[18];
  3. il fatto abbia determinato la morte quale effetto non voluto ovvero sia stata provocata volontariamente la morte della vittima.

Non va sottaciuto, altresì, che la norma in commento non ricomprende nessuna indicazione in merito all’elemento soggettivo e, ad ogni modo, trattandosi di un delitto, l’imputazione sarà a titolo di dolo generico.

Ancora, l’altra previsione normativa di nuova introduzione, l’art. 613-ter c.p., punisce con la reclusione da 6 mesi a 3 anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del  servizio, istiga in modo tangibilmente adeguato un altro p.u. o un altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta, ma il delitto non è posto in essere.

Al riguardo, si è al cospetto di un reato proprio che può essere realizzato unicamente dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio. La punibilità dell’istigatore[19], in ipotesi di istigazione non accolta ovvero di istigazione accolta, ma non seguita dalla commissione del crimen, rappresenta una deroga al principio generale di cui all’art. 115 c.p.[20]

Alla luce delle considerazioni che precedono può asserirsi che l’introduzione degli artt. 613-bis e 613-ter c.p. possano essere qualificate come una evoluzione di carattere positivo sul terreno politico-culturale.  La circostanza che oggigiorno sia materialmente possibile per il giudice appurare se specifici modus agendi siano configurabili o meno come una tortura è una questione da non sottovalutare nella prospettiva del consolidamento della cultura dei diritti umani e della lotta avverso l’impunità per gravi infrazioni di questi ultimi.

Pertanto, in merito al rischio di una possibile strumentalizzazione del reato di tortura, anche in ambito penitenziario, va notato che il deficit di determinatezza della fattispecie di cui all’art. 613-bis c.p. è così elevato che è fondato il pericolo di una sua inapplicabilità.

In altri termini, è come se fossimo al cospetto di una tigre di carta[21] e, conseguentemente, non può non rilevarsi come il legislatore nazionale abbia disatteso i principi emersi in materia di tortura nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

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[1] La L. 14 luglio 2017, n. 110, recante “Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano”, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 18 luglio 2017, n. 166.

[2] In argomento, A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura, in Studium Iuris, 2018, p. 5 ss.; G. De Salvatore, L’incidenza degli atti atipici di tortura sul ragionamento del giudice penale, in Cassazione Penale, 2017, p. 4530 ss.; G. Lanza, Obblighi internazionali d’incriminazione penale della tortura ed ordinamento interno, in IP, 2011, 738 ss.; F. Lattanzi, La nozione di tortura nel codice penale italiano a confronto con le norme internazionali in materia, in Rivista di Diritto Internazionale, 2018, p. 151 ss.; A. Marchesi, Delitto di tortura e obblighi internazionali di punizione, in Rivista di Diritto Internazionale, 2018, p. 131 ss.; Id., L’attuazione in Italia degli obblighi internazionali di repressione della tortura, in RDIn, 1999, 463 ss.; C. Pezzimenti, Tortura e diritto penale simbolico: un binomio indissolubile?, in Diritto penale e processo, 2018, p. 158 ss.

[3] C. Pezzimenti, Tortura e diritto penale simbolico: un binomio indissolubile?, cit., p. 153, afferma che: “L’intera evoluzione storica della legge in commento può essere scandita dal tempo condizionale. La L. 14 luglio 2017, n. 110 nel sancire l’”Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano”, avrebbe dovuto avere una forte valenza politico criminale, intervenendo per colmare un gravissimo vuoto di tutela. Anche sotto il profilo storico giuridico, la legge avrebbe dovuto segnare una svolta epocale, dando finalmente attuazione, in imbarazzante ritardo, alla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (CAT), adottata nel 1984 dall’Assemblea Generale delle Nazioni unite e ratificata in Italia con la L. n. 498 del 1988. Torniamo all’indicativo presente. Si tratta, invece, di un provvedimento che “lascia tutti o quasi scontenti”: il testo normativo riflette emblematicamente tutte le tensioni ed i compromessi politici che ne hanno preceduto l’approvazione. Sotto il profilo della tecnica di normazione, la fattispecie presenta elementi di forte ambiguità e solleva, come vedremo, molti dubbi interpretativi: viene delineata “un’ipotesi di maltrattamenti – allargata e speciale” rispetto al 572 c.p. che, oltre a discostarsi dalla definizione di tortura contenuta nell’art. 4 dalla CAT, diverge dai principi emersi nella giurisprudenza della Cedu, nonché da quelli espressi nelle raccomandazioni del Comitato europeo di prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (CPT)”.

[4] La L. 3 novembre 1988, n. 498, recante “Ratifica ed esecuzione della convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, firmata a New York il 10 dicembre 1984”, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 18 novembre 1988, n. 271.

[5] A. Marchesi, Delitto di tortura e obblighi internazionali di punizione, cit., p. 131, dichiara che: “Nel lungo intervallo di tempo tra l’approvazione della legge n. 498 e quella della legge n. 110 i limiti del sistema italiano di punizione della tortura sono stati ripetutamente oggetto di valutazione nell’ambito di diverse procedure internazionali di garanzia dei diritti umani. La questione dell’adeguatezza delle norme italiane a rispettare l’obbligo di punire la tortura si è posta in occasione dell’esame dei rapporti periodici dell’Italia ad opera di diversi treaty bodies, a cominciare dal Comitato dei diritti umani. Il tema è stato, però, com’è ovvio, approfondito soprattutto dal Comitato contro la tortura, che vigila sul rispetto della Convenzione del 1984. Nelle osservazioni conclusive di questo sul quarto rapporto periodico dell’Italia si riferisce: «Notwithstanding the State party’s assertion that, under the Italian Criminal Code all acts that may be described as “torture” within the meaning of article 1 of the Convention are punishable and while noting the draft law (Senate Act No. 1216) which has been approved by the Chamber of Deputies and is currently awaiting consideration in the Senate, the Committee remains concerned that the State party has still not incorporated into domestic law the crime of torture as defined in article 1 of the Convention» Si prende atto, in altre parole, dei due argomenti contestualmente sostenuti da successivi governi italiani davanti ai treaty bodies — ovvero che l’introduzione di una fattispecie specifica non sarebbe dovuta ai sensi della Convenzione e che il Parlamento sarebbe stato comunque al lavoro per introdurre la fattispecie in questione — , argomenti che, tuttavia, oltre ad apparire in qualche misura contraddittori fra loro, non servono a fugare le preoccupazioni del Comitato; e si ribadisce, a conclusione della procedura, la raccomandazione già formulata in precedenza «… that the State party proceed to incorporate into domestic law the crime of torture and adopt a definition of torture that covers all the elements contained in article 1 of the Convention…». Oltre a essere raccomandata dal Comitato contro la tortura e da altri treaty bodies, l’introduzione di un reato specifico di tortura è stata oggetto di raccomandazioni rivolte all’Italia nel contesto della Universal Periodic Review (UPR) condotta, utilizzando un metodo peer-to-peer, in seno al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. In occasione del primo ciclo di revisione della situazione dei diritti umani nel nostro Paese, la questione è menzionata negli interventi di Regno Unito e Francia ed è oggetto di raccomandazioni specifiche da parte dei Paesi Bassi, della Repubblica Ceca e della Nuova Zelanda. In occasione del secondo ciclo di revisione della situazione italiana, invece, questa viene ripresa dalla sola Australia. Il tema è dunque presente nei lavori del Consiglio per i diritti umani, anche se occorre riconoscere che non ha avuto, entro tale contesto, la medesima attenzione che è stata riservata ad altre lacune del nostro ordinamento. A sua volta, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato che l’Italia ha violato più profili dell’art. 3, tra cui in particolare gli obblighi di natura procedurale concernenti lo svolgimento delle indagini e la punizione dei responsabili di tortura. Esemplare in tal senso è la sentenza Cestaro c. Italia del 2015 nella quale la Corte chiarisce le ragioni di natura strutturale all’origine della violazione dell’art. 3, dovuta anzitutto all’inadeguatezza degli strumenti normativi a disposizione degli organi preposti alla repressione della tortura. Facendo riferimento a ciò che ha reso inevitabile l’impunità dei responsabili dei c.d. fatti della Diaz, la Corte precisa che, in presenza di atti di tortura, gli effetti della prescrizione o di misure quali l’amnistia, la grazia o l’indulto, devono essere « compatibili » con le esigenze della Convenzione: non possono, in altre parole, tradursi nell’impunità per tali atti, com’è avvenuto invece nel caso in questione. La Corte, peraltro, non giunge a indicare esplicitamente l’introduzione di una fattispecie specifica di tortura come modalità unica di adempimento della sentenza. Di fatto, non avendo ritenuto i giudici di Strasburgo che fosse una modalità adeguata la copertura mediante altre fattispecie di reato, e in mancanza di una terza via, la sentenza lascia poco margine per eventuali scelte diverse”.

[6] G. Lanza, Obblighi internazionali d’incriminazione penale della tortura ed ordinamento interno, cit., 738 ss.; A. Marchesi, L’attuazione in Italia degli obblighi internazionali di repressione della tortura, cit., 463 ss.

[7] La L. 12 luglio 1999, n. 232, rubricata “Ratifica ed esecuzione dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, con atto finale ed allegati, adottato dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a Roma, il 17 luglio 1998”, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 19 luglio 1999, n. 167.

[8] Ad esempio, per Corte europea diritti dell’uomo, Sez. IV, 7 aprile 2015, n. 6884, in Giur. It., 2015, p. 1709 ss.: “La Corte conclude per la violazione dell’art. 3 della Convenzione – a causa dei maltrattamenti subiti dal ricorrente che devono essere qualificati “tortura” ai sensi di questa disposizione – sia sotto il profilo sostanziale che procedurale (…). In questo quadro, la Corte ritiene necessario che l’ordinamento giuridico italiano si doti degli strumenti giuridici atti a sanzionare in maniera adeguata i responsabili degli atti di tortura o di altri maltrattamenti rispetto all’articolo 3 e ad impedire che questi ultimi possano beneficiare di misure che contrastino con la giurisprudenza della Corte”.

[9] La L. 31 gennaio 2002, n. 6, rubricata “Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 1° dicembre 2001, n. 421, recante disposizioni urgenti per la partecipazione di personale militare all’operazione multinazionale denominata «Enduring Freedom». Modifiche al codice penale militare di guerra, approvato con R.D. 20 febbraio 1941, n. 303”, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 2 febbraio 2002, n. 28.

[10] Nella norma de qua si statuisce che: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il militare che, per cause non estranee alla guerra, compie atti di tortura o altri trattamenti inumani, trasferimenti illegali, ovvero altre condotte vietategli dalle convenzioni internazionali, inclusi gli esperimenti biologici o i trattamenti medici non giustificati dallo stato di salute, in danno di prigionieri di guerra o di civili o di altre persone protette dalle convenzioni internazionali medesime, è punito con la reclusione militare da due a cinque anni”.

[11] Il D.Lgs. 12 gennaio 2007, n. 11, denominato “Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (CE) n. 1236/2005, concernente il commercio di determinate merci che potrebbero essere utilizzate per la pena di morte, la tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti”, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 16 febbraio 2007, n. 39.

[12] G. De Salvatore, L’incidenza degli atti atipici di tortura sul ragionamento del giudice penale, cit., p. 4530 ss.

[13] A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura, cit., p. 5, osserva che: “La tecnica di formulazione della fattispecie ha sollevato alcune perplessità in ragione della difficile individuazione delle condotte in concreto sanzionate. In particolare, la tortuosità della norma rende particolarmente difficile la comprensione del precetto da parte dei consociati, in spregio al principio di precisione richiesto dall’art. 25, comma 2, Cost. Come si cercherà di evidenziare, pare inoltre dubbia la capacità di tale disposizione di contrastare efficacemente il fenomeno della tortura e di adempiere agli obblighi sovranazionali di incriminazione. L’articolazione della condotta secondo modalità alternative porta ad interrogarsi circa la configurabilità dell’art. 613-bis come “norma a più fattispecie” (id est, un unico reato realizzabile con modalità differenti) ovvero come “fattispecie a più norme” (e quindi più norme incriminatrici, ciascuna corrispondente ad una delle possibili modalità della condotta): la questione ha rilevanza pratica al fine di capire se il soggetto attivo, nell’ipotesi in cui ponga in essere più condotte alternative, debba rispondere di uno o di una pluralità di reati di tortura. Sembra preferibile la prima soluzione, considerato che le diverse modalità di realizzazione del fatto tipico esprimono un disvalore omogeneo e sono offensive degli stessi beni giuridici (incolumità individuale, libertà morale). Deve al contrario ritenersi configurata una pluralità di reati nel caso in cui la stessa condotta descritta dalla fattispecie incriminatrice venga realizzata a danno di una pluralità di persone, pur se in un unico contesto temporale. E infatti, in presenza di un’azione delittuosa lesiva di interessi di carattere personale, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere sempre realizzato un numero di reati pari a quanti sono i titolari dei beni giuridici offesi, essendo a tal fine indifferente che la condotta sia posta in essere in un ambito di spazio e di tempo unitario”.

[14] A. Costantini, Il nuovo delitto di tortura, cit., p. 6, sottolinea che: “Come osservato dalla dottrina, tale aspetto rischia di compromettere l’applicabilità della norma incriminatrice rispetto alla maggior parte degli episodi di tortura, connotati per il fatto di raggiungere immediatamente lo scopo perseguito dall’agente e, quindi, senza ripetersi nel tempo. L’unica possibilità che il delitto si realizzi in modo istantaneo, mediante una condotta unisussistente, è che ricorra il diverso elemento dell’agire con crudeltà, alternativo alle violenze o minacce, sempre che comporti un trattamento inumano e degradante”.

[15] F. Lattanzi, La nozione di tortura nel codice penale italiano a confronto con le norme internazionali in materia, cit., p. 151 ss.

[16] Cass. pen., Sez. Unite, 23 giugno 2016, n. 40516, in Giur. It., 2017, p. 1211 ss.

[17] Ex art. 613-bis, commi 2 e 3, c.p.: “Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni. Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti”.

[18] Ai sensi del comma 4 della norma in commento: “Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà”.

[19] C. Pezzimenti, Tortura e diritto penale simbolico: un binomio indissolubile?, cit., p. 157, osserva che: “Tuttavia difetta di coordinamento sistematico e, come si vedrà, potrebbe dar luogo a distonie applicative paradossali. Siamo dinnanzi ad un’ipotesi di istigazione a delinquere “speciale” rispetto a quella prevista dall’art. 414 c.p.: vi è, infatti, una qualificazione dei soggetti ed il riferimento specifico alla tipologia di reato oggetto dell’istigazione. Non si fa cenno, invece, alla pubblicità della condotta, ma sono richieste “modalità concretamente idonee”, anche se non è ben chiaro a cosa debba riferirsi il requisito dell’idoneità. Ma non è questo il profilo più critico. La norma prevede una deroga ai principi generali di cui all’art. 115 c.p., in materia di non punibilità del c.d. tentativo di concorso. A tal riguardo, suscita forti perplessità la scelta di selezionare “i destinatari della condotta istigatoria nei solo pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio, col risultato paradossale che, se un pubblico ufficiale istiga in modo concreto alla tortura un privato cittadino (possibile soggetto attivo del reato di cui all’art. 613 bis) il fatto risulterà non punibile alla stregua dell’art. 115 c.p.”.

[20] In tale disposizione normativa si stabilisce che: “Salvo che la legge disponga altrimenti, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, e questo non sia commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo. Nondimeno, nel caso di accordo per commettere un delitto, il giudice può applicare una misura di sicurezza. Le stesse disposizioni si applicano nel caso di istigazione a commettere un reato, se l’istigazione è stata accolta, ma il reato non è stato commesso. Qualora l’istigazione non sia stata accolta, e si sia trattato d’istigazione a un delitto, l’istigatore può essere sottoposto a misura di sicurezza”.

[21] In tali termini, C. Pezzimenti, Tortura e diritto penale simbolico: un binomio indissolubile?, cit., p. 158 ss.

Bibliografia

Costantini A., Il nuovo delitto di tortura, in Studium Iuris, 2018, p. 5 ss.

De Salvatore G., L’incidenza degli atti atipici di tortura sul ragionamento del giudice penale, in Cassazione Penale, 2017, p. 4530 ss.

Lanza G., Obblighi internazionali d’incriminazione penale della tortura ed ordinamento interno, in IP, 2011, 738 ss.

Lattanzi F., La nozione di tortura nel codice penale italiano a confronto con le norme internazionali in materia, in Rivista di Diritto Internazionale, 2018, p. 151 ss.

Marchesi A., Delitto di tortura e obblighi internazionali di punizione, in Rivista di Diritto Internazionale, 2018, p. 131 ss.

Marchesi A., L’attuazione in Italia degli obblighi internazionali di repressione della tortura, in RDIn, 1999, 463 ss.

Pezzimenti C., Tortura e diritto penale simbolico: un binomio indissolubile?, in Diritto penale e processo, 2018, p. 158 ss.

Dott. Francesco Chiechi

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