Il mercato del lavoro in Italia: immigrazione e politica dei redditi

Bruno Angela 31/05/07
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Negli ultimi cinquantanni il mercato del lavoro è stato oggetto di profonde trasformazioni che hanno coinvolto numerosi aspetti della vita economica e sociale.
Insorge il fenomeno delle migrazioni all’interno del territorio nazionale e, segnatamente, dalle campagne alle città finalizzato a trovare rimedio alla disoccupazione.
La nuova offerta di lavoro nella città industrializzata e la frantumazione del sistema socio-economico del villaggio rurale spinge, infatti, i contadini a lasciare la terra.
Cambiano le regole del mercato del lavoro, sia con l’acquisizione di maggiori poteri da parte del sindacato, che con l’aumento delle garanzie sociali per i lavoratori.
Il consolidarsi di queste ultime, tuttavia, ha favorito la nascita del mercato irregolare che ha dato occupazione ai lavoratori con minore capacità contrattuale.
Ed ancora, si assiste, al passaggio dell’occupazione dalle grandi alle piccole imprese, nonché, a causa della “deindustrializzazione”, dall’industria ai servizi.
A detti cambiamenti del sistema produttivo e del mercato del lavoro, dalla metà degli anni settanta alla metà degli anni novanta, conseguono bassi livelli di attività e di occupazione, in particolar modo nel mezzogiorno.
Per meglio comprendere le recenti trasformazioni del mercato del lavoro, è utile fare riferimento ad alcuni indicatori che si passano in rassegna, seppure succintamente.
Il tasso di attività, calcolato come rapporto tra forza lavoro e popolazione, oltre a darci la misura dell’offerta lavoro, può fornirci alcune indicazioni relative alla portata del lavoro nero e, quindi, sull’attendibilità dei dati ufficiali con riguardo alla concreta realtà.
A tale proposito, l’elaborazione del CNEL, su dati Istat, rileva che il tasso di attività, nel periodo successivo alla crisi del 1992, raggiunge il minimo nel 1995, per avviarsi, poi, ad un miglioramento fino al 2003; dal 1993 al 2003 l’occupazione, infatti, aumenta di oltre due milioni di unità.
Anche i dati dell’elaborazione del CNEL 1993-2003 relativi al tasso di disoccupazione, confermano quanto già detto: in Italia si registra un processo di riduzione della disoccupazione.
Detto cambiamento di tendenza, non riconducibile a fattori congiunturali, trova, piuttosto, spiegazioni nei mutamenti tecnologici, nel cambiamento dei comportamenti sociali e nella flessibilità del lavoro.
Quest’ultima notazione richiede un chiarimento.
Per vero, fermo restando che la maggior parte della crescita è da imputare, sicuramente, all’effetto della regolarizzazione degli immigrati fino al 2002, si ritiene che la flessibilità, non solo fa lievitare il sommerso statistico, dovuto alle difficoltà di stabilire il tempo di lavoro e allocare univocamente il lavoratore al settore di produzione (M. Rey), ma produce la suddivisione tra un numero maggiore di persone del lavoro esistente, con conseguente aumento di lavori sottopagati.
Giunti a tal punto bisogna evidenziare, altresì, che i tassi di attività sono calcolati secondo dati ufficiali di occupazione e disoccupazione che non considerano il lavoro irregolare.
In tale ottica è di particolare rilievo l’articolo di G. M. Rey, “La controversia sull’economia sommersa”, in Economia Italiana, anno 2003, n. 1, con il quale fornisce alcune motivazioni del lavoro sommerso.
Il sommerso di lavoro, secondo l’Autore, si caratterizza dall’assenza di un rapporto di lavoro formalizzato, da condizioni di lavoro e salariali diverse da quelle contrattuali, da manodopera aggiuntiva non denunciata e dalla sottodichiarazione di una parte della prestazione lavorativa.
È evidente, quindi, che nel nostro sistema, vivono due economie di cui una rispetta le regole ed è nota alla statistica ufficiale, l’altra elude le regole, proteggendosi, in tal modo, dalla concorrenza delle imprese più efficienti.
Il mercato del lavoro irregolare, infatti, oltre ad essere particolarmente flessibile è, spesso, l’unico disponibile per il lavoratore a cui è precluso l’occupazione regolare.
È necessario, quindi, promuovere, con urgenza, politiche adeguate dirette alla crescita della produttività e dell’efficienza, al fine di scongiurare il pericolo che l’emersione, indispensabile per il buon funzionamento dei mercati e per la crescita delle imprese e dell’economia in generale, generi riduzione dell’occupazione.
In tale prospettiva si condivide quanto sostenuto da De Rita e Camusi nell’articolo “La dinamica dell’economia sommersa: i nodi da sciogliere” lì dove si afferma che il fenomeno è alimentato da una “cultura della convenienza”, che attrae lo stesso lavoro regolare, dato che i vantaggi del sommerso sono giudicati maggiori rispetto ai rischi dell’emersione.
È chiaro, perciò, che bisogna rendere più conveniente l’emersione, adottando politiche che, tenuto conto delle cause del sommerso e del contesto in cui opera, siano in grado di combatterlo. E’ necessario, a tale proposito, l’ausilio di incentivi in grado di controbilanciare i maggiori costi di produzione e di riduzione del reddito netto, che gravano sulle imprese e sui lavoratori che rischiano di perdere il lavoro, nonché sui consumatori che si vedono costretti a sopportare il peso di transazioni più onerose (cfr. Rey, articolo citato).
Da molti anni l’Italia non è più un paese di emigranti, bensì di immigrati: nel 1971, per la prima volta nel dopoguerra, il numero degli immigrati supera quello degli emigranti.
Le motivazioni dell’immigrazione italiana negli anni settanta e ottanta sono riconducibili da un lato alle politiche di ingresso sempre più restrittive degli altri paesi europei, dall’altro all’opera di ristrutturazione industriale italiana che incentiva l’economia sommersa.
Quest’ultimo punto merita di essere chiarito.
Negli anni cinquanta, per molti paesi europei, inizia una fase di sviluppo economico che vede la produzione, favorita dal clima di liberalizzazione del commercio internazionale, crescere in modo significativo.
Ebbene, con il crescere dello sviluppo commerciale aumenta l’indesiderabilità, da parte dei lavoratori autoctoni, di molti lavori considerati poco qualificanti.
Ciò induce le imprese a fare ricorso all’abbondante e meno pretenziosa manodopera immigrata. Questa soluzione sembra essere gradita da più parti atteso che: le imprese riescono a garantire una maggiore concorrenzialità dei loro prodotti; i paesi d’accoglienza ritengono l’immigrazione un fenomeno provvisorio e, quindi, ininfluente ai fini della domanda pubblica di servizi; i lavoratori italiani non si sentono in concorrenza con lavoratori non specializzati e, infine, i paesi di partenza risolvono il problema occupazionale portatore di tensioni.
In questa situazione, seppure finalizzata a soddisfare esigenze congiunturali della domanda di lavoro, la chiusura delle frontiere nel 1973, dei paesi a forte immigrazione, rende l’Italia meta molto ambita.
L’Italia, seppur impreparata a ricevere un gran numero di lavoratori nonché carente di una legislazione di settore, non prende alcun provvedimento normativo anche in ragione del fatto che, superata la crisi petrolifera del 1973, aumenta sia il reddito che l’occupazione, non preoccupandosi, tuttavia, dell’aumento dell’inflazione che nel 1980 raggiunge il 21%.
Con la Legge n. 79 del 1983 si comincia a puntare a un rientro inflazionistico e all’innovazione produttiva che procura eccedenza di manodopera industriale.
Gli strumenti quale la cassa integrazione guadagni e il prepensionamento, pur tenendo a bada la tensione derivante dalla riduzione della forza lavoro, non riescono a diminuire l’inflazione, ma hanno un rilevante effetto sul debito pubblico, creando un clima favorevole all’economia sommersa, che richiama in Italia molti immigrati, spesso clandestini.
Fatta questa premessa, nell’impossibilità di fornire l’esatto quadro che faccia riferimento anche alla composizione clandestina dell’immigrazione, è opportuno soffermarsi sulla popolazione immigrata regolarmente presente nel territorio nazionale, avvalendosi dell’aiuto dei dati forniti dall’Istat, dal ”Rapporto sul mercato del lavoro 2004” – parte IV, dicembre 2005 e dal “Rapporto sul mercato del lavoro 2005”, luglio 2006, CNEL.
Si cercherà, quindi, di verificare quanti sono gli stranieri presenti nel nostro territorio, cosa fanno nel nostro Paese e quali sono i Paesi dai quali provengono.
Nel 2005 gli immigrati regolari, provenienti da 191 Paesi, hanno superato di poco i 3 milioni; circa la metà sono donne e oltre il 30% risiede stabilmente in Italia da più di cinque anni[[1]].
Ed ancora, si stima che fra i 540mila[[2]] e gli 800mila[[3]] siano irregolari che vivono nel sommerso.
Secondo i dati Istat del 2005, gli immigrati al lavoro sono un milione, il 40% dei quali impiegati nell’industria[[4]]; circa 372mila sono gli imprenditori immigrati operanti in Italia[[5]]; la categoria delle collaborazioni familiari è quella a più alto inserimento di immigrati[[6]]. Circa i due terzi della crescita dell’occupazione italiana, registrata nel 2005, è l’effetto della regolarizzazione degli immigrati fino al 2002[[7]].
Gli occupati sono principalmente aumentati nel settore delle costruzioni, in cui la regolarizzazione ha avuto un maggiore impatto e in misura inferiore nel comparto dei servizi, mentre si è avuta una diminuzione sia nell’industria, che nell’agricoltura.
Per quanto di interesse è bene, altresì, verificare l’apporto che gli immigrati danno al nostro sistema produttivo.
In quest’ottica è di particolare rilievo il punto di vista di Alessandra Venturini espresso nel suo articolo ”L’effetto della immigrazione sui mercati del lavoro nei paesi di destinazione”, pubblicato sulla rivista Economia italiana, n. 3, 2004.
Si parte, dunque, da una questione molto controversa: i lavoratori stranieri sono competitivi o complementari ai lavoratori nazionali?
Si ritiene che gli stranieri occupati regolarmente non siano direttamente competitivi con i lavoratori nazionali regolarmente occupati; la competizione, invece, sarebbe favorita dalla flessibilità del lavoro irregolare.
Vanno, però, considerati i casi di competizione o complementarità indiretta che potrebbero scoraggiare sia la mobilità territoriale dei lavoratori nazionali, che il decentramento produttivo dal nord verso il sud, nonché il decentramento produttivo verso paesi vicini con basso costo del lavoro e grandi risorse umane.
Ed ancora, se è vero che la domanda di lavoro poco qualificato è necessaria alle imprese per mantenersi competitive nel mercato in un periodo di congiuntura, detta domanda di lavoro dovrebbe rappresentare un fenomeno di breve durata.
Ulteriori considerazioni vanno effettuate anche in relazione alle tendenze demografiche che si riverberano sullo sviluppo del nostro paese.
A tale proposito è da condividersi, unitamente a Cortese, la tesi sostenuta da Savona secondo cui in Italia la caduta del tasso di crescita della popolazione è dovuta sia alla scarsa attitudine a correre i rischi e a sopportare i costi per allevare i figli, che da miopie protezionistiche nei confronti dell’immigrazione legale o dall’appagamento del benessere raggiunto. L’innovazione, quindi, non può arrestare la caduta del tasso di sviluppo reale; soprattutto se il grado di apertura sull’estero dell’economia è elevato e se l’insieme delle condizioni esistenti porta a una perdita di competitività alla quale segue la sostituzione della produzione nazionale con quella estera.
Non può, infatti, esserci sviluppo in assenza di risorse umane, non essendo bastante il solo capitale anche se accompagnato dalla tecnologia.
Bisogna, perciò, promuovere politiche atte a favorire la ripresa della natalità, regolando, altresì, i flussi migratori e la loro durata.
Con la politica dei redditi le parti sociali si accordano in merito alla distribuzione del reddito, per evitare rapporti conflittuali che potrebbero dar luogo all’accelerazione di processi inflazionistici.
Attraverso la politica dei redditi, quindi, si possono modificare, o mantenere, la quota dei salari e quella dei profitti, tenendo presente che se la prima aumenta la seconda diminuisce, e viceversa.
Va evidenziato, altresì, che la politica dei redditi consente all’autorità pubblica di controllare la stabilità dei prezzi senza far ricorso ad una manovra fiscale restrittiva (che implica una diminuzione delle spese pubbliche e un aumento delle imposte), meno gradita al mondo del lavoro.
Tenendo a mente le politiche economiche a disposizione del governo, bisogna in ogni caso riconoscere che ci si trova di fronte ad un problema di non facile soluzione, soprattutto se si considera che le due politiche dovrebbero essere utilizzate per combattere altri fenomeni come la disoccupazione che, se non ostacolati, potrebbero peggiorare i conflitti economici e sociali.
La politica dei redditi, infatti, a differenza di quella fiscale, addossa l’onere del controllo dell’inflazione solo al lavoro dipendente, mettendo in moto meccanismi sfavorevoli a detto lavoro. Ed invero, la politica dei redditi, attuata a partire dal 1992, è riuscita a contenere gli aumenti dei prezzi, riducendo i salari ed aumentando la quota dei profitti.
Oggi ci si augura che non abbia a ripetersi la lunga esperienza, del tutto negativa, del “patto sociale” del 1993. Ed invero, sia il punto relativo al controllo dei prezzi e delle tariffe, che quello dello sviluppo dell’occupazione sono rimasti lettera morta. Di contro, la parte favorevole all’impresa (abolizione della scala mobile, moderazione salariale, aumento della flessibilità e del precariato) è stata realizzata, ridistribuendo la ricchezza dei salari e delle pensioni in direzione dei profitti e della rendita finanziaria e immobiliare, con conseguente aumento del divario esistente tra ricchi e poveri.
Pertanto, il bilancio dell’applicazione dell’accordo del 1993 dovrebbe suggerire una puntuale riflessione in merito alla necessità di ridisegnare la politica dei redditi, apportando quelle modifiche che consentano di realizzare la ripresa della crescita della produttività, conciliandola con una redistribuzione più equa.
Bisogna, quindi, individuare, con immediatezza, le soluzioni idonee a dare puntuali risposte ai problemi dei lavoratori, alla crisi economica, sociale e culturale del nostro Paese.
Tommaso Padoa Schioppa, nell’illustrare la linea del nuovo governo, ha affermato che, per rilanciare gli investimenti ed elevare il livello di competitività dell’Italia, bisogna ripartire dal protocollo firmato nel 1993 per ”riscrivere l’accordo conservandone lo spirito, ma adattandolo ai problemi di oggi”, atteso che mentre nel 1993 i problemi che gravavano sui salari erano dati dall’inflazione e dall’instabilità monetaria “oggi il problema è la crescita insufficiente e lo stallo della produttività”.
Non sono, però, chiare le componenti che dovrebbero costituire il ”nuovo patto della politica dei redditi”. Si discute, peraltro in modo generico, di lotta all’evasione, di alleggerimento delle imposte e del rispetto delle scadenze per il rinnovo dei contratti di lavoro del pubblico impiego; non si fa chiarezza, però, sul sistema contrattuale e sui meccanismi finalizzati alla determinazione della dinamica salariale.
 
Angela Bruno
Avvocato – Dirigente – Ufficio di Staff Avvocatura del Comune di Vittoria – RG.                      Specialista in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni


[1]           [[1]] Anticipazione Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, maggio 2006
[2]           [[2]] XI Rapporto sulle migrazioni – 2005, Fondazione Ismu, 2006
[3]           [[3]] Eurispes, 2005
[4]           [[4]] I indagine sulla partecipazione al mercato del lavoro della popolazione straniera, Istat, IV trimestre 2005
[5]           [[5]] Rapporto sulla libertà d’impresa, Confartigianato 2006
[6]           [[6]] Note economiche, Centro studi Confindustria, aprile 2006
[7]           [[7]] Centro Studi Confindustria, op. cit. sub nota 6
 
 
 

Bruno Angela

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