Il fallimento della “super società di fatto”

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Il fallimento della “super società di fatto” è possibile? Certamente, vediamo in quali casi è disciplinato.
 

Indice

1.“Super Società di Fatto”: che cos’è? È ammessa la sua fallibilità?

Per “super società di fatto” si intende quella società personale di fatto alla quale partecipano, in qualità di soci illimitatamente responsabili, più soggetti, persone fisiche o giuridiche, società tanto di persone quanto di capitali.
Possiamo dire che ci troviamo di fronte, quindi, ad una società in nome collettivo irregolare, non iscritta nel registro delle imprese, ma costituita per fatti concludenti, senza alcuna formalizzazione.
Tale figura risulta ammessa dalla giurisprudenza e ne è ammessa la sua fallibilità.
In particolare, trattandosi di una società di persone, il suo fallimento è disciplinato dagli artt. 147 e 148 L.F..
L’art. 147, al comma 1 – 4 e 5, dispone che “La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III°, IV° (2291-2324 c.c.) e VI° (2452-2461 c.c.) del titolo V° del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili”.
“Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi”.
“Allo stesso modo si procede, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile”.
La prima questione che è stata affrontata riguarda la configurabilità o meno di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi del comma 1 dell’art. 147 L.F.
Difatti, il primo ostacolo che sembrava porsi è la norma di cui all’art. 2361, comma 2, relativa alle società per azioni, la quale dispone che: “l’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio”.
Sul punto, la Corte di Cassazione, già con la sentenza del 2016, n. 1095, ha superato tale limite e ha riconosciuto la possibilità della partecipazione di una società di capitali ad una SdF, anche nella circostanza in cui manchi una delibera assembleare ex art. 2361, comma 2, c.c. o l’informazione della nota integrativa.
Ergo, è stata ammessa la configurabilità di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi del comma 1 dell’art. 147 L.F..
Detto questo, altro dubbio riguardava il comma 5 dell’art. 147 L.F., in quanto lo stesso, a chiare lettere, si riferisce alla fattispecie in cui il fallimento originario sia quello dell’imprenditore individuale.
Anche tale limite è stato superato dalla giurisprudenza (Cass. N. 10507/2016 e succ.), la quale ha ormai pacificamente affermato che, se è riconosciuta la fallibilità di una società di fatto costituita da società di capitali ai sensi del comma 1, non vi è motivo di ritenere diversamente nell’ipotesi di cui al comma 5, ovvero quando l’esistenza della SdF si verifica in un momento successivo al fallimento autonomamente dichiarato da uno solo dei soci.
È evidente che non vi può essere un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale.
In sostanza ciò significa che la norma citata trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile a una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti, ma anche, in virtù di una sua interpretazione estensiva, quando il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, a una società di persone (cd. “Super Società di Fatto”).
L’iter giurisprudenziale su evidenziato è stato da ultimo confermato dalla recente riforma della legge fallimentare, laddove nell’art. 256, comma 5 – che va ad occuparsi della tematica attualmente oggetto dell’art. 147, comma 5, L.F. – viene aggiunto il riferimento della “società” accanto a quello dell’“imprenditore individuale”: infatti, il nuovo comma recita: “allo stesso modo si procede quando, dopo l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di un imprenditore individuale o di una società, risulta che l’impresa è riferibile ad una società di cui l’imprenditore o la società è socio illimitatamente responsabile».
 
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2. Elementi configuranti l’esistenza della “Super Società di Fatto”.

Delineato l’ambito di applicazione del fallimento della SdF, si riporta di seguito una breve sintesi degli elementi che devono sussistere affinché si possa affermare l’esistenza di siffatta figura societaria:
una forte influenza e un potere di condizionamento da parte di un soggetto nei confronti di una o più imprese sottoposte al suo potere, con un’intensità e con delle modalità che superano la mera direzione e coordinamento.
Vi deve essere una sovrapposizione dei ruoli e un’intersecazione dei flussi finanziari mediante i quali si realizzano gli investimenti, al punto tale da far pensare ad un’unica società di fatto tra i diversi soggetti coinvolti.
Conseguentemente, occorre dimostrare: 1) l’esistenza di un fondo comune, 2) la partecipazione ai guadagni ed alle perdite e 3) la c.d. affectio societatis, ovvero una collaborazione in vista dell’attività economica nei confronti dei terzi.
È bene rilevare che la Cassazione (Cassazione Civile, Sez. I, 17.04.2020, n. 7903) ha precisato che “La sussistenza del presupposto dell’estensione del fallimento postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che deve essere conforme, e non contrario, all’interesse dei soci; al contrario, la circostanza che le singole società perseguano l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo costituisce una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto e semmai indice di esistenza di una holding di fatto”.
Orbene, in tale ultima ipotesi il curatore può agire in responsabilità, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2497 c.c. e, comunque, la “holding” di fatto può essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l’insolvenza a richiesta di uno dei soggetti legittimati.
Altro elemento che legittima il fallimento della SdF è costituito dall’accertamento dello stato di insolvenza.
In particolare, la giurisprudenza recente (Cass. Civ., Sez. VI, Sent. 4 marzo 2021, n. 6030) ha affermato che per poter dichiarare il fallimento della supersocietà di fatto è necessario accertarne e dimostrarne lo stato di insolvenza, trattandosi di un fallimento non dipendente (com’è, invece, per il caso dei soci illimitatamente responsabili rispetto al fallimento della super società), ma autonomo rispetto a quello dei suoi soci illimitatamente responsabili.
In altre parole, il fallimento della super società di fatto costituisce il presupposto logico e giuridico della dichiarazione di fallimento, per ripercussione, dei soci, ma al fine di dichiarare il fallimento della super società l’indagine del giudice deve essere indirizzata all’accertamento sia dell’esistenza di una società occulta (o di fatto) cui sia riferibile l’attività dell’imprenditore già dichiarato fallito, sia della sua insolvenza.
In conclusione, alla luce di quanto sopra argomentato, possiamo dire che gli elementi sopra evidenziati costituiscono certamente un limite alla fallibilità della SdF, posto che all’insolvenza del socio già dichiarato fallito potrebbe non corrispondere l’insolvenza della stessa SdF (Cass. Civ., 20 maggio 2016, n. 10507), ma le questioni interpretative sono sempre aperte e continueranno, certamente, ad essere oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza.
 
 
 

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