Il danno psichico: la valutazione dello stato pregresso

Redazione 20/05/22
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Nel provare il danno psichico il giurista ricerca due elementi: il dolore fisico e il dispiacere, l’alienazione mentale.

Si parte dalle manifestazioni esteriori del dolore, per risalire all’esistenza e all’intensità di esso. Operazione che non è affatto semplice. Le manifestazioni esteriori possono essere le più disparate e dall’intensità più diversa. Rinunciare ad andare al cinema può essere una sofferenza; rinunciare a vedere gli amici può essere una sofferenza più grande; rinunciare alla compagnia della persona cara sarà una sofferenza incommensurabile. Cambia l’intensità, ma non cambia il concetto: soffrire, alla fine, non è che rinunciare. Il giurista, però, non deve solo accertare la sofferenza, ma la deve anche misurare, e poi monetizzare.

L’Avvocato Francesca Toppetti nel volume “Il danno psichico e la sofferenza morale” affronta il tema dell’accertamento del danno psichico.

Riportiamo di seguito un estratto del volume relativo al danno differenziale e le patologie pregresse.

La valutazione dello stato pregresso: i recenti insegnamenti giurisprudenziali

Attualmente, vi è una continua e fruttuosa dialettica tra comunità giuridica e medico-legale circa i metodi di valutazione e quantificazione del danno. Una pietra miliare in questo senso è rappresentata dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 28986 del 2019, con Presidente Giacomo Travaglino e Relatore Marco Rossetti, due giudici che hanno dato contributi monumentali a questi temi.

Questa sentenza ha riaffermato la distinzione tra lesione dell’integrità psicofisica – considerata come interesse giuridicamente protetto (danno-evento) – e il danno risarcibile (danno-conseguenza), che comprende le menomazioni e le c.d. “forzose rinunce” ad esse dovute (si ripropone, insomma, l’idea che l’invalidità permanente esprime con il suo valore percentuale la frazione di attività ordinarie alle quali il danneggiato deve forzatamente rinunciare).

Il “problema” ha quindi tre termini (condotta, lesione e menomazione), accoppiati tra loro da due distinti rapporti di causalità.

Il rapporto tra condotta e lesione è di causalità materiale (il riferimento essenziale è agli articoli 40 e 41 c.p.) e analizzarlo serve a comprendere se vi sia responsabilità (an debeatur) e chi sia tenuto al risarcimento, mentre il rapporto tra lesione e menomazione è di causalità giuridica (art. 1223 c.c.) e serve a identificare il valore “netto” da risarcire.
Come stabilito dalla citata sentenza, il nesso di causalità materiale non è “frazionabile”, ovvero non rileva se vi sia stato un concorso tra cause umane e cause naturali.

I fattori causali umani sono quelli che rientrano nella sfera di influenza e di controllo (di “signoria”, se si vuol usare il lessico dell’Antolisei) di un essere umano, mentre i fattori causali naturali sono quelli che sfuggono alla possibilità di influenza e di controllo di un essere umano (come un forte vento che fa cadere su un passante un vaso di fiori ben fissato).

Quando vi è concorso tra l’agire umano e gli eventi naturali nel causare un danno, è evidente che l’intero importo da risarcire grava sugli esseri umani, perché altrimenti il danneggiato non potrebbe ottenere completo ristoro.
Seguendo il solco del 41 c.p., è però evidente che le cause naturali possono portare al giudizio di irrisarcibilità del danno allorquando esse siano state (non solo necessarie ma anche) sufficienti per il verificarsi della lesione.
Quanto detto sin ora attiene al tema della causalità materiale.
Parallelamente, che una preesistenza possa essere stata concausa di lesione è irrilevante ai fini risarcitori, fintanto che non si prova che essa sia stata condizione necessaria e sufficiente per il verificarsi della lesione (con un esempio: nel caso di una frattura vertebrale da precipitazione per cedimento di un’impalcatura mal fissata, è irrilevante sapere se il soggetto fosse o meno osteoporotico).
Quando si deve, invece, valutare il nesso tra la lesione e le menomazioni, il riferimento codicistico essenziale è l’art. 1223 c.c., che limita il risarcimento alle sole conseguenze immediate e dirette della lesione.

Questo concetto può sembrare semplice ma non lo è: non sempre il danneggiato godeva di uno stato di salute anteriore assolutamente sano.
In tema di preesistenze, la tradizione medico-legale soleva (e suole) distinguere tra menomazioni coesistenti e concorrenti, monocrone e policrone.
Queste distinzioni possono essere superate se il ragionamento medico-legale si imposta in questi termini: dello stato anteriore di salute (preesistenze) si deve tenere conto solo quando non vi è piena corrispondenza tra lesione e menomazioni, potendosi quindi ritenere che le preesistenze abbiano potuto incidere sull’outcome dell’evento ingiusto.
In parole semplici: la vera preesistenza è quella che ha amplificato l’impatto menomativo della lesione. Riprendendo le ottime parole della sentenza prima citata: “ogni individuo costituisce un unicum irripetibile, rispetto al quale le conseguenze dannose del fatto illecito vanno dapprima considerate e stimate nella loro globalità, e poi depurate della quota non causalmente riconducibile alla condotta del responsabile”.

Continua a leggere l’articolo estratto dal volume “Il danno psichico e la sofferenza morale”.

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