Il coraggio di giudicare in coscienza

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         In recenti polemiche rilasciate sulla stampa vengono richiamate le intimidazioni e pressioni subite dai magistrati sia direttamente dagli ambienti istituzionali che dagli stessi colleghi, a questo deve aggiungersi l’autocensura che l’uomo si pone in pieno spirito di conservazione nel toccare poteri forti.
         Sorge una domanda che cos’è il coraggio?
         Afferma Don Abbondio che nessuno se lo può dare se non c’è l’ha, ma già i greci con Platone  si erano posti la domanda individuandolo nell’opinione retta e conforme alla legge su quello che si deve o non si deve fare, mentre Aristotele lo considera il giusto mezzo fra paura e temerarietà, virtù principale in quanto costituisce la saldezza della deliberazione.
         Il coraggio non è fanatismo perchè nel sostenere e tenere ferme le proprie idee rimane sensibile alla percezione del nuovo, non è pertanto chiuso in una formula determinata ( Jaspers).
         E’ stato anche detto che il coraggio è una lacerazione dell’esistenza accettata come necessità al fine di portare a compimento la realizzazione dell’essere che ci è proprio (Goldstein), atteggiamento orientato al possibile di ciò che non è ancora stato realizzato.
         In questo compimento del proprio essere nel quale si fa emergere le proprie concezioni e il proprio senso di giustizia, quale coscienza, si ha un rapporto dell’anima con se stessa e l’uomo “interiore” o “spirituale” nel conoscersi in termini immediati e privilegiati giudica se stesso in modo sicuro e infallibile.
         Ma la forza della coscienza nell’introdurre dubbi e problemi suscita opposizioni o ribellioni a poteri o sistemi di credenze istituzionalmente stabiliti, presenta idee e regole morali non ancora accettate ma destinate a soppiantarle, a mostrare il carattere incerto e problematico di quello che apparentemente è solido e certo.
         Si oppone ad essa la rete organizzativa degli interessi costituiti, l’organizzazione sociale quale forza negativa che limita l’uomo in rapporti sociali predefiniti, tutelanti interessi di per sé non giustificati dal contesto relazionale, rispondenti a modelli puramente autoriproduttivi.
         Il male, secondo la filosofia moderna, non è che un disvalore cioè l’oggetto di un giudizio negativo di valore, risulta pertanto necessario rifarsi alle regole o norme su cui si fonda il giudizio di valore e valutare se l’azione è in contrasto con il concetto di sopravvivenza del benessere propria della elite dominante, si possono quindi per tale via scindere due mali uno sociale e l’altro individuale.
         Comunque si voglia considerare tale esigenza, questa si esprime in regole o norme con le quali i comportamenti umani possono entrare in contrasto e questi possono assumere lo status di male, non perché lo siano di per se stessi, ma perché così appare al complesso di interessi toccati in quanto generano disvalore nella loro condotta.
         La reazione dà luogo all’isolamento, alla pressione psichica, premessa per ulteriori atti materiali tesi a rovesciare il disvalore dell’azione sul soggetto che l’ha effettuata.
         Solo una forte autocoscienza di valori e doveri, nata da esperienze giovanili, può reggere a tale pressione, vi è una ricerca interiore di ideali, ossia di ciò che è formale e perfetto anche se appartiene ad un’idea di perfezione che come tale può essere irreale. E’ la ricerca del rapporto dell’uomo con gli altri indipendentemente dall’apparato relazionale che rappresenta, viene riaffermato il rapporto autonomo del ruolo all’interno dell’organizzazione.
         Il coraggio di essere se stessi, quale insieme di valori, e non membro di un gruppo portatore di interessi economici inespressi e quindi mascherati.
         E’ la fatica di essere uomo.
 
 
 
 
Bibliografia
 
·        A. Abbagnano, Storia della filosofia, Utet, 1974.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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