Il contratto di mediazione

Redazione 06/06/19
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Le disposizioni che regolano la mediazione stabiliscono, in realtà, la definizione della figura del mediatore, più che dell’istituto in quanto tale.

La natura giuridica di tale rapporto è stato oggetto di dibattito dottrinale. Da un lato, chi sostiene che essendo la fattispecie dell’art. 1754 c.c. inserita nel Titolo III, dovrebbe pertanto ritenersi come contratto, anche in ragione del fatto che viene in essere un rapporto sinallagmatico, a prestazioni corrispettive, tra conferente e mediatore.

L’altra parte della dottrina considera la mediazione, quale atto unilaterale in ragione del fatto che manca l’accordo tra le parti. Tale orientamento ritenuto maggioritario stabilisce che la natura non negoziale dell’istituto è desumibile dallo stesso art. 1754 c.c., in cui è espressamente evidenziato il carattere di indipendenza e di imparzialità del mediatore e dunque dell’assenza di una soggezione al committente.

Definita la natura giuridica dell’atto, occorre ora vagliarne il contenuto che come precedentemente stabilito non è espressamente descritto, ma si deve desumere mediante un’operazione di sottrazione, mettendo a confronto le diverse ipotesi contrattuali esistenti.

La differenza rispetto alle altre ipotesi contrattuali

La mediazione si distingue dal contratto con persona da nominare di cui all’art. 1762, perché il mediatore non assume la qualità di parte nel contratto, ma solo di garante della sua esecuzione nei confronti del contraente noto. In ragione di ciò, il mediatore risponde per illecito nei confronti del contraente noto se gli fornisce la falsa comunicazione dell’avvenuta conclusione del contratto con il contraente ignoto, ovvero gli comunichi il nome di un contraente fittizio: in tali casi nessun contratto si è perfezionato e quindi potrà applicarsi il disposto dell’art. 1762 c.c.

Diverge anche dall’ulteriore ipotesi contrattuale del mandato, in cui l’attività svolta dal mandatario è unicamente negli interessi dal mandante con cui si assume l’obbligo di adempiere una data prestazione. La mediazione, pertanto, si distingue dal mandato, poiché essa dà diritto alla provvigione, solo qualora l’affare sia stato concluso. La dicotomia risiede nel tipo di obbligazioni assunte; pur tenendo conto dell’ormai pacifico orientamento espresso dalle Sezioni Unite del 2008 che esclude la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, nel contratto di mandato le obbligazioni possono considerarsi di mezzi, ricevendo il mandatario un compenso a prescindere dal risultato raggiunto, diverso nell’ipotesi di mediazione in cui il mediatore è legittimato alla provvigione “salvo buon fine” e dunque dopo aver raggiunto un dato risultato.

In relazione al diverso contratto di agenzia presenta quale elemento di affinità: l’intendo di porre in contatto due o più parti, così che possano concludere un accordo, ma se ne distingue per molti altri aspetti. La Suprema Corte ha affermato che la prestazione dell’agente consiste in atti di contenuto vario e non predeterminato che tendono tutti alla promozione della conclusione di contratti in una zona determinata per conto del preponente, quali il compito di propaganda, la predisposizione dei contratti, la ricezione e la trasmissione delle proposte al preponente per l’accettazione; l’attività tipica dell’agente di commercio non richiede, quindi, necessariamente la ricerca del cliente ed è sempre riconducibile alla prestazione dedotta nel contratto di agenzia anche quando il cliente, da cui proviene la proposta di contratto trasmessa dall’agente, non sia stato direttamente ricercato da quest’ultimo, ma risulti acquisito su indicazioni del preponente (o in qualsiasi altro modo), purché sussista nesso di causalità tra l’opera promozionale svolta dall’agente nei confronti del cliente e la conclusione dell’affare cui si riferisce la richiesta di provvigione.

Ulteriore, elemento distintivo si ravvisa con la procura, in cui un soggetto viene delegato o investito dell’onere di svolgere una data attività che risulta attestata con una forma scritta ad substantiam. L’atto in questione è, tra l’altro, unilaterale e recettizio, in cui il rappresentate dichiara di agire in nome e per conto del rappresentato, pur restando estraneo nei rapporti con il terzo, all’affare e assumendo la veste di parte.

Altro argomento controverso riguarda la natura della responsabilità del mediatore.

La responsabilità del mediatore

Avendo chiarito che nell’intermediazione il soggetto non risulta parte del vincolo contrattuale, la dottrina ha sostenuto che dovesse considerarsi indizio per qualificarlo quale ipotesi di responsabilità extracontrattuale, la quale è estensibile erga omnes. Ulteriore argomento a sostegno di detta tesi, si riferisce al nesso causale, che deve essere impiegato per la valutazione della provvigione.

Tale orientamento è stato superato da coloro i quali considerano la responsabilità del mediatore di natura contrattuale, con tutto ciò che ne deriva, in ordine di termine di prescrizione, onere probatorio e prova liberatoria.

Recentemente però, si è registrato un’inversione di pensiero, che predilige una soluzione intermedia, per cui la responsabilità del mediatore dovrebbe considerarsi da contatto sociale, così come previsto dall’art. 1173 c.c., anche in ragione del fatto che il mediatore crea un’occasione tra due parti mettendole in relazione tra loro, senza prendere parte nel rapporto contrattuale in senso stretto. Il mediatore potrà pretendere la provvigione solo qualora sia dimostrato il nesso causale tra la sua azione e il risultato raggiunto, in ordine al principio della causalità adeguata ex art. 1755 c.c.

L’art. 1759 c.c. rubricato “responsabilità del mediatore” elenca gli obblighi, a cui il mediatore è vincolato tra cui si ricorda quelli informativi. Sulla base del combinato disposto dell’art. 1176 co. 2 e 2056 c.c., il mediatore è responsabile solo nei casi in cui abbia volutamente taciuto informazioni e circostanze delle quali era a conoscenza, ovvero sia stato incaricato da uno dei committenti e abbia omesso di provvedervi ovvero abbia agito erroneamente. Da tale onere informativo può discendere anche una responsabilità di tipo precontrattuale, come è stato analogamente previsto dalla giurisprudenza di legittimità in tema di intermediazione finanziaria, in cui l’art. 21 TUF impone all’intermediario di fornire un’informazione adeguata in concreto, tale cioè da soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto.

Il mediatore professionale è inoltre tenuto a presentare una dichiarazione di inizio attività alla Camera di Commercio, la quale provvede all’iscrizione nel registro delle imprese o nel repertorio delle notizie economiche ex art. 73 d. lgs. N. 59/2010. In difetto, non sarà riconosciuto il diritto alla provvigione, onde il committente potrà vedersi restituito quando eventualmente versato senza che gli si possa opporre domanda di ingiustificato arricchimento.

Dalla fattispecie normativa esaminata, deve essere distinta quella della mediazione atipica.

In relazione alla mediazione atipica, si fa riferimento al procacciatore di affari, il quale svolge un’attività qualora sia incaricato da una sola parte, mediazione unilaterale. Diversamente da quanto accade nella mediazione tipica, nella diversa previsione è assente l’elemento della terzietà e dell’imparzialità.

In base a quanto detto, il regime giuridico a cui è assoggettato il procacciatore di affari risulta duplice: da un lato, di tipo contrattuale tra mandante e mandatario; dall’altro, da contatto sociale qualificato, in ragione del rapporto tra terzo e intermediario.

Ciò detto, occorre soffermarsi sulla causa del contratto di mediazione atipica, e in particolare stabilire se si tratti effettivamente di contratto atipico soggetto al giudizio di meritevolezza ex art. 1322 co. 2 c.c. ovvero si tratti di un mero collegamento negoziale.

Nel nostro ordinamento viene dato un ampio riconoscimento all’autonomia contrattuale, ovvero al potere riconosciuto alle parti di provvedere, con proprio atto di volontà, alla costituzione, regolazione ed estinzione dei rapporti patrimoniali. Tale autonomia si esplica nel riconoscere alle parti il potere di scegliere tra i diversi tipi di contratto, previsti dalla legge, quello più adatto alla realizzazione dei propri scopi, potendo determinare il contenuto del contratto, entro i limiti prefissati dalla legge. Ma autonomia contrattuale significa anche libertà di concludere contratti atipici, ossia contratti non previsti dalla legge, ma praticati nel mondo degli affari.

L’art. 1322 cod. civ., infatti, al comma 2, riconosce alle parti il diritto di addivenire alla conclusione di tali contratti, ma con il limite derivante dal giudizio sulla meritevolezza di tutela, secondo l’ordinamento giuridico, degli interessi che si intendono realizzare con tali contratti. Essi possono essere costituiti da elementi tipizzati di diversi contratti tipici (ed in tal caso sono detti contratti misti), oppure possono essere del tutto indipendenti da altri modelli contrattuali preesistenti (contratti sui generis). Ciò vale in particolare per alcuni tipi contrattuali resi necessari dal recente sviluppo dell’attività economica come ad esempio, il leasing, il franchising, il factoring, il catering o i contratti di sale and lease back. Pur se non previsti né disciplinati dalla legge, essi sono ammessi purché leciti e diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Quanto alla loro disciplina occorre valutare nel caso concreto, se e in che misura le norme di singoli tipi contrattuali e di diversi contratti possano essere applicate alla fattispecie esaminata. I contratti atipici sono ammessi dall’ordinamento ma solo se leciti e meritevoli di tutela: si parla di una atipicità giuridica per quanto riguarda la previsione normativa, perché è uno schema che non è stato ancora oggetto di intervento da parte del legislatore; ma il più delle volte si parla anche di atipicità sociale, nel senso che quel modello di operazione è assai diffuso nella prassi degli affari. Anche i contratti atipici devono soddisfare i requisiti essenziali del contratto, a pena di nullità.

Il ripetuto nascere di nuovi contratti atipici, frutto di quella “inerzia giuridica” nell’adeguamento alle sollecitazioni provenienti dall’esterno, ha portato, quindi, la dottrina ad affrontare il problema della loro disciplina e qualificazione.

La stessa giurisprudenza ha confermato inoltre che le parti, nell’esplicazione della loro autonomia negoziale, possono, con manifestazioni di volontà espresse in uno stesso contesto, dar vita a più negozi distinti ed indipendenti ovvero a più negozi tra loro collegati: le varie fattispecie in cui può configurarsi un negozio giuridico composto possono in conclusione e in via esaustiva distinguersi in contratti collegati, contratti misti e contratti complessi.

Il contratto collegato in cui il  collegamento contrattuale (che può risultare legislativamente fissato ed è quindi tipico, come accade nella disciplina della sublocazione contenuta nell’art. 1595 cod. civ., ma può essere anche atipico in quanto espressione dell’autonomia contrattuale indicata nell’art. 1322 cod. civ.) nei suoi aspetti generali non dà luogo ad un autonomo e nuovo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato non per mezzo di un singolo contratto ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi. Questo collegamento negoziale può essere bilaterale o unilaterale: è bilaterale quando le vicende di un contratto reagiscono necessariamente sull’altro, per cui l’invalidità di uno, nel suo significato più generale, determina necessariamente l’invalidità dell’altro e reciprocamente. E’ unilaterale, quando tale reciprocità non sussiste ed un negozio può restare valido, anche in presenza dell’invalidità dell’altro. Il “contratto collegato” non è, quindi, un tipo particolare di contratto, ma uno strumento di regolamento degli interessi economici delle parti, caratterizzato dal fatto che le vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia, risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull’altro, seppure non in funzione di condizionamento reciproco (ben potendo accadere che uno soltanto dei contratti sia subordinato all’altro, e non anche viceversa) e non necessariamente in rapporto di principale ad accessorio. E tuttavia, in ipotesi siffatte, se pure il collegamento dei contratti delineato dalle parti può determinare un vincolo di reciproca dipendenza tra di essi, così che le vicende relative all’invalidità, all’inefficacia o alla risoluzione dell’uno possano ripercuotersi sugli altri, detto collegamento non esclude che i singoli contratti si caratterizzino ciascuno in funzione di una propria causa e conservino una distinta individualità giuridica.

Pur rimanendo ancora aperta la questione, si propende per l’ipotesi di un collegamento causale, in ordine al fatto che pur essendo sempre previsto all’art. 1322 c.c., la mediazione atipica non è soggetta al gravoso vaglio di meritevolezza, previsto al secondo comma; inoltre, la causa non pare essere unica, difatti, l’intermediatore risulta incaricato di una data prestazione, per cui vige un rapporto di soggezione come nel caso del mandato e inoltre manca la posizione di imparzialità, ma come nella mediazione tipica rimane la natura mediatoria.

La mediazione atipica

Da ultimo, occorre soffermarsi sull’accesa questione relativa all’applicazione per la mediazione atipica della legge n. 39/1989 e il d. lgs. N. 59 del 2010.

Il dibattito riguarda l’obbligo di iscriversi al ruolo, per ottenere la corresponsione della provvigione maturata durante l’attività.

La questione è stata risolta dalla Cassazione a Sezioni Unite con una sentenza del 2017, la quale ha ricordato che nella mediazione tipica è previsto l’onere di iscrizione ex art. 2 della relativa legge. In ordine a ciò, l’omessa iscrizione non giustifica la successiva richiesta della provvigione. Così l’art. 1764 c.c. stabilisce una sanzione amministrativa in caso di mancata iscrizione.

Il Supremo Consesso ha esteso tale onere anche al mediatore atipico, c.d. procacciatore di affari, malgrado il forte dibattito giurisprudenziale tra chi sosteneva una forte differenza tra le fattispecie contrattuali e chi, invece, pur consapevole degli elementi distintivi, ne sottolinea l’elemento comune stabilendo che la disciplina della mediazione atipica possa essere riconducibile a quella della tipica.

Oltre al dato puramente strutturale, l’intento delle Sezioni Unite ha anche una matrice di carattere preventiva volta a evitare che prestazioni di carattere seppur occasionali vengano svolte senza un sufficiente controllo sul territorio.

In conclusione, può propendersi per una disciplina unitaria tra la mediazione tipica e atipica anche a fronte, di quanto di recente stabilito dalle Sezioni Unite.

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