I temperamenti al principio causalistico: l’astrazione processuale e l’astrazione sostanziale relativa

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 I. Il principio causalistico e i negozi astratti

Nel diritto romano non era prevista la causa quale elemento del contratto, in quanto preminente importanza era rivestita dal formalismo. Il principio di causalità dei trasferimenti giuridici trova espresso riconoscimento nel codice civile italiano del 1865, che considera la causa come il requisito della singola obbligazione, e non del contratto complessivamente inteso. Con l’avvento del codice del 1942, la causa diviene requisito del contratto, e non della singola obbligazione [1].

Il nostro ordinamento è informato al principio causalistico, la cui portata rende insufficiente la manifestazione del consenso dei contraenti. Non basta il nudo accordo per giustificare l’effetto giuridico, ma è necessaria una causa giustificativa ai sensi degli articoli 1322 comma 2, 1325 numero 2, 1343, 1344 e 1418 comma 2. La causa è una presenza invisibile, nel senso che un contratto non solo deve essere voluto, ma deve sempre anche avere alle spalle un perché adeguato e convincente [2].

In dottrina vi sono diverse teorie sulla causa: le più importanti sono quelle della causa intesa come scopo economico-sociale del negozio (cosiddetta causa tipica o causa astratta), e le dottrine che ritengono, invece, che la causa sia la ragione concreta che le parti vogliono soddisfare attraverso il negozio (cosiddetta causa concreta [3]).

Sono causali, quindi, quei negozi in cui la causa è elemento essenziale e costitutivo: essi, pertanto, non producono alcun effetto in caso di mancanza o illiceità della causa. La causalità del negozio costituisce la regola. Negli altri casi, la causa si presume [4].

La presunzione della causa non evidenzia, comunque, l’astrattezza di un negozio, poiché tale regola lascia aperta la possibilità di accertare se e quale sia la causa del negozio e, qualora si dimostri illecita o inesistente, il contratto risulterà  invalido.

È astratto, invece, il negozio i cui effetti si producono a prescindere dalla causa. L’astrattezza designa lo svincolamento del negozio dal requisito della causa. Nel suo significato più rigoroso, l’astrattezza è intesa come sostanziale e cioè come irrilevanza della causa ai fini della validità del negozio [5].

L’astrattezza sostanziale si distingue in assoluta e relativa, a seconda che la mancanza della causa sia irrilevante o dia luogo ad un’azione diretta a rimuovere le conseguenze dannose del negozio.

Accanto all’astrattezza sostanziale si distingue l’astrattezza processuale che esprime semplicemente l’esonero della prova della causa del negozio.

Nel negozio astratto, la causa non è assente, bensì stralciata, esterna [6]. Se, infatti, la causa fosse assente, si concluderebbe nel senso della nullità dell’atto negoziale per mancanza di causa [7]. Astrattezza significa, quindi, esistenza di una causa che non rinviene la propria compiuta enunciazione nel contesto dell’atto.

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II. Astrazione sostanziale e processuale

Tra i negozi astratti si annoverano la delegazione pura, caratterizzata dalla circostanza per cui il delegato, obbligatosi con il delegatario, non può sollevare eccezioni relative ai rapporti di valuta e di provvista sottostanti, salvo il caso di nullità prevista dall’articolo 1271 c.c., il contratto autonomo di garanzia e la fideiussione, nella quale la apposizione della clausola solve et repete consente al creditore di rivolgersi direttamente al garante senza previa escussione del debitore principale. L’astrazione ha carattere relativo in quanto in tali casi la legge accorda una rilevanza relativa e ritardata alla causa, ossia non genetica, ma funzionale. La mancanza della causa non potrà essere fatta valere preventivamente dal delegato o dal garante per sottrarsi al pagamento, ma solo, in un momento successivo, per ottenere la ripetizione della somma indebitamente percepita dal delegatario o dal creditore garantito. Nella delegazione pura, il principio causalista recupera la sua rilevanza solamente nell’ipotesi in cui siano nulli entrambi i rapporti sottostanti (nullità della doppia causa): la nullità della doppia causa è infatti sempre opponibile dal delegato al delegatario, proprio in quanto l’ordinamento non tollera la presenza di una attribuzione patrimoniale (rappresentata da un pagamento o dall’assunzione di un debito) che sia completamente ed integralmente priva di una giustificazione causale.

È dibattuto in dottrina se la cambiale rientri o meno nella categoria in esame, posto che chi firma una cambiale non può sottrarsi al pagamento se il terzo giratario è in buona fede.

L’emissione di una cambiale si giustifica, infatti, in base all’esistenza di un rapporto fondamentale: ad esempio, Tizio acquista un bene da Caio, ed emette una cambiale con riferimento all’obbligazione di prezzo; Sempronio riceve da Mevio una somma a mutuo, ed emette una cambiale per una somma corrispondente a quella che deve restituire. La vendita e il mutuo costituiscono il rapporto fondamentale in ragione del quale la cambiale viene emessa e dunque la causa che sorregge l’obbligazione cambiaria; l’emittente conserva pertanto la facoltà di opporre al creditore le eccezioni relative a tale rapporto (nullità, annullabilità, ecc.). Ma se la cambiale viene trasferita ad un terzo mediante girata, l’emittente non può opporre al terzo giratario le eccezioni relative al medesimo rapporto fondamentale: in questo senso, la cambiale, nei confronti del terzo giratario (e solo nei confronti di questi), può definirsi astratta rispetto al rapporto fondamentale.

L’emittente deve comunque eseguire nei confronti del terzo giratario la prestazione oggetto della promessa cambiaria, salvo poi rivalersi sul garante in ragione dei vizi che inficiavano il loro rapporto. Qualora, infatti, il debito portato dal titolo non fosse sussistente, il firmatario della cambiale potrà, dopo aver pagato, rivolgersi a colui il quale aveva rilasciato la cambiale per ottenere la restituzione di quanto corrisposto senza giusta causa [8]. Per Torrente, la cambiale comprende in se la ratio della previsione da parte dell’ordinamento di negozi astratti, che può essere rinvenuta nel facilitare l’acquisto e la circolazione dei diritti di credito [9].

L’attrazione processuale richiede, invece, che il negozio sia causale: chiunque agisca per ottenere la prestazione, derivante dal negozio a suo favore, non ha l’onere di dimostrare l’esistenza e la liceità della causa. Chi è chiamato in giudizio quale debitore deve provarne l’eventuale mancanza. La prestazione, in altri termini, risulta dovuta semplicemente in forza della promessa di pagamento o della ricognizione di debito.

Grava sul debitore l’onere di dimostrare che il rapporto non è mai sorto o si è nel frattempo estinto (per esempio colui che ha promesso il pagamento o riconosciuto il debito potrebbe dimostrare che il contratto che dovrebbe costituirne la fonte in realtà è nullo, oppure annullabile o risolubile, oppure, potrebbe dimostrare che il debito si è estinto per adempimento o per una delle altre cause previste dalla legge).

L’astrazione processuale si risolve, quindi, in una inversione dell’onere della prova [10].

L’astrazione processuale si riscontra in presenza di una promessa di pagamento o di una ricognizione di debito: tali dichiarazioni producono il solo effetto di dispensare colui a favore del quale sono fatte dall’onere di provare il rapporto fondamentale (articolo 1988 comma 1 c.c.), ossia la causa, l’esistenza della quale si presume fino a prova contraria (articolo 1988 comma 2 c.c.) [11].

L’articolo 1988 si riferisce, infatti, all’ipotesi in cui la promessa di pagamento e la ricognizione di debito siano pure, cioè non facciano riferimento al rapporto fondamentale che è quello dal quale traggono giustificazione. In tal caso esse sono, secondo la tesi dominante, dichiarazioni confessorie, cioè negozi processuali e non sostanziali perché non fanno sorgere un obbligo ma comportano la presunzione del rapporto fondamentale e l’inversione dell’onere della prova ex articolo 2697 c.c.. La prova contraria, che può essere fornita anche per testimoni, ex articolo 2721 c.c., può coprire non solo l’inesistenza ma anche l’invalidità, l’inefficacia o la sopravvenuta estinzione del rapporto sottostante.

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Note

[1] F. Caringella, Manuale ragionato di diritto civile, Dike Giuridica, 2019, p. 729. Si veda anche L. Guaglione, Il contratto, Sistema del diritto civile, G. Giappichelli Editore, Torino, 2018, p. 299 e ss.

[2] Ivi, p. 730.

[3] Sulla causa in concreto si veda, tra le tante, Cass. Civ., Sez. III, sentenza n. 10490 dell’08.05.2006.

[4] L. Guaglione, Il contratto, Sistema del diritto civile, G. Giappichelli Editore, Torino, 2018, p. 324 e ss.

[5] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, XXIV edizione, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019, p. 595 e ss..

[6] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 1996, p. 781

[7] C. M. Bianca, Diritto civile, volume III, Milano, 2000, p. 426.

[8] F. Caringella, Op. cir., p. 449 e ss.

[9]

[10] C. M. Bianca, Op. cit., p. 441.

[11] F. Gazzoni, Op. cit., p. 779.

Tullio Facciolini

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