I ritardi della pubblica amministrazione

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I ritardi della pubblica amministrazione: la c.d. «fuga dalla firma» come causa dei ritardi amministrativi

Indice

1. L’esercizio del potere amministrativo: profili patologici

Il potere amministrativo viene esercitato all’interno di un determinato arco temporale: il procedimento amministrativo, infatti, ha un inizio, uno svolgimento e, ci si augura, una fine. La fine del procedimento amministrativo coincide con la emanazione del provvedimento che, la legge n. 241 del 1990, richiede in forma espressa e scritta. Quali sono le conseguenze, tuttavia, della mancata emanazione del provvedimento amministrativo entro i termini stabili dalla legge (o da un regolamento governativo)?
Microscopicamente parlando, con riferimento al singolo procedimento amministrativo, la violazione del termine di conclusione del procedimento può essere causa di un danno patito dal privato istante: da qui la tematica del c.d. danno da ritardo della pubblica amministrazione, e, all’interno di questa, della risarcibilità del c.d. mero danno da ritardo.
Le lungaggini procedimentali, su altro versante, rappresentano la principale causa dei ritardi della pubblica amministrazione: quest’ultimi, oltre a comportare macroscopiche inefficienze amministrative, rappresentano un freno di notevole entità per il sistema Paese.

2. Gli interventi legislativi volti a contrastare i ritardi amministrativi

Il tema dei ritardi e delle inefficienze della pubblica amministrazione rappresenta, al giorno d’oggi, il più attuale tra i temi del Diritto Amministrativo, e, più in generale, del dibattito pubblico italiano.
I ritardi della pubblica amministrazione (rectius: le lungaggini procedimentali poste in violazione dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi), cagionano un notevole danno ai privati che vedono privarsi il bene della vita al quale aspirato, e che, nel contempo, subiscono una illecita interferenza nella loro libertà di autodeterminazione negoziale.
Con l’obiettivo di far fronte a questa impellente problematica, il legislatore italiano è intervenuto su vari fronti, con l’intento di garantire maggiore efficienza amministrativa, e, conseguentemente, una spinta all’economia del nostro Paese.
Da qui le modifiche apportate, con la l. n. 69 del 2009, al corpo dell’art. 2, l. n. 241 del 1990, nonché l’introduzione dell’art. 2-bis, l. cit., in materia di danno da ritardo della P.A.
Nel 2013, poi, con il d.l. n. 69 (c.d. decreto del fare), conv. in l. n. 98 del 2013, è stato introdotto il comma 1-bis all’interno dell’art. 2-bis, della l. n. 241 del 1990.
Gli interventi normativi così posti, tuttavia, non hanno garantito quel rinvigorimento sperato, con la conseguenza che il problema dei ritardi della P.A. è continuato (e continua) ad essere uno tra i principali motivi del mancato slancio dell’economia italiana.
Da qui la consapevolezza che un ammodernamento in tal senso richieda una riforma più ampia e strutturale, che, ad oggi, non è stata oggetto di elaborazione.
Bisogna comunque evidenziare che la «colpa» di tale arretratezza non può di certo essere imputata esclusivamente al legislatore italiano, visto che la giurisprudenza, pur avendo avuto la possibilità di dare attuazione ad un dato normativo innovativo, frutto delle recenti riforme e dei più alti intenti di efficienza, ha deciso di trincerarsi dietro un orientamento restrittivo, sulla base del quale si esclude la risarcibilità del mero danno da ritardo, richiedendo, all’opposto, il favorevole esito del c.d. giudizio di spettanza: tali conclusioni, come è facile intuire, presentano delle conseguenze negative sul piano degli investimenti che le imprese (nazionali ed estere) andranno a porre in essere (rectius: non andranno a porre in essere) nel nostro Paese.

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3. La c.d. fuga dalla firma come causa dei ritardi della pubblica amministrazione

Il problema dei ritardi della pubblica amministrazione, sulla base delle risultanze del più recente dibattito giurisprudenziale e dottrinario, risulterebbe essere legato alla paura che i pubblici dipendenti provano nel momento in cui devono (meglio, avrebbero dovuto) porre in essere delle decisioni che implicano l’assunzione di responsabilità: da qui l’attualissima questione della c.d. fuga dalla firma dei pubblici dipendenti, dalla quale scaturisce il problema dell’inerzia (e dei ritardi) della pubblica amministrazione, e, più in generale, la tematica delle inefficienze amministrative.
Con l’intendo di far fronte a questo incisivo problema, dovendo dar prova dell’avvio di un processo di riforme che, da più lati, l’Unione europea richiede, il governo italiano, con il d.l. n. 76/2020 (c.d. “decreto semplificazioni”), convertito dalla legge n. 120/2020, ha deciso di incidere sulla materia della responsabilità amministrativa, limitando la responsabilità erariale del pubblico dipendente ai soli casi di dolo (escludendo, quindi, i casi in cui la condotta lesiva possa essere imputata al pubblico dipendente a titolo di colpa grave): la suddetta riforma, sulla base di quanto previsto all’interno della relazione che ha accompagnato la presentazione del disegno di legge, avrebbe il compito di contrastare la c.d. burocrazia difensiva, e, dunque, la c.d. fuga dalla firma.[1] Come osservato da parte della dottrina, tuttavia, la riforma in commento, pur avendo alte aspirazioni, «corre il rischio di aumentare l’impunità di amministratori e funzionari pubblici portati a perseguire interessi personali ed egoistici e non quello pubblico e generale […] della collettività».[2]
L’elemento soggettivo, nella responsabilità erariale, è da sempre considerato «[…] requisito e causa, non dovendosi né potendosi ipotizzare pretese di danno erariale fondate, in sostanza, sulla sola ed esclusiva ricorrenza del dato oggettivo […]».[3]
Il legislatore, tuttavia, ha posto in essere una rilevante modifica normativa, innovando la disciplina in questione mediante il summenzionato d.l. n. 76/2020, conv. con mod. dalla l. n. 120/2020: la riforma de qua ha riguardato la nuova configurazione del dolo in senso penalistico, nonché l’abolizione (seppur temporanea) della colpa grave commissiva (resta invece inalterata la punibilità per colpa grave omissiva).[4]
3.1 (segue) Le modifiche alla disciplina della responsabilità erariale volte a contrastare la c.d. fuga dalla firma.
La responsabilità erariale è tradizionalmente definita come «quella particolare forma di responsabilità del dipendente pubblico, il quale sia obbligato a risarcire i danni, diretti e/o indiretti, cagionati all’ente di appartenenza o ad altro ente pubblico (compresa l’Unione europea) in conseguenza delle sue azioni o omissioni poste in essere, con dolo o colpa grave (corsivo mio), nell’esercizio delle funzioni allo stesso attribuite e svolte».[5]
La suddetta definizione, tuttavia, subisce un notevole condizionamento a fronte della riforma del 2020, la quale ha previsto la possibilità di imputare al pubblico dipendente il danno erariale solo se questi si trovava, al momento della commissione del fatto, in una posizione soggettiva di dolo (penalisticamente inteso).
Si aggiunga inoltre che, sulla base dell’impostazione pacifica della dottrina e della giurisprudenza, la responsabilità erariale risulta, «sul piano logico-dogmatico», equivalente a quella civile».[6]
Le Sezioni riunite della Corte dei conti, in data 28 luglio 2020, hanno reso un parere in sede di audizione sul disegno di legge, poi divenuto legge (l. n. 120 del 2020): con il seguente parere, le Sezioni riunite della Corte sollevano, sulla base di motivazioni giuridiche ben supportate, le proprie perplessità.
Dal suddetto parere si ricava che la Corte dei conti, con riferimento all’intento del legislatore di limitare la responsabilità erariale ai soli casi di dolo dei pubblici dipendenti, ritine che tale « “[…] assunto, nella migliore (o peggiore) delle ipotesi, […] (è) vero solo in minima parte, ben concorrendo alla incapacità provvedimentale della pubblica amministrazione altri fattori, tra i quali: la confusione legislativa, l’inadeguata preparazione professionale, l’insufficienza degli organici” ».[7]
Basandosi sulle statistiche pubblicate in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario della Corte dei conti 2020, poi, la Corte, sempre in sede di audizione sul disegno di legge in parola, sottolinea che il fatto di escludere la punibilità del pubblico dipendente nei casi di colpa grave, con l’intento di contrastare la c.d. fuga dalla firma, risulta privo di riscontri fattuali: si dimostra infatti che «le iniziative delle varie procure contabili erano collegate, per la grande maggioranza, ad ipotesi di danno erariale causato da “colpa grave” di funzionari o di amministratori pubblici».[8]
Per ciò che attiene il c.d. dolo erariale bisogna sottolineare che, sulla base di quanto affermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritaria, «il dolo consiste nella consapevolezza e volontà dell’azione o omissione vietata, ossia nell’agere contra legem, estesa anche alla volontarietà dell’evento dannoso» (è questa la c.d. teoria della volontà). La relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del c.d. “decreto semplificazioni”, come visto, ha altresì sottolineato che «[…] il dolo va riferito all’evento dannoso in chiave penalistica e non in chiave civilistica, come risulta da alcuni orientamenti della giurisprudenza contabile […]».[9]
La limitazione della possibilità di configurare la responsabilità erariale per colpa grave, sulla base di quanto previsto all’interno del d.l. “semplificazioni”, avrebbe dovuto avere vigenza fino al 31 luglio del 2021, termine poi differito al 31 dicembre 2021 con la legge di conversione.
Il d.l. n. 77 del 2021, tuttavia, ha previsto un prolungamento del suddetto termine al 30 giugno 2023.[10]
3.2 (segue) Le modifiche alla disciplina del delitto di abuso d’ufficio volte a contrastare la c.d. fuga dalla firma: i dubbi di legittimità costituzionale.
La c.d. fuga dalla firma della quale si è detto con riferimento alla responsabilità erariale, interessa altresì un’altra tematica: il reato di abuso d’ufficio.
L’abuso di ufficio rappresenta un delitto posto a chiusura del sistema penale, connotato da margini di elasticità che ne mettono in dubbio la compatibilità con il principio di determinatezza.[11] Il delitto in questione, poi, pone dei problemi con riferimento al rapporto autorità giudiziaria – amministratori, in quanto è necessario evitare una eccessiva ingerenza della prima nell’attività dei secondi, sia per garantire il rispetto del principio di separazione dei poteri dello Stato, sia, ed è questo che più ci interessa nell’attuale situazione di stallo economico, per evitare la c.d. burocrazia difensiva e la conseguente fuga dalla firma.
Una recente sentenza della Corte costituzionale (la sentenza n. 8 del 2022, redatta dal Prof. Modugno) si è interessata del delitto di abuso d’ufficio, in seguito alla rimessione della questione di legittimità costituzionale da parte del GUP del Tribunale ordinario di Catanzaro: il giudice dell’udienza preliminare, infatti, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, del d.l. n. 76 del 2020 (il c.d. “decreto semplificazioni”, summenzionato e commentato), conv. con mod. nella l. n. 120 del 2020, nella misura in cui ha modificato il reato di abuso di ufficio. Nella nuova formulazione, infatti, l’art. 323 cod. pen. prevede che:
Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità.
La riforma in commento ha sostituto, al corpo dell’art. 323 cod. pen., la precedente locuzione «di norme di legge o di regolamento», con la formula, maggiormente restrittiva, «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
I dubbi di legittimità costituzionale avanzati dal giudice rimettente riguarderebbero sia la modalità di introduzione della modifica normativa (decreto-legge), sia i suoi contenuti: con riferimento alla prima questione, la norma violerebbe l’art. 77 Cost.; in relazione alla seconda, invece, la norma si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., visto che
alla luce della modifica da essa operata, l’abuso, per assumere rilievo penale, dovrebbe risolversi nell’inosservanza di una norma legislativa che preveda una attività amministrativa vincolata “nell’an, nel quid e nel quomodo”: il che renderebbe pressoché impossibile la configurabilità del reato, posto a presidio del buon andamento, dell’imparzialità e della trasparenza della pubblica amministrazione. I casi di attività amministrativa integralmente vincolata sarebbero, infatti, estremamente rari e atterrebbero, comunque sia, a una sfera minuta dell’agere della pubblica amministrazione.[12]
 La struttura dell’art. 323 cod. pen., così come modificata nel corso degli anni, rappresenta, sulla base di una opinione ampiamente diffusa, una tra le principali cause della «burocrazia difensiva» (anche detta «amministrazione difensiva»): i funzionari pubblici, a causa della persistente paura di essere assoggettati a procedimenti penali (ed erariali), «si astengono […] dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative […], o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”)».[13]
 Il problema della «burocrazia difensiva» attanaglia il nostro Paese da diversi decenni: nel corso della precedente legislatura, il legislatore ha deciso di affrontare la questione sotto diversi aspetti[14], con l’obiettivo di garantire una ‘scossa economica’ al Paese, gravemente provato dalla pandemia di COVID-19. 
L’intervento normativo introdotto con il più volte citato «decreto semplificazioni», si fonda su due convinzioni particolarmente radicate e diffuse:
            a) che il “rischio penale” e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio, rappresenti uno dei motori della “burocrazia difensiva”; b) che quest’ultima costituisca a propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione.[15]
Il Giudice de quibus, come anticipato, dubita della legittimità costituzionale di un simile intervento, sia con riferimento allo strumento normativo utilizzato (il decreto-legge), sia con riferimento al suo assetto contenutistico.
Il Giudice delle leggi, tuttavia, dichiara non fondata la questione sollevata in riferimento all’art. 77 Cost. (questione logicamente pregiudiziale alla seconda), mentre dichiara inammissibili quelle sollevate ex artt. 3 e 97 Cost.

4. Gli intenti del legislatore e il contrasto della giurisprudenza

I riferimenti normativi trattati, come si è detto, sono frutto di un più ampio disegno legislativo volto a garantire l’affermazione di un’amministrazione sempre più efficiente: l’efficienza, come è noto, passa per l’azione, con la conseguenza che per poter perseguire tale fine, l’amministrazione deve avere al suo interno amministratori attivi che si assumano le responsabilità derivanti dalla funzione rivestita.
I ritardi amministrativi, dunque, rappresentano il grande problema da affrontare, sulla base di interventi organici e ben strutturati.
In questa direzione si è posta la l. n. 69 del 2009, nel momento in cui, garantendo la presenza di un sistema certo dei termini di conclusione del procedimento (art. 2, l. n. 241 del 1990), ha voluto introdurre, all’interno della legge sul procedimento amministrativo, l’ art. 2-bis, volto a disciplinare le «Conseguenze per il ritardo dell’amministrazione nella conclusione del procedimento».
Quest’ultima disposizione normativa, chiara negli intenti e nella formulazione letterale, è stata tuttavia snaturata dalla giurisprudenza (oggi) maggioritaria, la quale si è rivelata non curante delle più alte finalità che con la stessa il legislatore ha inteso perseguire.
La risarcibilità del danno subito dal privato come conseguenza del mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento, inoltre, trova un’importante conferma nel comma 1 dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990, «laddove il legislatore, nell’imporre, rispetto alle domande ritenute manifestamente irricevibili, inammissibili, improcedibili o infondate, l’adozione, in ogni caso, di un provvedimento espresso, ha, in tal guisa, inteso elevare a bene della vita la pretesa all’osservanza del termine di conclusione del procedimento, rendendola, così, meritevole di autonoma tutela risarcitoria».[16]
Poiché «quanto è maggiore la libertà tanto è minore il potere»[17],e, poiché il mercato economico raggiunge il massimo livello degli scambi nel momento in cui «lo si lascia fare» (il c.d. laissez faire teorizzato da A. Smith)[18], una crescita economica (che da più parti si auspica) non può che passare da una riduzione delle «scorrettezze» amministrative nei rapporti con i privati.
Se si continua a disattendere il chiaro disposto dell’art. 2-bis, l. cit., e la chiara finalità da questo perseguita, «subentrerebbe -rievocando A.O. Hirschman- uno stato di “insoddisfazione rispetto al risultato”, che, a sua volta, genererebbe “la disillusione e il conseguente allontanamento dall’area pubblica”».[19]
Un allontanamento dall’area pubblica, come è facile intuire, non può che creare egoismi e speculazioni di ogni genere, in contrasto con il perseguimento dell’interesse pubblico e con il raggiungimento del massimo livello di benessere collettivo.

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  1. [1]

    M. T. D’Urso, La riforma del dolo nei giudizi di responsabilità dopo il d.l. n. 76/2020 (c.d. “decreto semplificazioni”), convertito dalla legge n. 120/2020, in Rivista della Corte dei conti, Anno LXXIV – n. 2 – Marzo-Aprile 2021, p. 22

  2. [2]

    Id., ivi, p. 21

  3. [3]

    E. Giardino, La responsabilità per inosservanza del termine di conclusione del procedimento, in M. Immordino, C. Celone (a cura di), La responsabilità dirigenziale tra diritto ed economia. Atti del convegno internazionale. Palermo, 6-7 giugno 2019, 2020, p. 187.

  4. [4]

    Ibidem.

  5. [5]

    M. T. D’Urso, La riforma del dolo nei giudizi di responsabilità dopo il d.l. n. 76/2020 (c.d. “decreto semplificazioni”), convertito dalla legge n. 120/2020, cit., p. 22.

  6. [6]

    M. T. D’Urso, La riforma del dolo nei giudizi di responsabilità dopo il d.l. n. 76/2020 (c.d. “decreto semplificazioni”), convertito dalla legge n. 120/2020, cit., pp. 22-23

  7. [7]

    Id., ivi, p. 24.

  8. [8]

    Ibidem.

  9. [9]

    M. T. D’Urso, La riforma del dolo nei giudizi di responsabilità dopo il d.l. n. 76/2020 (c.d. “decreto semplificazioni”), convertito dalla legge n. 120/2020, cit., pp. 24-28.

  10. [10]

    Il d.l. n. 77 del 2021 è stato posto in essere in maniera coordinata con la legge n. 108 del 2021, di approvazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (c.d. PNRR): da ciò si ricava la conferma dell’impostazione del legislatore nazionale, il quale continua a ritenere la riforma introdotta con il c.d. “decreto semplificazioni” essenziale ai fini della ripresa del sistema Paese, nonché necessaria per l’allineamento con le richieste provenienti dalle Istituzioni europee.

  11. [11]

    Sentenza n. 8 del 2022 della Corte Costituzionale

  12. [12]

    Sentenza n. 8 del 2022 della Corte Costituzionale

  13. [13]

    Sent. de qua, p. 10

  14. [14]

    Sent. de qua, pp. 10-11

  15. [15]

    Sent. de qua, p. 15

  16. [16]

    E. Giardino, La responsabilità per inosservanza del termine di conclusione del procedimento, cit., p. 193

  17. [17]

    N. Bobbio, Prefazione, in L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, p. VIII

  18. [18]

    Cfr. N. G. Mankiw, M. P. Taylor, Principi di economia. Settima edizione italiana a cura di M. Merelli, Bologna, 2018, p. 7.
    Cfr., altresì, M. Friedman, R. Friedman, Free to Choose, 1980, trad. it. G. Barile, Liberi di scegliere, Milano, 1981, pp. 7-18.

  19. [19]

    E. Giardino, La responsabilità per inosservanza del termine di conclusione del procedimento, cit., p. 193

Giuseppe Di Giacinto

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