I pentimenti nel diritto del lavoro: i casi della emersione e della stabilizzazione

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Once upon a time…a Napoli c’era un convento, chiamato “ Delle Pentite “, che costituiva refugium consigliato o obbligato per fanciulle o donne a cui erano attribuite condotte devianti, pur se talvolta alcuna colpa potevasi ad esse attribuire…sic ut non sempre eravi ben chiaro chi e per che cosa dovesse pentirsi nonché, sovratutto, chi dovesse essere il giusto penitente….
 
Interessanti configurazioni, sotto il profilo giuridico negoziale, di pentimenti si assumono dalla recente legge 296/2007 (meglio nota come finanziaria 2007) che, in alcuni commi dell’articolo 1, si è occupata di due particolari fattispecie: la c.d. emersione dei rapporti di lavoro in nero e la c.d.  stabilizzazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto.
In entrambi i casi è previsto un accordo tra datore di lavoro e sindacati (o sindacato?),
un atto di conciliazione, id est transazione, un regime agevolato di adempimento dell’obbligo contributivo e premiale nonché effetti giuridici di varia natura: sospensivi o interdittivi di accertamenti ispettivi, lavoristici o fiscali; estintivi di alcuni reati e delle obbligazioni di pagamento di sanzioni pecuniarie amministrative.
 
Il tratto fortemente peculiare delle due procedure è dato dalla connessione tra la voluntas del datore di lavoro di regolarizzare situazioni di lavoro irregolare ( nella emersione) e di incerta tipologia (nella stabilizzazione), contenuta nell’accordo con il sindacato, e la conciliazione del lavoratore a cui si riferisce appunto la situazione di irregolarità: ergo il datore si pente e il lavoratore si concilia.
Siffatta peculiarità induce a spendere qualche considerazione su tale accordo, sulla relazione con la conciliazione, al fine di verificarne i limiti di ammissibilità (rectius, legittimità).
 
Le due procedure presentano poi tratti dissimili sicchè è opportuno trattarne separatamente.
 
La procedura di emersione ( commi da 1192 a 1201), ispirata a finalità di conseguimento della regolarizzazione e del riallineamento retributivo e contributivo dei rapporti di lavoro non risultanti da scritture o da altra documentazione obbligatoria ( situazione che qualifica come “ nero”, come da esegesi ministeriale, il rapporto di lavoro), principia con una istanza che i datori di lavoro possono presentare alle sedi dell’INPS, territorialmente competenti, entro il 30 settembre 2007.
Condizione per la presentazione della istanza è la stipulazione di un accordo aziendale ovvero territoriale (in mancanza di rappresentanze sindacali aziendali o unitarie) tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali aderenti alle associazioni nazionali comparativamente più rappresentative, accordo che – precisa altresì la norma- è finalizzato alla regolarizzazione dei rapporti di lavoro in nero.
La norma stessa traccia i confini dell’oggetto dell’ accordo (da allegare alla istanza, dunque corrispondente alla stessa), stabilendone profili programmatici, id est la disciplina della regolarizzazione dei rapporti di lavoro, e profili strumentali, id sunt la stipula di contratti di lavoro subordinato e la promozione di sottoscrizione di atti di conciliazione individuale che producono gli effetti conciliativi di cui agli art. 410 e 411 c.p.c. specificando espressamente che questi ultimi operano “…con riferimento ai diritti di natura retributiva, e a quelli ad essi connessi e conseguenti derivanti dai fatti descritti nella istanza di regolarizzazione e per i periodi in essa indicati, nonché ai diritti di natura risarcitoria per i periodi medesimi…”
Nella istanza di regolarizzazione il datore di lavoro deve appunto indicare :
a-le generalità dei lavoratori che intende regolarizzare;b- i rispettivi periodi oggetto di regolarizzazione, comunque non anteriori ai cinque anni precedenti la data di presentazione dell’istanza.
 
Dunque con la istanza il datore di lavoro esce allo scoperto (anche, non spontaneamente, in seguito ad accertamento ispettivo, come si evince dal combinato disposto dei commi1192 e 1195) e dichiara, rappresentando il reale stato di fatto 
( altrimenti non avrebbe senso logico, prima che giuridico, la successiva conciliazione del lavoratore) che ha in corso dei rapporti di lavoro in nero che intende regolarizzare.
Nell’accordo con i sindacati ( o con uno solo di essi per chi ammette tale possibilità) è ribadita questa professione di emersione e vi è la assunzione da parte del datore di lavoro dell’obbligazione di stipulare contratti di lavoro subordinato, mentre a latere il sindacato si impegna a promuovere la sottoscrizione di atti di conciliazione, ex artt. 410 e 411 c.p.c., che dovrebbero secondare ciò che la norma non dichiara apertis verbis, cioè una proposta di “regolarizzazione” del datore di lavoro, sostanzialmente concordata ed approvata dal sindacato.
Ebbene pare però che oltre al datore di lavoro è previsto un pentimento anche del lavoratore che deve dare luogo alla conciliazione, transigendo su diritti di natura retributiva e su quelli connessi e conseguenti, anche di natura risarcitoria derivanti dai fatti descritti nella istanza e per i periodi in essa compresi.
 
Questo particolare atteggiarsi del rapporto negoziale tra datore di lavoro, sindacato e lavoratore offre lo spunto per alcune notazioni di carattere sistematico.
Nell’accordo tra datore di lavoro e sindacato, il primo si obbliga a stipulare con i lavoratori oggetto della regolarizzazione contratti di lavoro subordinato, con durata minima legale di 24 mesi, al riguardo va osservato che in realtà l’obbligazione è a procedere alla definizione formale ex nunc dei contratti, in quanto erano già in essere (salva la ipotesi di co.co.pro. “geneticamente modificati”), rapporti di lavoro subordinato, ancorchè irregolari.
Il sindacato assume una obbligazione latamente riconducibile a quella del mediatore (cfr art.1754c.c.), nella misura in cui, in ossequio al testo della norma, valicando la sua ordinaria funzione “influenzatrice”, sostanzialmente è volto a stimolare una attività giuridica, ossia l’atto di conciliazione dei lavoratori.
Ciò posto va rilevato quindi che il sindacato non svolge una funzione rappresentativa concordando, nei limiti consueti, con il datore di lavoro la normazione del rapporto alla quale i lavoratori singolarmente sostanzialmente non possono derogare ma, attesa la eccezionalità del sistema derogatorio ( non solo agevolazioni contributive ma anche sospensioni di provvedimenti sanzionatori, sospensioni di accertamenti ispettivi, estinzioni di sanzioni), è chiamato a fungere da alto garante che la deroga non leda i diritti costituzionalmente sanciti del lavoratore.
 
Da ciò discendono due conseguenze : da un canto, la conciliazione deve essere sostanzialmente quale istituzionalmente è, vale a dire un autonomo atto di libertà negoziale del lavoratore, sicchè non sono ammissibili conciliazioni nei fatti coatte, d’altro canto, che non è praticabile la stipula di accordi estremamente lesivi per il lavoratore che segnerebbero il tracollo della funzione equilibratice del sindacato.
Diversamente operando, nell’un caso come nell’altro, si realizzerebbero evidenti lancinanti effrazioni del principio di rispetto dell’ordine pubblico (nel caso di specie, trattandosi di contratti di lavoro, di ordine pubblico di protezione) a cui deve essere informata l’attività contrattuale.
E tanto andrebbe ad esitare nella nullità del contratto, ex artt. 1343,1346 e 1418 c.c.
Di talchè un accordo stipulato in tali termini sarebbe nullo così come la conciliazione seguita in omaggio all’accordo, per nullità derivata.
La funzione di presidio della tutela degli interessi che, ancorché intestati a privati, si connotano per l’elevata rilevanza pubblicistica, che l’ordinamento giuridico assegna alla sanzione della nullità del contratto, nella fattispecie de qua trova una ipotesi di esercizio paradigmatica, in quanto è convenuto che un lavoratore proveniente da un rapporto di lavoro, quantomeno non ortodosso, pervenga a transazioni.
 
Specificamente, un accordo con contenuto lesivo, nella valutazione complessiva, per il lavoratore è certamente viziato per illiceità dell’oggetto, ex art. 1346 c.c., mentre un accordo che si traduca in un atto di conciliazione a tema prefissato e ineludibile per il lavoratore, ( magari pena un sotteso rischio di cessazione del rapporto di lavoro), è nullo anche sotto il profilo della illiceità della causa, in quanto l’accordo stesso rinnegherebbe la funzione economico sociale, assegnata dalla norma ( comma 1192 e segg.), di negozio volto alla regolarizzazione per assumere invece funzione di negozio, in fraudem legis,teso alla coatta “bonificazione” di rapporti di lavoro irregolari.
 
 Affatto confliggente di converso con i principi su cui poggia la funzione di tutela del lavoratore è poi la situazione degli accordi che prevedono una regolarizzazione “scaglionata” nel tempo.
Infatti, atteso che presupposto della regolarizzazione è la sussistenza di una situazione irregolare, nel caso dell’accordo “scaglionato”, delle due l’una:o i lavoratori a cui si riferisce la regolarizzazione differita nel tempo continuano a lavorare secondo le condizioni quo ante oppure cessa o è sospesa la attività lavorativa, che riprende al tempo in cui è stata fissata la emersione.
In entrambe le ipotesi sono evidenti i segni della illegittimità dell’oggetto e della causa.
E’ di tutta evidenza che è illecito il procrastinare lo svolgimento contra legem del rapporto.
Parimenti illegittima sarebbe la cessazione o la sospensione del rapporto di lavoro che non fonderebbe su alcuna della ipotesi tipiche di tali modifiche del rapporto di lavoro, salvo che – ma l’illiceità “aumenterebbe”, si voglia ipotizzare che la conciliazione debba contenere, o debba essere di preludio, alla espressione di un mutuo dissenso, con effetti temporanei, del datore di lavoro e del lavoratore alla prosecuzione del rapporto, ex art. 1372 c.c.
 
Nei limiti in cui non si pongano in essere coartazioni e della volontà del lavoratore e non siano vulnerati i suoi interessi, sono da ritenere legittimi anche i c.d. accordi separati
 
 
Perplessità non minori si assumono dalla procedura c.d. di stabilizzazione, prevista dai commi da 1202 a 1210, dell’art. 1 l.296/2006.
Il comma 1202 annuncia che “ al fine di promuovere la stabilizzazione dell’occupazione mediante il ricorso a contratti di lavoro subordinato nonché di garantire il corretto utilizzo dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto”, i committenti datori di lavoro, entro il 30 aprile 2007, potevano stipulare accordi sindacali.
Questi ultimi (cfr c.1203) promuovono “la trasformazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto, mediante la stipula di contratti di lavoro “; a seguito dell’accordo, i lavoratori interessati alla trasformazione, sottoscrivono atti di conciliazione individuali, ex artt. 410- 411 c.p.c.
In tale fattispecie quindi l’accordo tra datore di lavoro e sindacato, almeno stando al dato testuale normativo, presenta caratteri diversi rispetto all’accordo relativo alla c.d. emersione alla c.d. emersione, sopra considerato.
Infatti detto accordo mira a promuovere la trasformazione del rapporto tra datore di lavoro e lavoratore( novazione reale e causale del contratto), per cui da una parte il datore di lavoro si obbliga a stipulare contratti di lavoro subordinato, per una durata non inferiore a 24 mesi e il sindacato ad esercitare la sua “influenza” per la detta trasformazione, con una attività di mediazione più sfumata rispetto alla situazione di emersione.
Stricto iure, tale procedura è dunque riferibile alla trasformazione di rapporti negoziali, alla novazione reale e causale di obbligazioni, con successiva conciliazione ( di cui non è prevista testualmente dalla norma evocazione nell’accordo, neanche nella forma della “ promozione delle sottoscrizioni di conciliazioni”, come è detto invece dal comma 1194 rispetto all’emersione).
Dunque affinché l’accordo di stabilizzazione possa ritenersi lecito dovrebbe afferire a situazioni in cui la trasformazione si renda opportuna, e giuridicamente sostenibile, a fronte della peculiarità di una situazione negoziale e del rapporto conseguente, obiettivamente dai confini nebulosi, quale il contratto di collaborazione coordinata e continuativa a carattere personale, che solo con il d.leg.vo 276/2003, artt.61 e segg. , ha trovato, con la determinante previsione dell’obbligo del “progetto”, più precisa sistemazione, cosicché è interesse anche del lavoratore vedere tale rapporto inquadrato nella più “stabilizzante” figura del lavoro subordinato.
Dovrebbero fuoriuscire da tale fattispecie le situazioni che non erano affatto inquadrabili nell’ambito del rapporto di lavoro coordinato e continuativo bensì erano già, de plano, rapporti di lavoro subordinato ( per esse sarebbe attivabile la procedura di emersione, ex commi 1193 e segg. e non quella di stabilizzazione).
Accordi di tale contenuto sarebbero nulli per illiceità dell’oggetto, per contrasto a norme imperative ( lo stesso 1202). 
Quindi non è legittimo l’accordo che promuove una “formale” trasformazione di rapporti, che in effetti sia solo un recepimento formale di un rapporto di lavoro già in atto e non la stipula ex novo di in contratto di lavoro subordinato.
Altresì l’accordo non deve contenere riferimenti alla conciliazione che in tale procedura, anche sulla scorta del dato testuale normativo, ha autonoma natura.
 
Nella misura in cui l’accordo abbia ad oggetto la previsione di trasformazioni, quindi di novazione di oggetto e titolo dell’obbligazione, non sembrano illegittimi accordi separati.
 
Circa lo “scaglionamento”della stabilizzazione nel tempo, va osservato che riferita tale procedura alle sole situazioni di incertezza di inquadramento, non sembrano ex se illegittime queste previsioni di differimento purchè contenute in strettissimi limiti di durata.
 
Dott. Giuseppe Lodato

Lodato Giuseppe

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