I delitti contro la pubblica amministrazione

Scarica PDF Stampa

 

Sommario 1. I delitti contro la Pubblica Amministrazione. Il soggetto attivo. 2. I delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione. 2.1. Premessa, le pene accessorie e le circostanze attenuanti. 2.2. Il peculato. 2.3. La malversazione a danno dello stato e l’indebita percezione di erogazioni a danno dello stato. 2.4. La concussione. 2.5. La corruzione. 2.6. Lo speciale delitto dell’art. 322-bis c.p.. 2.7. Le figure delittuose degli artt. 325-335 c.p.. 3. La confisca nei delitti contro la Pubblica Amministrazione. 4. I delitti dei privati contro la Pubblica Amministrazione. 4.1. I singoli delitti. 4.2. L’art. 4 del d.lgs. n. 288/1944 e la reazione legittima agli atti arbitrari del Pubblico Ufficiale (Sent. Cass. Pen., Sez. VI, n. 2263/2006). 4.3. I delitti disciplinati agli artt. 346-356 c.p.. 4.4. (sub 4.1.) L’esercizio abusivo della professione. 4.5. (sub 4.1.) De iure condendo, in tema d’esercizio abusivo professionale. La proposta riformistica del Dott. Giulio Perrotta.

1. I delitti contro la Pubblica Amministrazione. Il soggetto attivo.

1.1. Il concetto di Pubblica Amministrazione

Il diritto amministrativo si occupa di regolare l’organizzazione, i mezzi e le forme delle attività della Pubblica Amministrazione nonché i rapporti tra Pubblica Amministrazione e gli altri soggetti dell’ordinamento, sia nel caso in cui la Pubblica Amministrazione agisca come “autorita” (spendendo il potere autoritativo) e sia quando la Pubblica Amministrazione agisce come un qualsiasi “soggetto privato” (utilizzando i mezzi e gli strumenti del diritto privato, come prescrive l’art. 1-bis, legge n. 241/1990, introdotto dalla legge n. 15/2005).

La nozione di Pubblica Amministrazione puo essere intesa in: a) SENSO OGGETTIVO; b) SENSO SOGGETTIVO.

In riferimento al punto a), si può affermare che la Pubblica Amministrazione svolge l’attività diretta alla cura concreta degli interessi pubblici, posta in essere in base alla legge e nel rispetto dei fini dalla stessa (legge) predeterminati.

Merita, però particolare specifica, la differenza tra “attivita politica” e “attivita amministrativa”, dove la prima risulta tendenzialmente insindacabile in sede giurisdizionale (es. art. 31, TU Consiglio di Stato, affermante: è esclusa l’impugnazione in sede giurisdizionale degli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico) rispetto alla seconda, ampiamente discrezionale, ma sempre suscettibile d’essere contestata in sede giurisdizionale.

In riferimento al punto b), la Pubblica Amministrazione è l’insieme delle strutture costituite per lo svolgimento di funzioni amministrative.

E’ noto, da quanto sin d’ora affermato, che manca una definizione legislativa di carattere generale, mentre il legislatore si preoccupa di definire la Pubblica Amministrazione solo in riferimento ad un certo ambito (es. art. 1.2, TU n. 165/2001 in materia di lavoro pubblico).

La Dottrina e la Giurisprudenza, provando a definire ampiamente il concetto di Pubblica Amministrazione, hanno elaborato degli INDICI DI RICONOSCIMENTO DELLA NATURA PUBBLICA DI UN ENTE, per cui, la natura pubblica viene desunta dalla: a) esistenza di un sistema di controlli pubblici; b) partecipazione dello Stato o altro Ente pubblico alle spese di gestione; c) costituzione su iniziativa pubblica; d) esistenza di un potere di direzione in capo ad un ente pubblico; e) ingerenza di un ente pubblico nella nomina degli organi di vertice.

La nozione comunitaria di PA, invece è (anch’essa) multiforme, in base al settore specifico; per es., in riferimento all’art. 45, par. 4, TFUE, per cui la libera circolazione dei lavoratori non si applica con riguardo agli impieghi nella Pubblica Amministrazione, la Sent. Corte Giustizia, 17/12/1980, C-149/79, ha accolto una nozione ristretta di Pubblica Amministrazione, ritenendo che rientrassero nella suddetta deroga solo i posti che implicano la partecipazione diretta o indiretta all’esercizio dei pubblici poteri e alle mansioni che hanno ad oggetto, la tutela degli interessi generali dello Stato e delle altre collettività pubbliche. Restando sempre in ambito comunitario, la nozione di Pubblica Amministrazione in riferimento alla materia degli appalti e piu ampia, assoggettando anche gli “organismi di diritto pubblico”, cioe qualsiasi soggetto che (sebbene formalmente privato): a) soddisfi specificamente bisogni d’interesse generale non avente carattere industriale e commerciale; b) abbia personalità giuridica; c) sia sottoposto all’influenza dominante dello Stato [nonostante cio, anche a loro spetta l’obbligo, quando scelgono il contraente, di fare una gara sottoposta alle regole dell’evidenza pubblica di matrice comunitaria].

1.2. Il soggetto attivo nei delitti contro la Pubblica Amministrazione

Nel Codice Penale, agli artt. 357, 358, 359 e 360, sono sancite le nozioni di Pubblico Ufficiale, d’Incaricato di Pubblico Servizio e di Persone esercenti un Servizio di Pubblica Necessità. Per l’art. 357 c.p., agli effetti della legge penale, sono “PUBBLICI UFFICIALI” coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.

Per la precisione (secondo la legge n. 86/1990 e la legge n. 181/1992) sono Pubblici Ufficiali: a) gli impiegati dello Stato o di un ente pubblico che esercitano un funzione legislativa, giudiziaria o ammministrativa, permanentemente o temporaneamente; b) ogni altra persona che esercita, permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per obbligo, una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o ammministrativa. Svolgono FUNZIONI LEGISLATIVE: Presidente della Repubblica, Ministri, Parlamentari, Componenti dei Consigli regionali-provinciali-comunali, Giudici e PM. Svolgono FUNZIONI AMMINISTRATIVE, i pubblici dipendenti o semplici privati che manifestano la volontà della PA o esercitano poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente o cumulativamente, investiti formalmente o indipendentemente da formali investiture (cd. funzionario di fatto) purchè eserciti una funzione pubblica (Sent. Cass. 9/12/2008), Sono P. U. anche il corpo docente di scuole statali, paritarie ed universitarie. Svolgono FUNZIONI GIUDIZIARIE, coloro che esercitano la Magistratura e i Notai. La Cassazione ha affermato che per individuare se l’attività svolta da una persona possa essere qualificata come pubblica, è necessario verificare se è disciplinata da norme di diritto pubblico (Sent. Cass. SSUU, 13/07/1998). Inoltre, ha distinto la “pubblica funzione” dal “pubblico servizio”, a secondo se c’è o non c’è la presenza dei tipici poteri della potestà amministrativa, non rilevando la forma giuridica e la costituzione dell’ente, lo svolgimento della sua attività, né il rapporto di lavoro con l’organismo datore di lavoro. Ancora sono “pubblici ufficiali”, coloro che: 1) formano o concorrono a formare la volontà la volontà della PA; 2) svolgono l’attività in concreto di una funzione pubblica per mezzo di poteri autoritativi, deliberativi e certificativi.

Per cui è PUBBLICO UFFICIALE, colui che forma o concorre a formare la deliberazione, cioè la manifestazione della volontà della Pubblica Amministrazione suscettibile di produrre unilateralmente effetti giuridici accertativi, dichiarativi o autoritativi. Sono casi concreti di Pubblici Ufficiali: 1) il TESTIMONE, sin dal momento della sua citazione, da quando il giudice ha valutato la richiesta di parte ed ammesso la prova (Sent. Cass. 23/01/2006); 2) il DIFENSORE, quando è chiamato a redigere un atto pubblico allorquando procede alla formazione del verbale nel quale trasfonde le informazioni ricevute ai sensi degli artt. 391-bis e 391-ter c.p.p. (negli altri casi è un soggetto privato esercente un servizio di pubblica necessità) (Sent. Cass. SSUU, 32009/2006); 3) CURATORE FALLIMENTARE; 4) COADIUTORE DEL CURATORE (Sent. Cass. 21/01/2009); 5) COMMISSARIO GIUDIZIARIO PER L’ESECUZIONE CIVILE; 6) TUTORE DELL’INTERDETTO; 7) CONSULENTE TECNICO DEL GIUDICO E DEL PM; 8) AGENTI DI POLIZIA, CARABINIERI, VIGILE URBANO, CORPO DI PUBBLICA SICUREZZA IN SERVIZIO PERMANENTE; 9) ATTIVITA’ SANITARIA, PUBBLICO E PRIVATO; 10) DIPENDENTI DEGLI ISTITUTI DI CREDITO; 11) AZIENDE MUNICIPALIZZATE IN ENTI LOCALI; 12) ENTI PUBBLICI ECONOMICI E SOCIETA’ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA (PRIVATIZZATE), quali ferrovie dello stato e servizi postali, a secondo delle attribuzioni specifiche.

Sono INCARICATI DI PUBBLICO SERVIZIO, coloro che non svolgono publiche funzioni, ma hanno poteri assegnati dalla legge in via residuale, svolgenti però mansioni non solo d’ordine od opera semplicemente materiale (cfr. art. 358 c.p.).

La privatizzazione del pubblico impiego non ha eliminato, però, la rilevanza pubblica, determinate dalleoggettive finalità di determinate attività (es. sanitaria). Agli stessi effetti, la “funzione amministrativa” è pubblica se disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata da: a) formazione; b) manifestazione della volontà della PA; c) suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.

Per l’art. 358 c.p., agli effetti della legge penale, sono INCARICATI DI UN PUBBLICO SERVIZIO (IPS) coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio (anche di fatto, lecito e mai abusivo). Sono casi concreti di I.P.S.: 1) DIPENDENTI DI SOCIETA’ CONCESSIONARIE O D’ATTIVITA’ SOGGETTE AD AUTORIZZAZIONE (ausiliari del traffico, società telefoniche, servizio postale, Ferrovie dello Stato, RAI), a secondo delle specifiche mansioni; 2) FARMACISTA (se è titolare). Per “PUBBLICO SERVIZIO” deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata, dalla mancanza dei poteri tipici di quest’ultima, e con esclusione dello svolgimento di: a) semplici mansioni d’ordine; b) prestazione d’opera meramente materiale.

Per l’art. 359 c.p., agli effetti della legge penale, sono PERSONE CHE ESERCITANO UN SERVIZIO DI PUBBLICA NECESSITÀ (SPN): 1) i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando dell’opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi; 2) i privati che, non esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della PA; 3) agenzie di pratiche automobilistiche.

Il quartetto normativo si chiude con l’art. 360 c.p., che sancisce: quando la legge considera la qualità di Pubblico Ufficiale o di Incaricato di un Pubblico Servizio, o di esercente un servizio di pubblica necessità, come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, la cessazione di tale qualità nel momento in cui il reato è commesso, non esclude l’esistenza di questo né la circostanza aggravante se il fatto si riferisce all’ufficio o al servizio esercitato.

2. I delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione

2.1. Premessa, le pene accessorie e le circostanze attenuanti

Il Libro II, Titolo II, Capo I del c.p. sancisce le norme in tema di delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione.

Le norme di riferimento sono gli artt. 314-335-bis c.p.; in particolare, tra queste, vi sono quelle che disciplinano le pene accessorie (art. 317-bis c.p.) e le circostanze aggravanti (art. 319-bis c.p.), valide per per tutte le norme delittuose in esame ai punti successivi di questa trattazione. La prima norma sancisce che la condanna per il reato di cui agli artt. 314 e 317 c.p. importa l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e nondimeno, se per circostanze attenuanti viene inflitta la reclusione per un tempo inferiore a tre anni, la condanna importa l’interdizione temporanea. La seconda sancisce, invece, che la pena è aumentata se il fatto di cui all’art. 319 c.p. ha per oggetto il conferimento di pubblici impieghi o stipendi o pensioni o la stipulazione di contratti nei quali sia interessata l’amministrazione alla quale il Pubblico Ufficiale appartiene. Inoltre, l’art. 323-bis c.p. sancisce che se i fatti previsti dagli artt. 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 320, 322, 322-bis e 323 c.p. sono di particolare tenuità, le pene sono diminuite e, per l’art. 335-bis c.p., salvo quanto previsto dall’art. 322-ter c.p., nel caso di condanna per delitti previsti dal presente capo è comunque ordinata la confisca anche nelle ipotesi previste dall’art. 240, comma primo c.p.. In tema di “errore sulla qualità di Pubblico Ufficiale o Incaricato di Pubblico Servizio”, l’errore che deriva da ignoranza o falsa interpretazione della legge, non vale a scusare l’agente, risolvendosi in errore sulla legge penale.

Infine, per aversi concorso di persone, è necessario che: a) i partecipanti siano consapevoli della situazione di fatto in cui operano; b) tutti vogliano conseguire e contribuiscano (ciascuno per la propria parte) alla realizzazione del medesimo fatto antigiuridico.

2.2. Il peculato

Sancito dall’art. 314 c.p., la norma che disciplina il delitto di Peculato afferma che il Pubblico Ufficiale o l’Incaricato di Pubblico Servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio (in conseguenza della funzione giuridica espletata), si appropria ovvero s’impossessa di danaro o altra cosa mobile altrui, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.

Il bene tutelato è la legalità, l’efficienza, l’imparzialità e il patrimonio della PA e tra le cose mobili, rientra anche l’energia, avente carattere economico, purchè non quella “umana” che per sua natura [contra Sent. Cass. 7/11/2000] configura il delitto d’abuso d’ufficio se l’uso è personale e il dipendente è dell’ente d’appartenenza; se il bene è immobile si configura lart. 633 c.p..

In riferimento poi alla detenzione, la Giurisprudenza ha affermato che se è occasionale, anche se collegata a ragioni d’ufficio, non configura il delitto de quo ma il delitto di appropriazione indebita. Proprio in relazione ad altri delitti, distinguiamo: a) nel peculato, il possesso è antecedente della condotta e i raggiri e gli artifici o la falsa documentazione hanno la funzione di occultare, non incidendo nella struttura del reato, mentre nella truffa, la condotta fraudolenta è predisposta al fine di consentire all’agente di entrare in possesso della provvista, in vista della successiva condotta appropriativa; nel peculato, l’agente ha la disponibilità della cosa per ragioni del suo ufficio, mentre nel furto, l’impossessamento della cosa altrui avviene invito domino, cioè sottratta a chi la deteneva; c) nel peculato, occorre il possesso del bene altrui aggravata ex art. 61, n. 9 c.p. d’ufficio o di servizio (Sent. Cass. 7/03/2007), mentre nell’appropriazione indebita aggravata ex art. 61, n. 9 c.p. (per abuso dei poteri o per violazione dei doveri relativi ad una pubblica funzione o servizio), il possesso è agevolato dall’abuso del potere o dalla violazione dei doveri; d) la VIOLAZIONE DELLA PUBBLICA CUSTODIA DI COSE sussiste sempre, rispetto al peculato, se c’è contestualità cronologica tra appropriazione temporanea e sottrazione/ deterioramento/ distruzione di atti o documenti della Pubblica Amministrazione, nella disponibilità del PU per ragioni d’ufficio (purchè l’azione sia volta a violare la custodia); e) nel peculato, i beni mobili sono entrati a far parte del patrimonio del reo, mentre nel caso dell’art. 230, legge fallimentare, l’elemento costitutivo del reato è il ritardo nel versare a seguito dell’ordine del giudice, ma non entrano a far parte del patrimonio del reo; f) l’indebito uso senza conseguente lesione patrimoniale a danno dell’avente diritto comporta la configurabilità del delitto di abuso d’ufficio, mentre in caso contrario, si configura il delitto di peculato (praticamente, è peculato se l’appropriazione aggravata di cose smarrite è commessa da un PU, è abuso d’ufficio se l’appropriazione è commessa da un PU, ma il valore è esiguo). In particolare, facendo riferimento al punto f), la DISTRAZIONE (cioè il dirottamento del denaro o del bene altrui), essendo stata eliminata dalla legge n. 86/1990, oggi rientra nel delitto di abuso d’ufficio. Rientra nel delitto ex art. 314 c.p. la “distrazione appropriativa“, cioè l’utilizzo di denaro pubblico accreditato su un capitolo di bilancio intestato “spese riservate” quando non si da adeguata e puntuale giustificazione del suo impiego, riconducibili non ad attribuzioni proprie del suo ruolo istituzionale.

L’ultimo comma dell’articolo in esame, sancisce il PECULATO D’USO: quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo (non istantaneo) della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Infine, sancito dall’art. 316 c.p., si ha PECULATO MEDIANTE PROFITTO DELL’ERRORE ALTRUI, quando il Pubblico Ufficiale o Incaricato di Pubblico Servizio, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, si giova dell’errore altrui (spontaneo e non ingenerato, pena configurabilità del delitto di peculato), così ricevendo o ritenendo indebitamente, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità. La sanzione prevista è la reclusione da sei mesi a tre anni.

2.3. La malversazione a danno dello stato e l’indebita percezione di erogazioni a danno dello stato

L’art. 316-bis c.p. disciplina il delitto della MALVERSAZIONE A DANNO DELLO STATO. Chiunque, estraneo alla PA (inteso diverso da colui o coloro che hanno predisposto l’erogazione o devono controllare il finanziamento), avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità europee, contributi e sovvenzioni (cioè attribuzioni di denaro a fondo perduto di carattere gestorio) o finanziamenti (cioè un atto negoziale oneroso), destinati a favorire iniziative dirette a realizzare opere o attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità (configurando, pertanto, una mancata destinazione dei fondi allo scopo per il quale sono stati ottenuti), è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni. E’ un reato proprio, perchè pur essendo chiunque, inteso come privato, beneficia di un finanziamento, e tale elemento rende la condotta propria rispetto a un soggetto diverso dal suddetto. Inoltre, tale norma concorre formalmente, da un punto di vista sanzionatorio, con l’art. 640-bis c.p..

L’art. 316-ter c.p. disciplina, invece, il delitto di INDEBITA PERCEZIONE DI EROGAZIONI A DANNO DELLO STATO. Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640-bis c.p.,

chiunque, mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni e documenti falsi, attestanti cose non vere o l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente (perchè non ne ha i titoli per ottenerli), per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo (comunque denominate), concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Il secondo comma del presente articolo afferma poi che se la somma indebitamente percepita è inferiore o uguale a 3.999,96 €, la reclusione verrà sostituita con la sanzione amministrativa da 5.164,00 € a 25.822,00 €, purchè tale misura non superi il triplo del beneficio conseguito.

 

2.4. La concussione

L’art. 317 c.p. disciplina la CONCUSSIONE.

Il Pubblico Ufficiale o l’Incaricato di Pubblico Servizio (o anche il privato cittadino che, reca vantaggio a questi ultimi sulla base di prospettive di favoritismi, aderendo alla richiesta implicita del PU), che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri (indebitamente, cioè mediante abuso funzionale, con oggettiva efficacia intimidatoria, pretendendo qualcosa di per sé lecita o illecita),

costringe, tramite una condotta violenta e minacciosa finalizzata ad alterare il processo formativo della altrui volontà o anche con una condotta che induce il soggetto passivo a credere altamente possibile o probabile un atto intimidatorio e lesivo ai propri interessi (es. se non vuoi un male ingiusto, parlo con C, ma mi devi dare una certa somma di danaro) o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, tramite soggezione o persuasione dalla spendita della qualità, incute timore o tramite menzogna), a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità, intesa come vantaggio personale, materiale, morale, patrimoniale, non patrimoniale, comunque sempre oggettivamente apprezzabile, rilevante dalla consuentudine o dal convincimento comune e consistente in un dare o facere (es. vantaggio politico), è punito con la reclusione da quattro a dodici anni.

Circa, poi, i rapporti con altri reati: a) nella concussione, la richiesta di denaro o altre utilità è accompagnata da uno o più atti d’abuso della qualità o del potere del PU, mentre nella corruzione, c’è l’indebita richiesta rivolta dal PU al privato (se non accolta configura l’istigazione alla corruzione ex art. 322.3 e 322.4 c.p., se accolta configura la corruzione consumata ex artt. 318 e 319 c.p., come da Sent. Cass. 9/01/2009); b) nella concussione (per induzione), il privato mantiene la consapevolezza di dare o promettere qualcosa di non dovuto; nella truffa, c’è l’induzione in errore circa la doverosità oggettiva delle somme o delle utilità date o promesse.

C’è poi la delicata questione del delitto di CONCUSSIONE AMBIENTALE. Il legislatore ha tentato, da diverso tempo, di prendere posizione, non essendo disciplinata nel c.p., consistente secondo la definizione data nel d.d.l. Martinazzoli 22 aprile 1985 n° 2844, nel fatto del “pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio, che, nell’esercizio delle sue funzioni o del servizio, giovandosi dell’altrui stato di soggezione, da lui non volontariamente causato, riceve per sé o per un terzo danaro o altra utilità non dovuti o ne accetta la promessa”. Questa formulazione generò, però, diversi dissensi in dottrina poiché avrebbe richiesto di accertare, caso per caso, se lo stato di soggezione della vittima fosse da ricondurre ad una determinazione volontaria da parte del pubblico funzionario. Il d.d.l. Vassalli 7 marzo 1988 n° 2241 unificò la figura criminosa della concussione ambientale con quella del peculato mediante profitto dell’errore altrui, dando luogo al reato di sfruttamento dell’altrui errore o soggezione. Il testo venne però modificato dalla Commissione Giustizia della Camera, che eliminò la previsione relativa alla concussione ambientale per la superfluità della definizione datane, ritenuta già sanzionabile ex art. 317 c.p.. Successivamente, una definizione della concussione ambientale fu prevista dal cd. “Progetto di modifica del codice penale del 1992” per reprimere il fatto del pubblico agente che riceve o ritiene indebitamente per sé o per un terzo danaro o altra utilità patrimoniale, sfruttando l’altrui convinzione, determinata da situazioni ambientali reali o supposte, di non poter altrimenti contare su un trattamento imparziale. Nonostante i diversi tentativi legislativi, ad oggi non è ancora stata introdotta una norma che sanzioni esplicitamente il delitto di concussione ambientale. Il fenomeno dell’intimidazione d’ambiente, diffusosi in interi settori della PA, è caratterizzato da una consuetudine di malcostume che comporta un particolare atteggiarsi dell’abuso tipico della concussione. Al soggetto attivo è quindi sufficiente creare le premesse per l’intimidazione, senza imporre la sua volontà in maniera diretta. L’abuso è insito nell’ambiente. La giurisprudenza ha riconosciuto una rilevanza a questa specifica forma di concussione, legittimandola sulla base di un’interpretazione estensiva del concetto di induzione dell’art. 317 c.p..

Qui di seguito, riporto un esempio di traccia d’esame del concorso per la Magistratura Ordinaria, sul tema della Concussione Ambientale. Ipotizziamo che: a) A è funzionario dell’Agenzia delle entrate da 12 anni; b) B, noto costruttore, viene a sapere da alcuni informatori che la sua azienda sta per subire accertamenti ed ispezioni; c) B telefona al suo faccendiere C, chiedendogli di risolvere il problema e C, a seguito di vari “contatti”, viene a sapere che, per evitare accertamenti fiscali, è necessario fare un bonifico intestato ad A, pari a 35.000,00 €; d) C fornisce i dati del bonifico a Tizio e B effettua il bonifico bancario; e) dopo 4 mesi, ad A arriva un’informazione di garanzia e nell’avviso viene spiegato che A avrebbe compiuto il reato di concussione ambientale; f) A si reca dal suo avvocato di fiducia, spiegando di aver già ritirato e speso i soldi, pari a 35.000,00 €. Il candidato rediga motivato parere, assumendo le vesti dell’avvocato di A. Svolgimento. Viene richiesto un parere sulla posizione giuridica di A, funzionario dell’Agenzia delle entrate, in

merito ad un bonifico bancario effettuato a suo favore da parte di B. Quest’ultimo, noto costruttore, viene a sapere che l’azienda di sua proprietà sarà oggetto di accertamenti ed ispezione e, per evitare questi controlli, dà incarico a C, suo aiutante di fiducia, di trovare il modo per risolvere il problema.

C, informatosi attraverso il tramite di “vari contatti”, dice a B che, per evitare le ispezioni, basta fare un bonifico bancario di 35.000,00 € intestato ad A. Dopo poco B effettua il suddetto bonifico; 4 mesi più tardi A riceve un’informazione di garanzia per il reato di concussione ambientale e si reca da un legale, precisando di aver già speso il denaro del bonifico. Dopo aver analizzato brevemente la differenza tra concussione e corruzione, con particolare attenzione alla concussione ambientale, dovremo vedere se, nel caso in esame, sussistono gli elementi costitutivi dell’uno o dell’altro reato e, di conseguenza, se A è punibile per il reato così individuato. Elemento comune è l’ottenimento da parte di un PU o l’accettazione della promessa di ottenere denaro o altra utilità, provenienti da un privato (Sent. Cass. SSUU. n. 6402/1997). Le differenze che a noi interessano stanno nel fatto che: a) la concussione sussiste ogni qualvolta il PU prospetti al privato un danno ingiusto, evitabile soltanto con l’indebita dazione o promessa di utilità da parte di questo, a nulla rilevando l’eventuale vantaggio tratto anche dal privato, inoltre la par condicio contractualis è inesistente perché il dominus dell’illecito affare è il PU, con la sua autorità e con i suoi poteri, dei quali abusa, costringendo o inducendo, minacciosamente o fraudolentemente, il soggetto passivo a sottostare all’ingiusta richiesta in una situazione che non offre alternativa diversa dalla resa (Sent. Cass. n. 12729/1994) [quindi, il PU strumentalizza la propria autorità e il proprio potere per coartare la volontà del soggetto, sicché lo stato d’animo del privato è di soggezione rispetto alla volontà percepita come dominante]; b) nella corruzione, invece, il cd. lucrum captandum, cioè il vantaggio che il soggetto privato vuole ottenere dal PU, non deve essere solo l’effetto naturale della mancata realizzazione del danno ingiusto, ma deve costituire la finalità esclusiva o prevalente del favore offerto dal soggetto pubblico o a lui richiesto, ponendosi l’accordo in termini di sinallagmaticità (Sent. Cass. n. 10851/1996), inoltre, i soggetti trattano pariteticamente e si accordano sul pactum sceleris con convergenti manifestazioni di volontà. Alla luce del caso di cui si discute, cioè di concussione ambientale di cui A è accusato, l’induzione (contemplata nell’art. 317 c.p.) è il nodo gordiano. La concussione ambientale, infatti, si ha in presenza di una convenzione tacitamente riconosciuta da entrambe le parti (PU e privato) che il primo fa valere e il secondo subisce, nel contesto di una comunicazione resa più semplice nella sostanza e più sfumata nelle forme per il fatto di richiamarsi a condotte già codificate (Sent. Cass. n. 5116/1998). Questo reato, dopo alcune proposte di legge senza seguito, è stato elaborato e disciplinato dalla giurisprudenza, la quale, come detto, punisce la concussione ambientale come concussione per induzione, individuando come requisito minimo per la sua sussistenza una condotta induttiva del pubblico ufficiale, dalla quale non è possibile prescindere, pena la violazione del principio di legalità (Sent. Cass. n. 13395/1998). La giurisprudenza è concorde nel richiedere ai fini della sussistenza del delitto di concussione ambientale, dev’essere avvenuta una qualche comunicazione: “occorre, perché sia integrata tale particolare figura di concussione, che una siffatta comunicazione esista, dal momento che, diversamente, il privato non potrebbe percepire l’esistenza del riferimento a prassi illecite diffusamente seguite e non resterebbe di conseguenza condizionato dalle sue scelte (Sent. Cass. n. 13395/1998). Si ha, quindi, corruzione e non concussione, tutte le volte in cui lo stato di soggezione del privato non può essere fatto risalire in alcun modo ad una condotta, quanto meno induttiva, del PU. Dagli elementi in nostro possesso, emerge chiaramente la mancanza di una qualsivoglia induzione da parte di A nei confronti di B. Nella condotta di A, infatti, non è ravvisabile alcuna forma di induzione nei confronti di B, non sussistono suggestioni tacite, ammissioni o silenzi. Manca, quindi, una qualsivoglia comunicazione tra il PU e il privato, manca un qualsiasi contatto tra i due. A e B, infatti, non si conoscono e, a quanto ci è dato sapere. In B, inoltre, manca quello stato di soggezione in cui versa il privato vittima del reato di concussione. E’ importante notare anche che B effettua il pagamento tramite bonifico bancario, non personalmente; egli, dunque, non viene mai a contatto con A. Nel nostro caso non può dirsi sussistente in capo a A, ma semmai quello di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, ex art. 319 c.p., poiché A avrebbe dovuto omettere i dovuti controlli. Infatti, B paga A al fine di omettere le previste ispezioni e, quindi, per omettere un atto del suo ufficio. L’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 319 c.p. è costituito, da un lato, dalla dazione di denaro o di altre utilità o anche solo dall’accettazione della promessa di tale dazione da parte del PU e, dall’altro, dalla preordinazione di questa dazione o promessa all’impegno del PU di effettuare, a favore del privato, una controprestazione illecita e contraria ai suoi doveri, ben individuata e suscettibile di attuazione (Sent. Cass. n. 10125/1997). Nel caso di A, però, manca l’impegno ad eseguire questa controprestazione. Caio non si è mai impegnato a fronte di questo pagamento ad omettere i dovuti accertamenti fiscali nell’azienda di Tizio. Non è, infatti, possibile dare attuazione ad un qualcosa che non è determinato o individuato. Caio, inoltre, non ha alcun elemento per collegare i 35.000,00 € ricevuti da Tizio ad un suo ipotetico dovere di rallentare od omettere le ispezioni previste relativamente all’azienda di Tizio. La Giurisprudenza individua il momento consumativo del reato di corruzione nella ricezione del compenso o, comunque, nell’accettazione della promessa di un compenso per compiere l’atto contrario ai doveri d’ufficio (Cass. n. 4562/85): nel caso di A manca proprio quest’ultimo passaggio, quello dell’assunzione da parte del PU dell’impegno alla controprestazione. Sappiamo che A utilizza e spende i 35.000,00 € ricevuti da B, ma egli non ha mai assunto l’obbligo o comunque non ha mai promesso di omettere i controlli dovuti. Questo è vero a maggior ragione se si considera che la giurisprudenza ha definito la corruzione come un contratto con causa illecita o turpe, ma fondato sulla libera volizione delle parti (Sent. Cass. n. 12729/1994). Perché un contratto venga ad esistenza occorre il consenso delle parti contrattuali e, nel caso in esame, questa convergenza non c’è mai stata, non c’è stato accordo tra le parti, non può, quindi, dirsi sussistente il suddetto incontro di volontà. Nel caso in esame manca anche l’elemento soggettivo, poiché se A non ha mai assunto l’obbligo di omettere un atto dovuto a favore di B, a maggior ragione non può dirsi sussistente il dolo di ricevere denaro in cambio dell’omissione di atti del suo ufficio. In conclusione: 1) A non commette il reato di concussione ambientale, poiché non pone in essere una condotta di abuso del proprio potere, della propria autorità, di coercizione o di induzione, stante anche la mancanza in B di un qualsivoglia timore o senso di soggezione tipico della vittima del delitto in questione; 2) A non commette neppure il reato di cui all’art. 319 c.p. per la mancanza degli elementi, oggettivo e soggettivo, integranti questo reato, infatti, non assume l’obbligo di una controprestazione, manca l’accordo tra le parti, oltre che la coscienza e la volontà da parte di A dell’omissione di un atto dovuto del suo ufficio. A non è (quindi) imputabile né per concussione ambientale né per corruzione.

2.5. La corruzione

L’art. 318 c.p. disciplina il delitto di CORRUZIONE (passiva) PER UN ATTO D’UFFICIO.

Il Pubblico Ufficiale, che per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro od altra utilità (cd. prezzo del reato), una retribuzione (ma la datio dev’essere correlata all’atto) che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Se il Pubblico Ufficiale riceve la retribuzione per un atto d’ufficio da lui già compiuto, la pena è della reclusione inferiore o uguale ad un anno. Il delitto di CORRUZIONE (in generale) ha due forme principali: a) ATTIVA, consistente nella condotta di induzione alla corruzione (art. 321 c.p.); b) PASSIVA, consistente nel fatto di farsi corrompere (artt. 318, 319 e 319-ter c.p.). Per la Sent. Cass. 4/05/2006, è un delitto plurisoggettivo, a concorso necessario e bilaterale (costituendo così un reato unico), nel quale l’elemento materiale è costituito dalle condotte convergenti del corruttore e del corrotto: solo se entrambe sussistono, il reato si configura. La Tesi (contraria e minoritaria) di Pagliaro afferma che l’unitarietà degli effetti è solo apparente e nel caso di concorso di un terzo si dovrà stabilire con chi partecipa, con la possibilità che il corruttore risponda di corruzione propria e il corrotto di corruzione per atto d’ufficio. Il delitto di CORRUZIONE (strutturalmente) si distingue in: a) PROPRIA, dove l’accordo ha per oggetto un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.); b) IMPROPRIA, dove l’accordo ha per oggetto un atto d’ufficio (art. 318 c.p.); c) ANTECEDENTE, dove l’acquisto riguarda un atto che il Pubblico Ufficiale compierà in futuro (e pertanto prevede un accordo raggiunto); d) SUSSEGUENTE, dove l’acquisto riguarda un atto già compiuto e quindi rispetto alla forma “antecedente”, prescinde da un precedente accordo. Il tentativo non è configurabile, salvo il caso della corruzione bilaterale, agente da tutti e due i soggetti coinvolti ma che non volge ad un accordo conclusivo.

L’art. 319 c.p. disciplina la CORRUZIONE (attiva) PER UN ATTO CONTRARIO AI DOVERI D’UFFICIO. Il Pubblico Ufficiale che, omette o ritarda un atto del suo ufficio (rientrante per competenza) o compie un atto contrario ai doveri di ufficio (cioè lesivo e contrario alle norme giuridiche e ai doveri di fedeltà, imparzialità, onestà e correttezza, e quindi illegittimi, illegali e cmq anche se legali contri ai doveri sopracitati ed esercitati da chiunque sia nell’esercizio della sua funzione pubblica), e per questo riceve o accetta la promessa, per sé o per un terzo, di denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da due a cinque anni, salvo che (per l’art. 319-bis c.p.) la pena venga aumentata perchè il fatto di cui all’art. 319 c.p., ha per oggetto il conferimento di pubblici impieghi, stipendi, pensioni o stipulazione di contratti nei quali sia interessata la PA alla quale il PU appartiene. E’ atto d’ufficio, ogni esercizio di poteri o funzioni inerenti all’ufficio senza che sia necessario un apposito atto amministrativo e sono inclusi gli “atti discrezionali”, quando pur rispettando formalmente il potere attribuitogli, compiono un fatto per uno scopo diverso da quello in vista del quale il potere discrezionale gli era stato affidato. Non è necessario, invece, individuare l’atto contrario ai doveri d’ufficio ma bensì l’atteggiamento necessario, diretto e concreto a vanificare la funzione demandatagli (Sent. Cass. 15/05/2008). Non è ammesso il tentativo, salvo il caso della corruzione bilaterale, agente da tutti e due i soggetti coinvolti ma che non volge ad un accordo conclusivo.

L’art. 319-ter c.p. disciplina la CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI. Se i fatti indicati negli artt. 318-319 c.p. sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la reclusione da tre a otto anni. Se dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione inferiore o uguale a 5 anni, la pena è la reclusione da quattro a dodici anni; se deriva l’ingiusta reclusione uguale o maggiore a 5 anni o all’ergastolo, la pena è la reclusione da sei a vent’anni.

L’art. 320 c.p. disciplina la CORRUZIONE DI PERSONA INCARICATA DI UN PUBBLICO SERVIZIO, per cui gli artt. 318 e 319 c.p. si applicano anche all’Incaricato di Pubblico Servizio ma le pene sono ridotte in misura uguale o minore di 1/3.; in particolare, l’art. 318 c.p. si applica anche all’Icaricato di Pubblico Servizio, qualora rivesta la qualità di pubblico impiegato.

L’art. 321 c.p. disciplina, in tema di sanzioni per il corruttore, che le pene stabilite negli artt. 318.1, 319, 319bis, 319ter e 320 c.p., in relazione alle ipotesi degli artt. 318 e 319 c.p., si applicano anche a chi dà o promette al Pubblico Ufficiale o all’Incaricato di Pubblico Servizio, il denaro od altra utilità.

Infine, l’art. 322 c.p. disciplina l’ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE. Chiunque offre o promette denaro od altra utilità non dovuti ad un Pubblico Ufficiale o ad un Incaricato di Pubblico Servizio che riveste la qualità di pubblico impiegato, per indurlo a compiere un atto del suo ufficio,

soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell’art. 318, comma 1 c.p., ridotta di 1/3. Se l’offerta o la promessa è fatta per indurre un Pubblico Ufficiale o ad un Incaricato di Pubblico Servizio ad omettere o a ritardare un atto del suo ufficio o a fare un atto contrario ai suoi doveri, il colpevole soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nell’art. 319 c.p., ridotta di 1/3. La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che riveste la qualità di pubblico impiegato che sollecita una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall’art. 318 c.p.. La pena di cui all’art. 322, comma 2 c.p. si applica al Pubblico Ufficiale o all’Incaricato di Pubblico Servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro od altra utilità da parte di un privato per le finalità indicate dall’art. 319 c.p..

2.6. Lo speciale delitto dell’art. 322-bis c.p.

L’art. 322-bis c.p. disciplina il PECULATO, la CONCUSSIONE, la CORRUZIONE e l’ ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE DI MEMBRI DEGLI ORGANI DELLE COMUNITÀ EUROPEE E DI FUNZIONARI DELLE COMUNITÀ EUROPEE E DI STATI ESTERI. Gli artt. 314, 316, 317, 318, 319, 320, 322.3 e 322.4 c.p. si applicano anche ai: 1) membri degli organi della CE; 2) funzionari e agenti assunti per contratto a norma dello statuto dei funzionari della CE; 3) persone che esercitano funzioni corrispondenti a quelle dei funzionari o agenti CE; 4) membri ed addetti ad enti costituiti sulla base dei Trattati che istituiscono la CE; 5) coloro che, nell’ambito di altri Stati membri dell’Unione europea, svolgono funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio. Gli artt. 321, 322.1 e 322.2 c.p. si applicano anche se il denaro o altra utilità è dato, offerto o promesso a: 1) persone indicate nell’art. 322-bis, comma 1, c.p.; 2) persone che esercitano funzioni o attività corrispondenti a quelle dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio nell’ambito di altri Stati esteri o organizzazioni pubbliche internazionali, qualora il fatto sia commesso per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali. Le persone indicate nell’art. 322Bis, comma 1 c.p. sono assimilate ai pubblici ufficiali, qualora esercitino funzioni corrispondenti, e agli incaricati di un pubblico servizio negli altri casi.

 

2.7. Le figure delittuose degli artt. 323-335 c.p.

L’art. 323 c.p. disciplina l’ABUSO DI UFFICIO. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il Pubblico Ufficiale o l’Incaricato di Pubblico Servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento (salvo l’addebito per “eccesso di potere” e le norme sul procedimento, ad eccezione di quelle sull’adeguata istruttoria), omette di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente (escludendo pertanto anche l’ipotesi di dolo eventuale), procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La pena è, però, aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.

L’art. 325 c.p. disciplina l’UTILIZZAZIONE D’INVENZIONI O SCOPERTE CONOSCIUTE PER RAGIONE D’UFFICIO. Il Pubblico Ufficiale o l’Incaricato di Pubblico Servizio, che impiega (con dolo specifico), a proprio o altrui profitto, invenzioni, scoperte scientifiche, nuove applicazioni industriali, che egli conosca per ragione dell’ufficio o servizio, e che debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa uguale o maggiore a 516,00 €.

L’art. 326 c.p. disciplina la RIVELAZIONE ED UTILIZZAZIONE DI SEGRETI DI UFFICIO. Il Pubblico Ufficiale o l’Incaricato di Pubblico Servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o abusando della sua qualità, rivela notizie d’ufficio o ne agevola la conoscenza, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione pari a minore o uguale a un anno. Il Pubblico Ufficiale o l’Incaricato di Pubblico Servizio, che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione minore o uguale a 2 anni.

L’art. 328 c.p. disciplina il RIFIUTO DI ATTI D’UFFICIO. Il Pubblico Ufficiale o l’Incaricato di Pubblico Servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, dev’essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. Fuori dai casi dell’art. 328 comma 1 c.p., il Pubblico Ufficiale o l’Incaricato di Pubblico Servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione minore o uguale a 1 anno o con la multa minore o uguale a 1.032 €. Tale richiesta dev’essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.

L’art. 329 c.p. disciplina il RIFIUTO O RITARDO DI OBBEDIENZA COMMESSO DA UN MILITARE O DA UN AGENTE DELLA FORZA PUBBLICA. Il militare o l’agente della forza pubblica (non militarizzati), il quale rifiuta/ ritarda indebitamente d’eseguire una richiesta fatta dall’autorità competente nelle forme stabilite dalla legge, è punito con la reclusione minore o uguale a 2 anni.

L’art. 331 c.p. disciplina l’INTERRUZIONE DI UN SERVIZIO PUBBLICO O DI PUBBLICA NECESSITÀ. Chi, esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità, interrompe il servizio o sospende il lavoro nei suoi stabilimenti, uffici o aziende (e quando manca il requisito soggettivo della titolarità di un impresa esercente il servizio si applica il delitto meno grave dell’art. 340 c.p.), in modo da turbare la regolarità del servizio (che dev’essere un’alterazione funzionale anche se temporanea nel suo complesso e non di una singola fruizione o prestazione), è punito con la reclusione da sei mesi ad un anno e con la multa uguale o maggiore a 516,00 €. I capi, promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da tre a sette anni e con la multa uguale o maggiore a 3.098,00 €.

L’art. 334 c.p. disciplina la SOTTRAZIONE O il DANNEGGIAMENTO DI COSE SOTTOPOSTE A SEQUESTRO DISPOSTO NEL CORSO DI UN PROCEDIMENTO PENALE O DALL’AUTORITÀ AMMINISTRATIVA. Chiunque, sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora una cosa sottoposta a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa e affidata alla sua custodia, al solo scopo di favorire il proprietario di essa, è punito con la reclusione da sei a trentasei mesi e con la multa da 51,00 € a 516,00 €. Se la sottrazione, la soppressione, la distruzione, la dispersione o il deterioramento sono commessi dal proprietario della cosa affidata alla sua custodia, la pena è la reclusione da tre a ventiquattro mesi e la multa da 30,00 € a 309,00 €. Se il fatto è commesso dal proprietario della cosa medesima non affidata alla sua custodia, la pena è la reclusione da 1 a 12 mesi e la multa minore o uguale a 309,00 €.

L’art. 335 c.p. disciplina la VIOLAZIONE COLPOSA DI DOVERI INERENTI ALLA CUSTODIA DI COSE SOTTOPOSTE A SEQUESTRO DISPOSTO NEL CORSO DI UN PROCEDIMENTO PENALE O DALL’AUTORITÀ AMMINISTRATIVA. Chiunque, avendo in custodia una cosa sottoposta a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa, per colpa, ne cagiona la distruzione o la dispersione o ne agevola la sottrazione o la soppressione, è punito con la reclusione minore o uguale a 6 mesi o con la multa minore o uguale a 309,00 €.

3. La confisca nei delitti contro la Pubblica Amministrazione

Lo strumento della CONFISCA nei delitti contro la Pubblica Amministrazione è disciplinato agli artt. 322-ter e dal 335-bis c.p..

Nel caso di condanna, o applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 444 c.p.p.), per uno dei delitti previsti dagli artt. 314, 315, 316, 317, 318, 319 e 320 c.p., anche se commessi dai soggetti indicati nell’art. 322-bis, comma 1 c.p., è sempre ordinata la “confisca dei beni” che ne costituiscono il profitto (cioè l’utile o il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato, la differenza tra il valore del prodotto venduto o prezzo e il costo di produzione: P= Rt-Ct. Nella corruzione, sono tutti quei beni collegati da un rapporto di pertinenza con l’accordo corruttivo), o il prezzo (cioè il valore del prodotto venduto o il compenso dato o promesso. Nella corruzione, è il corrispettivo dato o ricevuto della controprestazione illecita), salvo che appartengano a persona estranea al reato (inteso come reo o in concorso) o quando essa non è possibile, la “confisca di beni” di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo (cd. confisca per equivalente). Nel caso di condanna, o d’applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 444 c.p.p.), per il delitto dell’art. 321 c.p., anche se commesso ai sensi dell’art. 322-bis, comma 2 c.p., è sempre ordinata la “confisca dei beni” che ne costituiscono il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato (inteso come reo o in concorso), o essa non sia possibile, la “confisca di beni”, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello di detto profitto e, comunque maggiore o uguale al denaro e alle altre utilità date o promesse al Pubblico Ufficiale, Incaricato di Pubblico Servizio e gli altri soggetti indicati nell’art. 322-bis, comma 2 c.p.. Nei casi di cui all’art. 322-ter, comma 1 c.p. e 322-ter, comma 2 c.p., il giudice, con la sentenza di condanna, determina le somme di denaro o individua i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato o in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato. Inoltre: a) salvo l’art. 322-ter c.p., nel caso di condanna per delitti previsti dal presente capo (peculato, concussione e corruzione) è comunque ordinata la confisca, anche nelle ipotesi previste dall’art. 240, comma 1 c.p.; b) l’art. 335-bis c.p. stabilisce obbligatoriamente la confisca per i reati dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, anche per le ipotesi dell’art. 240, comma 1 c.p., ossia “delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto“.

4. I delitti dei privati contro la Pubblica Amministrazione

4.1. I singoli delitti

L’art. 336 c.p. disciplina la VIOLENZA O la MINACCIA AD UN PUBBLICO UFFICIALE.

Chiunque usa violenza (intesa come costrizione dell’altrui volontà, anche se non fisica), o minaccia (intesa come prospettazione di un male ingiusto e futuro tale da colpire beni giuridici propri o dei familiari e valutato ex ante riferendosi alla potenzialità costruttiva del male ingiusto rappresentato),

ad un Pubblico Ufficiale o ad un Incaricato di Pubblico Servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri od omettere un atto dell’ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se il fatto è commesso per costringere il Pubblico Ufficiale o l’Incaricato di Pubblico Servizio, a compiere un atto del proprio ufficio o servizio o influire su di essa, è punito con la reclusione minore o uguale a 3 anni. Dal punto di vista concorsuale, l’art. 336 c.p. concorre con l’art. 337 c.p..

L’art. 337 c.p. disciplina la RESISTENZA AD UN PUBBLICO UFFICIALE. Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi ad un Pubblico Ufficiale, un Incaricato di Pubblico Servizio o a coloro che richiesti gli prestano assistenza, mentre viene compiuto un atto d’ufficio o di servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Dal punto di vista concorsuale, l’art. 337 c.p. concorre con l’art. 336 c.p., inoltre: a) il delitto di percosse è assorbito dall’art. 337 c.p.; b) il delitto di lesioni personali concorre com l’art. 337 c.p.; c) l’art. 337 c.p. e il delitto di lesioni personali concorrono con il dilitto di rapina se il fatto è commesso per assicurarsi il possesso della cosa oggetto del reato di rapina o l’impunità.

L’art. 337-bis c.p. disciplina l’OCCULTAMENTO, la CUSTODIA O l’ALTERAZIONE DI MEZZI DI TRASPORTO. Chiunque (comma 1 e 2) occulti o custodisca mezzi di trasporto di qualsiasi tipo

(che, rispetto alle caratteristiche omologate, presentano alterazioni o modifiche o predisposizioni tecniche) o altera mezzi di trasporto, operando modifiche o predisposizioni tecniche, tali da costituire pericolo per l’incolumità fisica degli operatori di polizia, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 2.582,00 € a 10.329,00 €. Se il colpevole è titolare di concessione, autorizzazione, licenza o altro titolo abilitante, alla condanna consegue la revoca del titolo che legittima la medesima attività.

L’art. 338 c.p. disciplina la VIOLENZA O la MINACCIA AD UN CORPO POLITICO, AMMINISTRATIVO O GIUDIZIARIO. Chiunque (comma 1 e 2) usa violenza o minaccia un corpo (o parte di esso) politico, amministrativo, giudiziario o la pubblica autorità costituita in collegio, per impedirne, turbarne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, l’attività di essi ovvero (ancora) influire sulle deliberazioni collegiali di imprese che esercitano servizi pubblici o di pubblica necessità, qualora tali deliberazioni abbiano per oggetto l’organizzazione o l’esecuzione dei servizi, è punito con la reclusione da uno a sette anni.

L’art. 339 c.p. disciplina le CIRCOSTANZE AGGRAVANTI degli artt. 337, 337-bis e 338 c.p., per cui le pene sono aumentate se la violenza o la minaccia è commessa con armi, da persona travisata, da più persone riunite, con scritto anonimo, in modo simbolico e valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte.

Se la violenza o la minaccia (comma 2) è commessa da più di cinque persone riunite (mediante uso di armi anche soltanto da parte di una di esse) o da più di 10 persone (senza uso di armi) o ancora mediante mediante il lancio o l’utilizzo di corpi contundenti o altri oggetti atti ad offendere, compresi gli artifici pirotecnici, in modo da creare pericolo alle persone, salvo che non costituisca più grave reato, la pena è della reclusione da tre a quindici anni, nei casi preveduti dagli artt. 336 I° parte, 337 e 338 c.p., e della reclusione da due a otto anni, nel caso preveduto dall’art. 336 II° parte c.p..

L’art. 340 c.p. sancisce l’INTERRUZIONE DI UN UFFICIO O SERVIZIO PUBBLICO O DI UN SERVIZIO DI PUBBLICA NECESSITÀ. Chiunque, fuori dei casi preveduti da particolari disposizioni di legge cagiona un’interruzione o turba la regolarità di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità (causando un’apprezzabile menomazione della funzionalità dell’ufficio o del servizio), è punito con la reclusione minore o uguale ad un anno. I capi promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni.

L’art. 341-bis c.p. disciplina l’OLTRAGGIO A UN PUBBLICO UFFICIALE. Chiunque in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore e il prestigio di un Pubblico Ufficiale, mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni, è punito con la reclusione minore o uguale a 3 anni. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, e la verità del fatto non è provata o il PU non viene condannato per quel fatto successivamente alla’attribuzione dello stesso, la pena è aumentata. Ove l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa che dell’ente d’appartenenza, il reato è estinto.

L’art. 342 c.p. disciplina l’OLTRAGGIO A UN CORPO POLITICO, AMMINISTRATIVO O GIUDIZIARIO. Chiunque (comma 1 e 2) offende l’onore o il prestigio (dignità e considerazione sociale) di un corpo politico, amministrtivo, giudiziario (e rappresentanza di esso) e pubblica autorità costituita in collegio, al cospetto del corpo/ rappresentanza/ collegio, in qualunque forma o anche mediante comunicazione telegrafica, o con scritto o disegno diretti al corpo/ rappresentanza/ collegio, a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da 1.000,00 € a 5.000,00 €. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è la multa da 2.000,00 a 6.000,00 €.

Si applica la disposizione dell’ultimo capoverso dell’articolo precedente.

L’art. 343 c.p. disciplina l’OLTRAGGIO A UN MAGISTRATO IN UDIENZA. Chiunque offende l’onore o il prestigio di un magistrato in udienza, è punito con la reclusione minore o uguale a un anno. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione da due a cinque anni. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso con violenza o minaccia.

L’art. 345 c.p. disciplina l’OFFESA ALL’AUTORITÀ MEDIANTE DANNEGGIAMENTO DI AFFISSIONI. Chiunque, per disprezzo verso l’autorità, rimuove, lacera, rende illegibili o inservibili

scritti, disegni affissi o esposti al pubblico per ordine dell’autorità stessa, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 103,00 € a 619,00 €.

4.2. La reazione legittima agli atti arbitrari del Pubblico Ufficiale, l’art. 4 del d.lgs. n. 288/1944 e la Sent. Cass. Pen., Sez. VI, n. 2263/2006

Il quesito, inerente alla REAZIONE LEGITTIMA AGLI ATTI ARBITRARI DEL PU, sancito dall’art. 4, d.lgs. n. 288/1944, è: può essere considerato atto arbitrario, il fermo per accertamenti di una persona sospettata infondatamente di essersi sottratta agli obblighi di sorveglianza speciale e l’apposizione alla medesima, in tale circostanza, delle manette?

La normativa al quale fare riferimento è: a) per l’art. 337 c.p., “chiunque usa violenza o minaccia per opporsi ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”; b) per l’art. 599, comma 2 c.p., “non è punibile chi ha commesso uno dei fatti preveduti dagli artt. 594 e 595 c.p. nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso”; c) per l’art. 4, d.lgs. n. 288/1944, “non si applicano le disposizioni degli artt. 336, 337, 338, 339, 341, 342 e 343 c.p., quando il Pubblico Ufficiale, l’Incaricato di Pubblico Servizio o il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni”.

Il caso pratico. A, sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno, viene fermato dai carabinieri, in quanto, secondo l’opinione di costoro, egli si trovava al di fuori del territorio comunale. In conseguenza di tale fatto, l’imputato viene ammanettato e condotto in caserma, dove viene dimenticato in una stanza. Una volta convinto un militare a togliergli le manette per recarsi al bagno approfitta della situazione e fugge dalla finestra dopo aver spintonato il carabiniere. Il Tribunale dichiara il soggetto reo del delitto di resistenza a pubblico ufficiale e lo condanna alla pena di otto mesi di reclusione. La Corte d’Appello di Bari, con sentenza 28 novembre 2003, ha affermato che, pur essendo discutibile la legittimità del mezzo di costrizione utilizzato dai militari, si doveva escludere l’applicabilità dell’esimente degli atti arbitrari del pubblico ufficiale, posto che l’iniziativa del PU, alla quale l’imputato non aveva immediatamente reagito, non era stata ispirata da vessazione o abuso, ma solo dalla necessità di tenere in stretto controllo il colpevole. La successiva condotta violenta ben poteva integrare il delitto di resistenza a PU. Avverso tale sentenza l’imputato propone ricorso per Cassazione, lamentando l’illegittimità dell’iniziativa dei carabinieri di ammanettarlo e la circostanza secondo la quale egli si era limitato solo a fuggire per riottenere la libertà che gli era stata illegittimamente compressa. La soluzione accolta dalla Suprema Corte, con Sent. Cass., Sez. VI, 19.1.2006, n. 2263 è la seguente. I giudici ritengono il ricorso presentato dall’imputato fondato: 1) la condotta tenuta dal reo integra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale, ma l’imputato, ha infatti reagito così, avendo avvertito l’iniziativa arbitraria dei PU, pose in essere l’unica reazione che il fatto gli consentiva, allo scopo di porre fine ad una situazione evidentemente mortificante ed illegale; 2) i presupposti per l’operatività di tale causa di giustificazione debbano essere individuati nell’illegittimità dell’atto, viziato da incompetenza, violazione di legge o eccesso di potere e nell’atteggiamento del PU che ha posto materialmente in essere l’atto medesimo, caratterizzato da un atto arbitrario, quale scorrettezza, villania, soppruso, capriccio, dispetto, ostilità e prepotenza. E’ al comportamento del PU che occorre prestare attenzione per verificare se si può giustificare l’analogia con l’istituto dello “stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui”, disciplinato dall’art. 599.2 c.p.. Inoltre: 3) alla luce dell’interpretazione dell’art. 4, d.lgs. n. 288/1944 emerge come i concetti di “arbitrarietà” e di “eccesso dalle attribuzioni” esprimano il medesimo fenomeno sotto il profilo delle modalità con cui il PU abbia dato esecuzione all’atto illegittimo; 4) è necessaria la sussistenza di un particolare nesso eziologico tra l’eccesso arbitrario del PU e la reazione del privato cittadino, in quanto il comportamento di quest’ultimo deve essere determinato dalla condotta scorretta del primo. Sulla base di tali considerazioni, secondo la Cassazione, non può esservi alcun dubbio che l’iniziativa dei militari di ammanettare l’imputato e di lasciarlo in tale stato all’interno della caserma integri gli estremi dell’atto arbitrario. Infatti “il sostanziale arresto, al di fuori di ogni regola, di una persona, prima ancora di accertare se la stessa avesse effettivamente contravvenuto agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, circostanza questa rivelatasi, poi, del tutto infondata, è certamente atto illegittimo e lesivo della dignità umana e non può non essere avvertito come tale dalla persona che ne è destinataria”. L’elemento materiale del delitto in esame consiste nella violenza o minaccia, posta in essere dal soggetto agente mentre il funzionario compie l’atto del suo ufficio allo scopo di opporsi all’attività medesima; tale condotta violenta o minacciosa può concretizzarsi in qualsiasi atteggiamento, attivo od omissivo, capace di impedire o intralciare la regolarità dell’atto di ufficio, con esclusione della cd. mera resistenza passiva (come il fatto di buttarsi a terra, aggrapparsi ad un oggetto per non farsi portare via), non potendo tale condotta integrare il delitto in esame nemmeno nel caso in cui il funzionario sia costretto ad utilizzare la forza per vincere una simile resistenza.

La giurisprudenza ha ancora precisato, nella Sent. Cass., sez. VI, n. 35125/2003, che “l’atto di divincolarsi posto in essere da un soggetto fermato dalla PG configura violenza ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 337 c.p. e non mera resistenza passiva quando non costituisce una sorta di reazione spontanea ed istintiva alla costrizione operata dal PU ma un vero e proprio impiego di forza diretto a neutralizzare l’azione del PU ed a sottrarsi alla presa, guadagnando la fuga”. La “semplice fuga” integra la fattispecie solo sé è accompagnata da manovre che concretino

l’esplicazione di una vera e propria intimidazione contro il pubblico funzionario (Sent. Cass. n. 544/1987). Occorre ora procedere ad una breve disamina dell’esimente disciplinata dall’art. 4, d.lgs. n. 288/1944. La disposizione afferma che non si deve applicare la normativa relativa al delitto de quo nel caso in cui il pubblico ufficiale abbia dato causa al fatto, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni. E’ discussa la natura giuridica di tale istituto. Secondo un orientamento fatto proprio da una cospicua giurisprudenza di legittimità la figura in esame avrebbe la natura giuridica di esimente, ovvero di un fatto (o causa) capace di esimere dall’applicazione della pena nel caso concreto, senza andare ad intaccare la tipicità del fatto o la sua antigiuridicità. Secondo la tesi maggioritaria, sostenuta in particolar modo dalla dottrina, al contrario, l’istituto contemplerebbe una vera e propria causa di giustificazione speciale, la quale escluderebbe l’antigiuridicità del fatto, rendendo lecita una situazione che, in mancanza, costituirebbe reato. I Presupposti per l’applicazione dell’esimento in esame sono: a) l’ECCESSO; b) l’ATTO ARBITRARIO; c) la REAZIONE. In riferimento al punto a), l’eccesso è un comportamento non consentito dall’ordinamento giuridico nel suo complesso, concretizzandosi in un eccesso di potere, una violazione di legge, una incompetenza, o in un vizio di merito e consistente nello scorretto uso del potere discrezionale. In riferimento al punto b), l’atto arbitrario, secondo la Cassazione dominante è “qualsiasi comportamento che obiettivamente (non per mere valutazioni soggettive) manifesti o rilevi un carattere di prepotenza o di soppruso, determinato dalla consapevole volontà dell’agente di perseguire fini, o usare mezzi, che non sono compatibili, in senso largo, col nostro ordinamento giuridico” (Sent. Cass., sez. VI, n. 3308/83). E’ discusso se possa considerarsi atto arbitrario, l’atto meramente inurbano o scorretto: 1) i modi semplicemente irritanti o sgarbati non sono ricondotti all’istituto in esame ma quelli sgarbati possono dare luogo all’attenuante della provocazione (Sent. Cass., sez. VI, n. 4132/1975); 2) i modi sgarbati se posti in essere con modalità non consentite dal dovere di correttezza imposto dalla legge ai funzionari pubblici, rientrano nel concetto di “prepotenza” e di “sopruso” (Sent. Cass., sez. VI, n. 2715/1998). L’ATTO ILLEGITTIMO NON SI IDENTIFICA CON QUELLO ARBITRARIO. Il primo si concreta in un atto puramente e semplicemente contrario alla legge, mentre il secondo è quello consapevolmente abusivo, vessatorio e oppressivo, esprimendo l’atteggiamento psichico di chi sostituisce il proprio capriccio ed i propri fini personali all’interesse pubblico (Sent. Cass., sez. VI, n. 8274/1980).

In riferimento al punto c), circa la reazione, è necessario che vi sia un particolare nesso di causalità tra l’atto arbitrario e la reazione: occorre che la reazione del soggetto che si trovi in contatto con il funzionario pubblico sia determinata effettivamente dall’arbitrarietà del pubblico ufficiale, in lasso di tempo non eccessivamente lungo (Sent. Cass., sez. VI, n. 1433/1998). Inoltre, la reazione dev’essere: 1) proporzionata all’atto arbitrario, avendo riguardo alla gravità dell’aggressione subita rispetto alla reazione, nonché ai mezzi di reazione utilizzati dalla vittima; 2) improntata ad un spirito di contrarietà dell’illegittima condotta subita. Come evidenziato recentemente: “in materia di atti arbitrari del PU, ai fini della sussistenza dell’esimente di cui all’art. 4, d.lgs. n. 288/1944, non basta che il PU ecceda dai limiti delle sue attribuzioni, ma è necessario altresì che tenga una condotta improntata a vessazione, sopruso, prevaricazione, prepotenza nei confronti del privato destinatario” (Cass., sez. VI, n. 39685/02).

4.3. I delitti disciplinati agli artt. 346-356 c.p.

L’art. 346 c.p. disciplina il MILLANTATO CREDITO. Chiunque, millantando (facendo credere che…) credito presso un Pubblico Ufficiale o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve, fa dare, o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il PU o impiegato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 309,00 € a 2.065,00 €. Se il colpevole, riceve, si fa dare o si fa promettere, a sé o ad altri,

denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un PU o impiegato, o doverlo remunerare, la pena è la reclusione da due a sei anni e multa da 516,00 € a 3.098,00 €. Se il soggetto attivo è un patrocinatore, si applica l’art. 382 c.p.. E’ discusso in Dottrina se concorra col il delitto di truffa o quest’ultimo venga assorbito; per la Giurisprudenza, c’è concorso.

L’art. 347 c.p. disciplina l’USURPAZIONE DI FUNZIONI PUBBLICHE. Chiunque usurpa (cd. usurpazione in senso stretto) una funzione pubblica o le attribuzioni inerenti a un pubblico impiego

è punito con la reclusione minore o uguale a 2 anni (se la sua condotta si riduce alla mera attribuzione della qualifica corrispondente ad una funzione, si applica l’art. 498 c.p.). Alla stessa pena soggiace (cd. usurpazione propria) il PU o impiegato, il quale, avendo ricevuta partecipazione del provvedimento che fa cessare/ sospendere le sue funzioni o le sue attribuzioni, continua ad esercitarle. La condanna importa la pubblicazione della sentenza. L’art. 347 c.p. si differenzia dall’abuso d’ufficio, in quanto, il secondo si riconduce alle funzioni d’ordine pubblicistico affidate all’agente, mentre il primo presuppone l’usurpazione di funzioni pubbliche in occasione d’attività proprie di una funzione del tutto estranea alal sfera d’attribuzione del soggetto.

L’art. 349 c.p. disciplina la VIOLAZIONE DOLOSA DI SIGILLI. Chiunque viola i sigilli (cioè, ogni tipo di dispositivo applicato dalla pubblica autorità sulla cosa al fine di garantirne la conservazione e l’identità, sia che esso consista in un bollo, un timbro su ceralacca o piombo o la striscia di carta incollata recante la firma dei pubblici ufficiali procedenti, purchè sia manifestata con evidenza l’intenzione della pubblica autorità di proteggere l’oggetto interessato nella sua identità ed integrità), per disposizione della legge o per ordine dell’autorità (nei limiti della competenza di costei) apposti al fine di assicurare la conservazione o l’identità di una cosa, (anche se l’azione non si sostanzia nella loro rottura o rimozione o modifica), è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 103,00 € a 1.032,00 €. Se il colpevole è colui che ha in custodia la cosa, la pena è della reclusione da tre a cinque anni e della multa da 309,00 € a 3.098,00 €.

Il reato di danneggiamento è assorbito dall’art. 349 c.p..

L’art. 350 c.p. disciplina la VIOLAZIONE COLPOSA DI SIGILLI. Se la violazione dei sigilli è resa possibile, o comunque agevolata, per colpa di chi ha in custodia la cosa, questi è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 154,00 € a 929,00 €.

L’art. 351 c.p. disciplina la VIOLAZIONE DELLA PUBBLICA CUSTODIA DI COSE. Chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora corpi di reato/ atti/ documenti/ altra cosa mobile particolarmente custodita in un pubblico ufficio o presso un Pubblico Ufficiale o Incaricato di Pubbico Servizio (la custodia deve avvenire in un pubblico ufficio, da intendersi come il luogo nel quale di regola si esercita la pubblica funzione o il pubblico servizio o anche in un luogo privato, purchè assoggettato al potere di controllo del pubblico funzionario, che abbia l’esclusiva disponibilità della cosa), è punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto (quali l’art. 490 c.p., la soppressione, distruzione od occultamento di atti veri e l’art. 314 c.p., il peculato).

L’art. 352 c.p. disciplina la VENDITA DI STAMPATI DEI QUALI È STATO ORDINATO IL SEQUESTRO. Chiunque, vende, distribuisce, affigge, in luogo pubblico o aperto al pubblico, scritti o disegni, dei quali l’autorità ha ordinato il sequestro, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 103,00 € a 619,00 €.

L’art. 353 c.p. disciplina la TURBATA LIBERTÀ DEGLI INCANTI. Chiunque, con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, impedisce, turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di PA o ne allontana gli offerenti, è punito con la reclusione minore o uguale a due anni e con la multa da 103,00 € a 1.032,00 €. Se il colpevole è persona preposta dalla legge, dall’autorità agli incanti o alle licitazioni suddette, la reclusione è da uno a cinque anni e la multa da 516,00 € a 2.065,00 €. Le pene stabilite in questo articolo si applicano anche nel caso di licitazioni private per conto di privati, dirette da un PU o da persona legalmente autorizzata, ma sono ridotte alla 1/2. L’art. 353 c.p. è in concorso col delitto di estorsione, in quanto quest’ultimo è connotato dalla coartazione dell’altrui volontà con lo specifico fine del conseguimento di un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale, mentre l’art. 353 c.p. si caratterizza per il dolo generico e per essere reato di pericolo che si consuma nel momento in cui la gara è impedita o turbata, senza che occorra la produzione di un danno o il conseguimento di un profitto.

L’art. 354 c.p. disciplina l’ASTENSIONE DAGLI INCANTI. Chiunque, per denaro, dato o promesso a lui o ad altri, o per altra utilità a lui o ad altri data o promessa, si astiene dal concorrere agli incanti o alle licitazioni indicati nell’art. 353 c.p., è punito con la reclusione minore o uguale a sei mesi o con la multa minore o uguale a 516,00 €.

L’art. 355 c.p. disciplina l’INADEMPIMENTO DI CONTRATTI DI PUBBLICHE FORNITURE. Chiunque, non adempiendo gli obblighi che gli derivano da un contratto di fornitura concluso con lo Stato, altro ente pubblico o impresa esercente servizi pubblici o di pubblica necessità, fa mancare, in tutto o in parte, cose od opere, che siano necessarie a uno stabilimento pubblico o ad un pubblico servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa uguale o maggiore a 103,00 €. La pena è aumentata se la fornitura concerne: 1) sostanze alimentari o medicinali, ovvero cose od opere destinate alle comunicazioni per terra, per acqua o per aria, o alle comunicazioni telegrafiche o telefoniche; 2) cose od opere destinate all’armamento o all’equipaggiamento delle forze armate dello Stato; 3) cose od opere destinate ad ovviare a un comune pericolo o ad un pubblico infortunio. Se il fatto è commesso per colpa, si applica la reclusione minore o uguale a un anno o la multa da 51,00 € a 2.065,00 €. Le stesse disposizioni si applicano ai subfornitori, mediatori e rappresentanti dei fornitori, quando essi, violando i loro obblighi contrattuali, hanno fatto mancare la fornitura. Se l’inadempimento si verifica in tempo di guerra e la fornitura serve a soddisfare i bisogni delle forze armate o della popolazione, si applica l’art. 251 c.p..

Infine, l’art. 356 c.p. disciplina la FRODE NELLE PUBBLICHE FORNITURE. Chiunque commette frode nell’esecuzione dei contratti di fornitura, o nell’adempimento degli altri obblighi contrattuali indicati nell’art. 355 c.p., è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa minore o uguale a 1.032,00 €. La pena è aumentata nei casi preveduti dall’art. 355.1, I° capoverso c.p.. Se la frode si verifica in tempo di guerra e la fornitura serve a soddisfare i bisogni delle forze armate o della popolazione, si applica l’art. 252 c.p..

4.4. (sub 4.1.) L’esercizio abusivo della professione

L’art. 348 c.p. disciplina l’ESERCIZIO ABUSIVO DI UNA PROFESSIONE. Chiunque abusivamente (cioè in assenza di abilitazione di Stato o senza aver adempiuto le formalità prescritte quali l’iscrizione all’albo previo superamento dell’esame abilitativo o esercizio professionale a seguito di sanzione disciplinare o pena accessoria. La sola assenza dell’iscrizione, avendo superato l’esame abilitativo comporta una sanzione pecuniaria per la Dottrina e la nullità degli atti compiuti)

esercita una professione (anche un solo atto configura idoneo e sufficiente rileva ai fini del presente articolo. Il tentativo lo si ammette nel caso in cui l’esercizio professionale non sia stato ancora iniziato) per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato (es. avvocato, notaio, ingegnere, architetto, medico, farmacista, con esclusione delle arti e dei mestieri) è punito con la reclusione minore o uguale a sei mesi o con la multa da 103,00 € a 516,00 €.

In riferimento al concorso con altri reati, si distingue: a) USURPAZIONE DI TITOLI ED ONORI; b) TRUFFA; c) USURPAZIONI DI FUNZIONI PUBBLICHE; d) MILLANTATO CREDITO; e) COMMERCIO DI SOSTANZE DOPANTI.

In riferimento al punto a), l’art. 498 c.p. punisce la condotta di chi in pubblico porta abusivamente i segni distintivi, tra gli altri, di una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato. La disposizione è peraltro stata depenalizzata divenendo illecito amministrativo, secondo quanto disposto dall’art. 43, d.lgs. n. 507/1999. L’affinità lessicale tra le due fattispecie porta a ritenerle collegate, nonostante posizioni dottrinali e giurisprudenziali contrarie: la giurisprudenza e parte della letteratura sono costanti nel ritenere ammissibile che gli illeciti in esame concorrano tra loro, adducendo che le due disposizioni tutelano beni giuridici distinti, poichè l’art. 348 c.p. è teso alla protezione dell’interesse dello Stato a che determinate attività vengano esercitate solo da soggetti qualificati, mentre l’illecito amministrativo, secondo un’opinione consolidata, tutela la pubblica fede, cioè la collettività, <<rispetto a comportamenti che possono essere ritenuti idonei a trarla in inganno>>. La Cassazione, nel caso del falso medico che distribuiva i biglietti da visita in cui vantava il titolo di dottore, oltre al delitto di tentato esercizio abusivo di professione, gli venne confermata la condanna per il reato di usurpazione di titoli o di onori proprio perchè dai giudici ritenuta invalida la tesi dell’assorbimento tra i due delitti, in considerazione che <<le norme tutelano distinti beni giuridici, e possono quindi concorrere>>. A mio avviso, tra le due norme non vi può essere concorso ma bensì assorbimento.

In riferimento al punto b), il problema del rapporto tra l’art. 348 c.p. e la truffa riguarda la <<sussumibilità della fattispecie descritta nell’art. 348 c.p. nelle modalità della condotta (artifici o raggiri) tipici dell’ipotesi di truffa>> e il discrimine appare essere la possibilità o meno di ricomprendere gli elementi costitutivi dell’esercizio abusivo nell’elemento oggettivo di cui all’art. 640 c.p.. La maggioranza della dottrina pare schierata sull’ipotesi del non assorbimento (da condividere pienamente), facendo leva sul fatto che i beni tutelati sono differenti: infatti, la truffa è rivolta alla protezione del patrimonio che viene intaccato con modalità ingannatorie. Gli artifici o raggiri possono essere realizzati indipendentemente dall’esercizio abusivo di una professione, traendo in inganno il soggetto passivo in altro modo; per cui, la condotta di cui all’art. 348 c.p. può divenire un elemento accidentale del reato complesso di truffa, ma non di più, facendo rimanere l’imputabilità contemporanea sia per il delitto di cui all’art. 348 c.p. che all’art. 640 c.p.. In merito si possono citare due pronunce, sia della Corte di cassazione sia di Corti di merito. La prima riguarda la condanna di un soggetto per concorso di truffa, esercizio abusivo di professione sanitaria e sostituzione di persona (art. 494 c.p.). Per entrambi gli ultimi delitti la Suprema Corte afferma che i loro elementi costitutivi <<non possono ritenersi assorbiti [nella truffa] non costituendone elementi necessari>>. Anche la giurisprudenza di merito propende per la stessa soluzione.

In riferimento al punto c), tra l’art. 348 c.p. e l’art. 347 c.p. c’è una posizione di negazione di concorso di reati. Quest’ultima norma è in stretta correlazione con la disposizione dell’art. 357 c.p. (nozione di pubbico ufficiale), in quanto entrambe le fattispecie puniscono l’uso indebito di una qualifica attraverso l’esercizio di un’attività che anche se non tutte le attività possono considerarsi professioni, la normativa penale (in questo caso) dà rilievo anche ai concetti di “funzione pubblica” e di “pubblico impiego”. È il caso per esempio delle funzioni di notaio, che nel linguaggio comune viene ritenuto una professione liberale, ma in realtà si tratta di una funzione pubblica, analogamente a quella di agente di cambio. La dottrina ritiene che, c’è un concorso apparente, e quindi in luogo di un concorso di reati, si configura un’unicità di illecito, essendo una sola la norma incriminatrice veramente applicabile all’ipotesi concreta; si potrebbe far valere quindi il principio di sussidiarietà, e quindi l’offesa maggiore assorbirebbe la minore; per tali motivi, la preferenza applicativa va data alla norma più severa, che senza dubbio è l’art. 347 c.p. che prevede un limite massimo di reclusione di due anni contro i sei mesi della fattispecie successiva.

In riferimento al punto d), la dottrina ammette il concorso di reati, quando la condotta integrante il millantato credito sia svolta esercitando attività tipiche di una professione protetta. Si deve tener presente però che laddove venga utilizzato solo il titolo del accademico del professionista questo significherà concorrere con il reato di “usurpazione di pubbliche funzioni”; mentre per la relazione con l’art. 348 c.p., come già ribadito più volte, sarà necessario il compimento di almeno un atto professionale tipico.

In riferimento al punto e), l’art. 9 comma 7, legge n. 376/2000 è speciale rispetto all’art. 348 c.p..

4.3. (sub 4.1.) De iure condendo, in tema d’esercizio abusivo professionale. La proposta riformistica del Dott. Giulio Perrotta

TRATTAZIONE RIASSUNTIVA DI TESI,

presso Università degli Studi di Firenze,

Laurea Specialistica in Giurisprudenza, a.a. 2010-2011,

Prof. Relatore Carlo Francesco Palazzo.

L’art. 348 c.p., norma inserita nel Libro II, al Titolo II (dei delitti contro la Pubblica Amministrazione) del Capo II (dei delitti dei privati ai danni della Pubblica Amministrazione), afferma che <<chiunque, abusivamente, esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato, è punito con la reclusione fino a 6 mesi o con la multa da euro 103 a 516 euro>>. Così strutturata, si possono notare i 2 elementi costitutivi presenti nel precetto: a) l’esercizio professionale abusivo (e i relativi concetti di abuso e di professione); b) l’abilitazione di Stato, intesa come l'<<interesse a che certe professioni vengano esercitate solo da chi possiede determinati requisiti di competenza tecnica, morale e culturale>>.

Iniziando dal pronome “abusivamente”, sono giunto a derivarne la radice etimologica passando per i suoi vari significati: dapprima, secondo la derivazione terminologica dal latino (da “abusus”, quale

<<uso eccessivo, improprio, cattivo, illecito>>); dopo, secondo l’intenzione del legislatore (<<è abusiva, qualunque violazione della disciplina disposta per legge>>); in seguito, secondo le posizioni dominanti in dottrina e giurisprudenza (<<la mancanza di qualunque condizione richiesta per il legittimo esercizio di una professione protetta>>); ed ancora, secondo il diritto civile (<<un esercizio deviato e anormale del diritto soggettivo, accompagnato dall’elemento soggettivo dell’animus nocendi, che richiama un comportamento contrario alla buona fede e al principio di collaborazione, quindi una strumentalizzazione della situazione di diritto, per finalità ad essa estranee, con contestuale violazione delle regole poste a presidio dell’esercizio della facoltà, del potere o dell’adempimento dell’obbligo>>) e il diritto commerciale (<<il concetto di abusivismo, e conseguentemente del comportamento abusivo, sta ad indicare l’illiceità della condotta che nasce non semplicemente dalla violazione del comando ma di ben precise regole, quelle che, in considerazione dell’esigenza di tutela di interessi che potrebbero subire un pregiudizio dal compimento di certe attività[…], per cui la peculiarità risiede nella natura del comando violato e dei comportamenti tenuti, condotte lecite solo in presenza di alcune e determinate condizioni, quelle appunto che ne giustificano il compimento>>; infine, concludendo con le personalissime rielaborazioni di Delitala e Pulitanò.

Reinterpretandoli, ho evinto che, di per sé, il termine in esame è inserito nella norma come rafforzativo della condotta delittuosa punita ma che è perfettamente ridondante, stante il fatto che il concetto di abuso dovrebbe essere naturalmente ricompreso in quello di “professione” e di “abilitazione di Stato”, in quanto:

a) nel primo concetto si dovrebbe praticare una distinzione tra “lavoro”, “attività professionale” e “professione”, dove per quest’ultimo si dovrebbe intende “un esercizio professionale previsto solo previa abilitazione di Stato” (mentre per gli altri due la distinzione è meramente manuale o intellettuale con una certa percentuale di prevalenza, come già dibattuto precedentemente);

b) nel secondo concetto, secondo la giurisprudenza, l’“abuso della professione” è l’uso abnorme del diritto all’esercizio di quella certa professione con l’intento di conseguire uno scopo diverso da quello al quale l’abilitazione è strumentale>>.

Successivamente, l’analisi è passata all’elemento “professione” e tenendo presente quanto detto poc’anzi, appare subito chiaro che non occorre addentrarsi nei meandri interpretativi e etimologici, ma basterebbe una semplice, netta e chiara distinzione tra le attività manuali, intellettuali e protette, con le loro relative ed eventuali prevalenze.

Tutt’al più si potrebbe creare qualche problema nel momento in cui si debba valutare se il 348 sia o meno una norma penale in bianco: a mio avviso, credo proprio che la risposta possa essere affermativa (nonostanze parere negazionista della Corte Costituzionale), sulla base del fatto che la norma di per sé descrive la condotta illecita ma non è completa circa la definizione di professione e di abilitazione di Stato, richiamando tant’è vero le norme penali ed extrapenali.

Infine, terminando con l’elemento dell’”abilitazione di Stato”, non può non prendersi in considerazione il taglio “amministrativo” della norma in esame, in quanto, anche qui, secondo la tecnica del rinvio, occorre prendere in esame norme extrapenali delle singole discipline per arrivare a definire il concetto stesso di “abilitazione” e poi perchè essa serve come mezzo per poter gestire e

controllare coloro che effettuano esercizi professionali dove siano previste abilità e conoscenza particolari e a proteggere il buon andamento della Pubblica Amministrazione.

L’esercizio abusivo di una professione “protetta” è un reato a “struttura aperta”, “comune”, di “danno”, “commissivo”, di “mera condotta”, a “forma libera”, “abituale” (anche se per una parte della dottrina è “eventualmente permanente”) e “complesso”.

E’ a “struttura aperta” per le ragioni sopracitate.

E’ “comune”, in quanto la norma in esame apre col pronome “chiunque”, anche se reputo però che si possa considerare “eventualmente proprio” per il fatto che, in determinate situazioni, il soggetto agente possa presentare le caratteristiche di un “proprium” tipico dei reati come “falsa testimonianza” e “abbandono di minori”; per esempio, è “comune” quando il soggetto attivo è un diplomato o laureato con altra laurea rispetto alla professione che sta svolgendo, è “proprio” quando il soggetto attivo, svolge la professione tipica rispetto al suo titolo ma ci sono degli impedimenti legali, come il caso del laureato e abilitato ma radiato dall’albo professionale di riferimento.

E’ di “danno”, in quanto la lesività del comportamento è manifesta solo nel momento in cui il soggetto attivo mette in atto l’attività professionale protetta, senza esserne abilitato e non è quindi sufficiente la semplice esposizione al pericolo del bene protetto (altrimenti sarebbe un reato di pericolo).

E’ “commissivo”, in quanto la condotta delittuosa è attiva; in tal caso, si potrebbe ipotizzare una “commissione mediante omissione” ma solo a condizione di teorizzare una figura professionale (per es., il “Garante Amministrativo”), che funga da tramite tra il titolato e l’Amministrazione, col solo scopo di provvedere al controllo incrociato dei dati e delle informazioni e di tutti i documenti necessari, evitando in tal modo una sempre più facile configurazione del reato ex 348 e in tal modo, in caso di dolo, colpa grave, errore inevitabile dettato dagli artifici e dai raggiri altrui o da errore altrui non altrimenti rilevabile, e violenza, in capo a quest’ultimo si verrebbe a configurare un concorso di persone colposo ed omissivo.

E’ di “mera condotta”, in quanto ai fini dell’integrazione del fatto tipico, quando la norma non richiede che si verifichi effettivamente un evento dannoso a carico della comunità o di chi fruisce il servizio del falso professionista; una volta compiuta la condotta tipizzata dal legislatore come delitto, il reato è consumato.

E’ di “forma libera”, in quanto viene meno qualunque requisito ricollegabile alla condotta attiva dell’agente.

È “abituale”, per esclusione, in quanto non può essere “permanente” perchè il protrarsi dell’offesa dipende dalla volontà dell’autore, e nemmeno “istantaneo” perchè la lesione derivante dal fatto illecito può avere effetti che si protraggono nel tempo; nonostante ciò, parte della dottrina lo considera un reato “eventualmente permanente” dove l’offesa non è costante ma perdura nel tempo per effetto della condotta illecita del soggetto attivo, o ancora meglio definirlo come un reato eventualmente abituale dove non sempre è necessaria la ripetizione della condotta, ma eventualmente può essere unica o ripetuta.

A mio avviso, invece, lo si potrebbe definire come reato “istantaneo potenzialmente permanente”: “istantaneo”, perchè si perfeziona con la consumazione di un solo atto tipico di una professione protetta e, di per sé, integrante il reato, violando la disposizione normativa, mentre è “potenzialmente permanente”, in quanto il protrarsi dell’offesa non dipende sempre e completamente dalla volontà dell’autore e non si potrebbe parlare di “eventualmente permanente” perchè l’eventualità presuppone una probabilità tendente alla certezza, mentre la potenzialità si muove nell’ordine della possibilità, perfettamente coerente con la condotta delittuosa. Addirittura si potrebbe perfino parlare di “reato camaleontico” in quanto è “istantaneo potenzialmente permanente”, mutabile in “abituale” a secondo della condotta del soggetto attivo e tutt’al più lo distinguerei in base all’aspetto sanzionatorio, per cui in caso di condotta “abituale” applicherei delle aggravanti specifiche.

Infine, è reato “complesso”; anche qui, però, trovo sia più consono la categoria di “potenzialmente

complesso” (per es., la configurabilità dei delitti ex 346, 347 e 498 c.p. col 348 c.p.).

Iniziando dalla CONDOTTA TIPICA, cioè quella tipizzata dal legislatore come illecita e quindi punibile, per la dottrina dominante è il <<compimento abusivo di atti d’esercizio di una professione protetta>> mentre per la giurisprudenza è sufficiente il <<compimento di almeno un atto concreto d’esercizio della professione protetta, cioè richiedente l’iscrizione in un albo professionale>>, ma dev’essere <<un’attività in concreto con rilevanza “esterna”, indirizzata ad un pubblico, anche se isolata, occasionale, gratuita o per motivi di amicizia, purchè “tipici o riservati” della professione in questione e non “liberi”>>; inoltre, <<la sola iscrizione nell’albo professionale è prodromico ad una concreta esplicazione dell’attività protetta ma non configura la fattispecie criminosa di cui all’art. 348 c.p., in quanto veniva meno il requisito dell’esercizio dell’attività stessa>>.

A mio avviso, trovo queste impostazioni eccessivamente restrittive in quanto se da una parte lo Stato deve trovare lo strumento garantistico per la protezione di determinate professioni, dall’altro il carattere pubblicistico va a soffocare la libera e lecità attività decisionale del professionista non abilitato o non qualificato; la garanzia penale dovrebbe esplicare la sua forza nel solo caso di messe in atto di condotte illecite, tipicizzate dal legislatore come reati e non in presenza di condotte lecite di carattere privatisico. Occorre quindi, cercare di capire quale sia il discrimine tra la garanzia penale e il carattere privatistico dell’esercizio professionale in esame: in tal senso, penso che il secondo aspetto si possa configurare se c’è, contemporaneamente, la presenza di tre requisiti (cd. requisiti di “non punibilità”), quali:

1) la “totale gratuità della prestazione” o la “percezione economica a titolo di offerta o di atto di generosità” (purchè dichiarata ai fini dei redditi con conseguente rilascio di una ricevuta fiscale); 2) la “conoscibilità dell’altrui posizione professionale”, cioè la conoscibilità in concreto che il soggetto agente non è un professionista abilitato a prestare quell’esercizio tutelato;

3) il “consenso informato da parte del soggetto passivo” nel volere la prestazione, pur sapendo che

il soggetto attivo deficita dei requisiti richiesti per legge.

Inoltre, utilizzerei come metro di giudizio tra il discrime civilistico e quello penalistico, la tutela al soggetto passivo, per cui chi decide di usufruire di una prestazione professionale da parte di un professionista non abilitato, per prestazioni dove è obbligatorio il titolo di Stato, non potrà adire contro di lui cause civili di risarcimento per danni morali e/o esistenziali.

Proseguendo con l’analisi dei soggetti del reato, ho distinto tra tra posizione attiva e passiva.

E’ SOGGETTO ATTIVO, colui che è <<sfornito del titolo di abilitazione richiesto per l’esercizio di

una professione protetta, per ragioni di incompatibilità, sospensione, radiazione, mancata abilitazione e mancata iscrizione all’albo>>.

E’ SOGGETTO PASSIVO, il <<titolare del bene protetto dalla singola fattispecie incriminatrice di cui al 348>>, quindi, lo Stato, in quanto garante del rispetto della norma e della buon andamento della PA, salvo ulteriori posizioni che identificano ciò in capo ad altri soggetti, come gli Ordini Professionali e le vittime del reato; a mio avviso, il soggetto passivo dovrebbe essere colui che subisce un danno risarcibile, di qualunque natura sia (morale, materiale, esistenziale, biologico): per cui può esserlo lo “Stato”, in quanto garante (pur non trovandosi in una posizione di garanzia rispetto a nessuno) del rispetto della norma in esame e del buon andamento amministrativo; l’”ordine professione”, per il danno all’immagine patito; il “professionista usurpato”, per il danno causato dallo sviamento della clientela e la “vittima del reato”, secondo le modalità già descritte.

L’OGGETTO MATERIALE DEL REATO è <<il bene o il soggetto su cui ricade l’azione delittuosa>>, mentre in merito all’ELEMENTO SOGGETTIVO, occorre fare dei distinguo. Escludendo i casi di responsabilità oggettiva, perchè inapplicabile per il reato de quo, l’ordinamento italiano riconosce tre elementi, il dolo, la colpa e la preterintezione, anche se la dottrina maggioritaria configura solo il dolo per il delitto ex 348.

A mio avviso, invece, credo si possa configurare la colposità in questo delitto, ma nel solo caso in cui non la prestazione professionale venga svolta totalmente gratuita e sia rappresentato nel soggetto passivo del reato l’assenza del requisito abilitativo obbligatorio, anche se manca il consenso scritto.

Circa la sua configurabilità dolosa, è sicuramente un reato a “dolo generico”, poiché non è necessario che il soggetto abbia l’intenzione d’agire perseguendo uno specifico scopo (per esempio, quello lucrativo), né un fine particolare, per cui si configura nella <<consapevolezza e volontà dell’agente d’esercitare abusivamente la professione>> ovvero <<consapevolezza di compiere uno o più atti che non può compiere in quanto abilitato o, se abilitato, non iscritto ove necessario al relativo albo professionale>>; possono configurarsi sia il “dolo di proposito” che quello “premeditato”, ma è escluso dalla dottrina dominante, il “dolo d’impeto”; ancora, si può configurare per il delitto de quo, il dolo eventuale, diretto e intenzionale.

In tema di SINGOLE CAUSE DI GIUSTIFICAZIONE e SCUSANTI, mi sono occupato di analizzare quali si potessero configurare per il delitto de quo: sono giunto alla conclusione che le uniche possibilità sono rappresentate dal 50 (Consenso dell’avente diritto), ma solo in presenza contemporanea dei tre requisiti giustificativi, in quanto il diritto in questione nasce come diritto indisponibile, dal 51 (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere), purchè sempre in presenza dei requisiti sopracitati o del caso particolare dell’agente di polizia infiltrato e dal 54 (Stato di necessità).

Col termine “ CONSUMAZIONE ” , <<si fa riferimento al momento in cui il reato si perfeziona, venendo ad integrare la fattispecie incriminatrice come enunciata dalla norma; per cui, s’intende consumato, quando l’azione dell’agente corrisponde a tutti gli elementi descrittivi e normativi fissati dal legislatore>>, per cui, tenendo presente il requisito della sufficienza di un solo esercizio professionale, <<il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui si compie il primo atto di esercizio>>.

Per “ TENTATIVO ” si considera quella condotta che mette in essere atti diretti e in modo non equivoco alla commissione dell’illecito de quo: in tal caso, se si riconosce integrato il delitto solo in presenza di una pluralità di atti tipici sarà facile affermare l’ammissibilità di un tentativo allorquando venga compiuto un singolo atto; viceversa (è questa è la posizione della Giurisprudenza dominante) se si considera sufficiente il compimento di un singolo atto della professione il tentativo nel reato in esame appare astrattamente ammissibile, anche se <<comprensibilmente difficile>>.

A mio parere, invece, il tentativo non è configurabile per il delitto di abusivo esercizio di un professione protetta, e tutt’alpiù, i soggetti attivi che si prefiguravano di realizzare quel delitto potranno essere imputati per condotte integranti altri reati (per esempio, il delitto di “falso documentale”) o l’applicazione di misure di sicurezza, per cui ipotizzare il tentativo in questo delitto è come sostenere che chi compra una pistola illegalmente possa essere imputato per tentato omicidio solo sulla base del fatto che erano risaputi i suoi risentimenti verso un determinato soggetto.

Si potrebbe anche teorizzare il caso in cui, un soggetto non abilitato abbia già predisposto location e strumentazione per l’attività professionale abusiva ma che materialmente ancora non abbia effettuato nessuna prestazione: in tal caso, credo si possa comunque configurare il reato ex 348 perchè con dolo generico ha messo in atto la condotta illecita vietata, anche e materialmente non ha compiuto nessun atto, ma era in procinto di effettuarlo (per esempio, si era già attivato trovando dei clienti, rilasciano biglietti da visita).

Nell’esame del CONCORSO DI PERSONE, è punibile a titolo di concorso non solo il partecipante attivo ma anche il professionista che ha taciuto di sapere la carenza del titolo del “falso collega” (con coscienza e volontà) o che ha fatto un <<uso abnorme del diritto all’esercizio di quella certa professione con l’intento di conseguire uno scopo diverso da quello al quale l’abilitazione è strumentale>>.

Sotto il PROFILO RIFORMISTICO, infine, possiamo così modificare la norma in 10 commi:

<<Chiunque esercita una professione, senza aver conseguito l’abilitazione di Stato per lo svolgimento dell’esercizio professionale stesso, è punito con la reclusione da 1 anni a 4 anni, multa da 1.000 euro a 10.000 euro e la confisca di quanto indebitamente guadagnato tramite l’esercizio professionale abusivo.

Se la confisca, anche per equivalente, non è possibile in quanto non esistono o sono irreperibili i beni mobili o immobili aggredibili, la pena pecuniaria è convertita in reclusione nella misura di 1 giorno per ogni 100,00 euro indebitamente perpecite tramite la prestazione dell’esercizio professionale eseguito senza l’abilitazione di Stato, fino ad un massimo di ulteriori 5 anni aggiuntivi alla pena edittale di base. La presente disposizione si applica anche al terzo, quarto, quinto e sesto comma del presente articolo.

La pena è pecuniaria da 1.000 euro a 25.000 euro, nel solo caso in cui sia stata conseguita l’abilitazione di Stato richiesta ma non si sia provveduto alla regolarizzazione della stessa, tramite iscrizione nell’albo professionale di riferimento e si sia posto in essere almeno 1 esercizio professionale eseguito senza l’abilitazione di Stato.

Oltre alla speciale sanzione pecuniaria prevista, sono comunque dovuti tutti gli oneri e le tasse non versate all’Ordine professionale di riferimento, con efficacia retroattiva, fino a 8 anni prima nel caso previsto dal 348.1 e 348.4, fino a 12 anni prima nel caso previsto dal 348.5 o fino a 24 anni prima nel caso previsto dal 348.5, a decorrere dell’ultimo esercizio professionale

eseguito senza l’abilitazione di Stato.

La pena è da 2 anni a 4 anni, nel caso in cui il reo abbia agito per un periodo superiore a 12 mesi, con almeno 36 atti professionali abusivi ovvero abbia agito in concorso pur essendo un professionista abilitato, salvo dolo, errore inevitabile, o altrui inganno a lui non imputabile.

La pena è da 4 anni a 6 anni, nel caso in cui il reo abbia agito per un periodo superiore ai 5 anni, ponendo in essere una struttura operativa stabile e una pubblicità, anche con mezzi non ufficiali e con almeno 120 atti professionali abusivi.

La pena è da 8 anni a 12 anni, nel caso in cui il reo abbia agito per un periodo superiore ai 10 anni, ponendo in essere una struttura operativa stabile e una pubblicità, anche con mezzi non ufficiali e con almeno 240 atti professionali abusivi.

Esclude l’applicabilità delle sanzioni previste al 348.1-2-3-4-5-6: a) la presenza del consenso informato del soggetto passivo alla prestazione professionale abusiva, avendo conoscenza della mancata abilitazione richiesta dalla legge; b) la totale gratuità della prestazione professionale abusiva o una percezione economica a titolo di offerta ovvero di atto di generosità; c) la conoscibilità dell’altrui posizione professionale abusiva risultante da atto scritto e firmato da entrambe le parti. La punibilità è altresì esclusa in presenza di stato di necessità.

L’inapplicabilità delle sanzioni non esclude l’applicabilità delle misure di sicurezza, avendo riguardo alla pericolosità sociale del soggetto agente, valutata concretamente dal giudice.

Gli atti professionali abusivi possono essere anche desunti con presunzione relativa tramite il giro d’affari dell’attività medesima, fatta salva la prova contraria delle provenienze lecite dei guadagni>>.

Perrotta Giulio

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento