Gli enti pubblici nell’ordinamento comunitario e nella normativa nazionale di finanza pubblica

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1. Introduzione.

A livello comunitario, la nozione di soggetto pubblico non rappresenta una categoria unitaria, ma è elaborata, sia sul piano normativo che giurisprudenziale, settore per settore, adattandosi in modo da estenderne o ridurne l’ampiezza secondo le esigenze sottese alla normativa delle singole materie che prendono in considerazione il soggetto pubblico.

Le diverse esigenze relative all’applicazione dei vari trattati hanno imposto l’affermazione di un concetto di ente pubblico elastico, secondo il quale detti organismi non vengono considerati pubblici in ogni loro sfera di azione e di manifestazione, ma soltanto in determinati settori.

Qui si desidera richiamare l’attenzione su due questioni in particolare. Una, classica e ormai “consolidata”, ma pregiudiziale e attuale per le conseguenze che ne derivano, relativa alla ratio sottesa alle molteplici nozioni “comunitarie” di ente pubblico. L’altra, più recente e specifica, ed ancora non completamente definita a livello giurisprudenziale, relativa alla definizione di ente pubblico al fine dell’applicazione delle norme di finanza pubblica, il cui contenuto deriva indirettamente dall’applicazione dei regolamenti comunitari in materia.

La prima questione trova fondamento nel “principio dell’effetto utile” (art. 10 del Trattato CE) in base al quale “la miglior soluzione del caso concreto deve essere quella più corrispondente al fine che la norma deve perseguire”. Da ciò discende la flessibile nozione di ente pubblico e, più in generale, di pubblica amministrazione, a livello europeo.

In effetti, la definizione di ente pubblico si restringe o si allarga a seconda che essa debba essere utilizzata ai fini dell’accesso ai pubblici impieghi, dell’applicabilità degli effetti delle direttive comunitarie, delle norme sui contratti pubblici e in tema di appalti o dell’applicazione dei regolamenti sul patto di stabilità o sulla procedura per disavanzi eccessivi.

Nel diritto interno, mentre in passato si riteneva che la condizione di ente pubblico fosse uno status permanente, negli ultimi anni si è affermata la c.d. “ logica delle geometrie variabili”1, in base alla quale, almeno nei settori toccati da interventi comunitari, un ente può essere considerato pubblico solo settorialmente, in relazione a determinati ambiti disciplinatori, rimanendo “privato” per altre finalità.

In particolare – e ciò riguarda la seconda questione in esame – quasi tutte le manovre ed altre leggi di finanza pubblica richiamano, al fine dell’individuazione del proprio ambito applicativo, soprattutto dopo l’entrata in vigore della legge 31 dicembre 2009, n. 1962, gli enti di cui all’art. 1, commi 2 e 3, della suindicata legge, come recentemente modificato dal decreto-legge n. 16 del 2 marzo 2012.

Di conseguenza, le relative norme, comprese quelle recanti misure di contenimento della spesa, si applicano, tra l’altro, alle amministrazioni inserite nel conto consolidato, individuate annualmente dall’ISTAT con proprio provvedimento.

Tale diretto richiamo normativo all’elenco in questione rappresenta, in realtà, un aggancio alla nozione comunitaria del “settore delle pubbliche amministrazioni” definito dal regolamento (CE) n. 2223/96 del Consiglio, noto come SEC95. Difatti, come si vedrà in seguito, l’elenco statistico non costituisce un vero e proprio provvedimento amministrativo, ma la semplice – e ormai inevitabile – applicazione nel diritto interno delle definizioni comunitarie.

Peraltro, all’interno di quella che, nel gergo economico comunitario, viene definita “lista S.13”, vi sono numerosi enti di natura giuridica privata, nonché società costituite a norma del codice civile, enti non soggetti alla diretta contribuzione a carico dello Stato e non sottoposti a forme di controllo pubblico diretto. Ciononostante, tutte le nuove leggi di contabilità e finanza pubblica interessano anche tali soggetti.

Di conseguenza, il richiamo normativo implica in concreto l’applicazione, tra l’altro, delle varie norme di contenimento della spesa e di armonizzazione dei bilanci ad una pluralità di enti non rientranti nella classica definizione classica di pubblica amministrazione, ed il cui collegamento con la ratio della contestata normativa non sempre è di facile comprensione.

Tale apparente incongruenza ha dato luogo ad un rilevante contenzioso a livello nazionale, oggetto di decisioni contrastanti da parte della giurisprudenza amministrativa, e tuttora pendente innanzi al Consiglio di Stato, al quale spetta l’arduo compito di chiarire gli aspetti relativi alla natura giuridica (e relativa impugnabilità o meno) del “provvedimento” che traduce a livello nazionale le regole del SEC95 ed alla sindacabilità da parte del G.A. del contenuto di tale atto, di natura strettamente tecnico-statistica.

2. Gli enti pubblici nel diritto comunitario. La poliedrica definizione di pubblica amministrazione.

Dalla definizione normativa di organismo di diritto pubblico, così come fornita dalle diverse direttive in tema di appalti pubblici, non è possibile desumere una concezione comunitaria organica di ente pubblico. A seconda dei vari ambiti disciplinatori, può risultare più funzionale al perseguimento di un determinato obiettivo una nozione ampia piuttosto che ristretta di ente pubblico, per meglio perseguire le finalità essenziali della Comunità.

In effetti, come sopra accennato, nel complesso quadro normativo europeo coesistono diverse definizioni di soggetto pubblico, poiché tale nozione non è intesa come categoria unitaria, ma va elaborata in modo da adattarsi alle esigenze delle singole normative di settore.

Siffatta eterogeneità concettuale traspare in modo evidente se si prendono in considerazione le varie definizioni di persone giuridiche pubbliche fornite dalla Corte di giustizia nei singoli settori e la diversità riscontrabile tra le stesse.

Si pensi, ad esempio, al raffronto tra la definizione di pubblica amministrazione al fine di stabilire l’ambito di operatività della deroga al principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità (art. 45 T.F.U.E., ex art. 39 del Trattato CE3), prevista per gli impieghi nella pubblica amministrazione, e quella elaborata allo scopo di individuare gli apparati degli ordinamenti dei singoli Stati membri nei cui confronti devono considerarsi operanti gli obblighi e i divieti previsti dalle stesse norme comunitarie, sì da poter imputare agli Stati di appartenenza le relative violazioni.

In relazione alla disciplina dei rapporti di lavoro, l’operatività del principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità incontra un limite allorché si tratti di impieghi nella pubblica amministrazione.

In tali ipotesi, la Corte di Giustizia ha fornito una nozione di ente pubblico di natura restrittiva, finalizzata ad erodere i limiti di accesso del lavoratore non nazionale alla prestazione lavorativa4. A tal fine, si escludono dalla nozione di pubblica amministrazione gli enti che svolgono attività di impresa. Inoltre, tale limitazione può essere disposta solo per rapporti di lavoro caratterizzati dall’esercizio diretto o indiretto in senso stretto del potere pubblicistico5.

La Corte, al fine di non riconoscere alle deroghe di cui al citato art. 45 “una portata più ampia di quella connessa al perseguimento del loro specifico scopo”, ha affermato che non sono sussumibili nella nozione di pubblica amministrazione gli enti preposti alla gestione di attività che, pur avendo connotazioni pubblicistiche, rivestono carattere imprenditoriale, quali per esempio i servizi di trasporto o di distribuzione di gas e di energia. Del resto, non sono considerati enti pubblici per tali finalità le società pubbliche e gli enti pubblici economici, poiché essi normalmente non esercitano poteri autoritativi.

In ogni caso, il Giudice comunitario, optando per una accezione restrittiva di pubblica amministrazione, ha sostenuto che la stessa debba essere elaborata ricorrendo ai criteri della “partecipazione diretta o indiretta all’esercizio dei pubblici poteri” o della “tutela degli interessi generali dello Stato e degli enti pubblici”. Pertanto, affinché operi la deroga al principio della libertà di circolazione dei lavoratori è necessario che sussista la titolarità o l’esercizio di compiti di responsabilità da parte del dipendente ovvero la gestione di interessi pubblicistici.

La stessa Corte di giustizia, peraltro, espressamente sottolinea che la nozione di pubblica amministrazione elaborata attraverso il riferimento a quei parametri ha carattere “funzionale”, adattandosi alle esigenze sottese alla normativa di settore. Pertanto, la definizione giurisprudenziale di soggetto pubblico formulata con riferimento alla questione specifica della libera circolazione e dell’accesso agli uffici pubblici non può considerarsi vincolante allorché alla elaborazione del concetto di ente pubblico si proceda in altri settori di incidenza del diritto comunitario.

D’altra parte, non può quella stessa definizione risultare condizionata dalle nozioni, non solo giurisprudenziali, ma anche normative, elaborate o formulate nel dare soluzione ad altre problematiche di rilievo comunitario o nel delimitare l’ambito soggettivo di efficacia di altri atti normativi.

Tra le molteplici definizioni di soggetto pubblico, merita di essere evidenziata anche la dibattuta nozione applicabile in tema di contratti pubblici. In tale settore, invero, la ratio sottesa alla definizione di tali soggetti è quella di obbligare determinati enti pubblici a seguire, per la scelta del contraente, procedure di evidenza pubblica, rispettose dei principi comunitari sulla concorrenza, e che consentano ad ogni operatore economico di partecipare ad una gara senza alcuna discriminazione sulla nazionalità o sulla residenza.

Orbene, in base a tali finalità, è maggiormente rispondente all’esigenza comunitaria di rispetto delle regole sulla concorrenza e di attuazione delle libertà fondamentali di circolazione di capitali, persone e servizi, una nozione ampia di ente pubblico. In tal modo, il diffuso assoggettamento alle procedure pubbliche di scelta del contraente consente anche alle imprese non nazionali di partecipare, senza ostacoli e senza discriminazioni, alla gara. In tale settore, pertanto, la nozione comunitaria di ente pubblico è volta a snidare la natura pubblica reale dell’ente, onde evitare che la struttura formalmente privatistica di un ente costituisca un facile congegno elusivo per liberarsi dai vincoli procedimentali che costringono i contratti delle pubbliche amministrazioni. Di qui la nozione di organismo di diritto pubblico6.

Ancora diversa è la nozione di ente pubblico elaborata dalla giurisprudenza comunitaria in tema di responsabilità dello Stato membro per violazione del diritto comunitario. In effetti, siccome le norme in materia di responsabilità perseguono l’obiettivo di obbligare al rispetto del diritto comunitario i soggetti che sono investiti di funzioni pubbliche, è evidente che tale fine è perseguito efficacemente nella misura in cui tale responsabilità sia imputabile indistintamente a tutti i soggetti che detengono a vario titolo il potere pubblico in senso lato: Stato centrale ed enti periferici, enti autarchici e economici, nonché soggetti privati titolari di pubblici poteri7.

In tal caso, la ratio della definizione è quella di legittimare passivamente ogni soggetto provvisto di una veste pubblicistica sul piano sostanziale, affinché risponda dei danni “cagionati dal non corretto esercizio del potere o della funzione pubblica”.

Emblematico della preferenza accordata dalla Corte di giustizia alle ragioni dell’integrazione, rispetto a quelle della coerenza e dell’uniformità dell’ordinamento, è l’indirizzo seguito nell’ambito della dottrina sull’effetto diretto delle direttive comunitarie.

Una volta che il principio dell’efficacia diretta delle direttive contenenti disposizioni precise ed incondizionate si applica ai soli rapporti c.d. verticali, la giurisprudenza comunitaria ha dovuto procedere alla concreta individuazione degli apparati organizzativi operanti all’interno dei singoli ordinamenti degli Stati membri, nei cui confronti, in quanto non qualificabili come privati, le direttive rimaste inattuate possono essere invocate e possono essere azionate le posizioni giuridiche soggettive fondate sulle stesse8. Al riguardo, la Corte di giustizia sembra adottare criteri di individuazione del carattere pubblico di un ente più elastici e ampi di quanto non faccia in sede di interpretazione del sopracitato art. 45 T.F.U.E.

Sul punto, va ricordato ex multis il precedente del 1989 con il quale la Corte di giustizia, dovendo pronunciarsi sulla natura statale di un ente, quale presupposto di applicabilità nei suoi confronti della direttiva 9 febbraio 1976, n. 207, in tema di discriminazioni fondate sul sesso nelle condizioni di lavoro, ha affermato che “fa comunque parte degli enti ai quali si possono opporre le norme di una direttiva idonea a produrre effetti diretti un organismo che, indipendentemente dalla sua forma giuridica, sia stato incaricato, con un atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest’ultima, un servizio di interesse pubblico e che dispone a questo scopo di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti tra singoli 9.

In particolare, con tale pronuncia il Giudice comunitario ha ritenuto operante l’effetto diretto della direttiva nei confronti della British Gas Corp., un ente britannico costituito dalla legge per la fornitura del gas in monopolio, i cui amministratori, nominati dal ministro competente, erano tenuti al rispetto delle direttive di carattere generale e delle istruzioni attinenti alle modalità gestionali impartite dall’autorità politica.

Chiarito, pertanto, che non è possibile a livello comunitario l’utilizzo di una nozione unitaria di soggetto pubblico, vista la diversità di nozioni in funzione dei diversi obiettivi perseguiti nei singoli settori di incidenza della disciplina europea, si deve tuttavia evidenziare che la ratio che accomuna tale molteplicità di accezioni è l’approccio di tipo sostanziale. Invero, alla individuazione dei soggetti pubblici, non si procede, tanto sul piano normativo quanto su quello giurisprudenziale, alla stregua di criteri formali di definizione, bensì sulla base di parametri di tipo sostanziale, tra cui, in particolare, quello della sottoposizione a dominanza pubblica di carattere funzionale o strutturale.

A tale approccio sostanziale non sono estranee le nozioni di organismo di diritto pubblico e di impresa pubblica rilevanti in sede di delimitazione dell’ambito soggettivo di efficacia rispettivamente della direttiva unificata n. 18/2004 e di quella n. 17/2004 concernente i settori speciali.

Infine, come si evince dall’esame dei più recenti interventi giurisprudenziali, siffatto approccio sostanziale si traduce nella difficoltà di identificare una volta per tutte uno o più dati formali al cui riscontro subordinare la qualificazione del singolo ente in termini di organismo di diritto pubblico.

Pertanto, è necessario piuttosto valutare, caso per caso, le condizioni ed il contesto in cui l’ente espleta la sua attività, sì da verificare se sia o meno effettivamente assoggettato alla regole proprie della competizione economica.

In effetti, solo la sostanziale indifferenza alle leggi del mercato e della competizione economica può innescare quel sospetto che l’ente possa preferire in sede di affidamento delle prestazioni di cui necessita le imprese nazionali discriminando quelle degli altri Stati membri: sospetto sotteso alla imposizione legislativa di precisi metodi di scelta dell’appaltatore10.

3. Il soggetto pubblico nella contabilità comunitaria: il “settore delle pubbliche amministrazioni”.

A livello comunitario, il Trattato di Maastricht ha individuato nell’indebitamento netto e nel debito delle pubbliche amministrazioni gli indicatori di riferimento, al fine di stabilire regole comuni per i paesi membri in tema di finanza pubblica.

Il Patto di stabilità e crescita, in particolare il Regolamento (CE) n. 1466/97 del Consiglio, del 7 luglio 199711, per il rafforzamento della sorveglianza nelle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche, e il Regolamento (CE) n. 1467/97 del Consiglio, del 7 luglio 199712, per l’accelerazione il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi, prendono in considerazione il settore statale al fine di garantire la disciplina del bilancio nell’Unione europea e di stabilire l’ambito entro il quale prevenire e correggere i disavanzi eccessivi.

Attualmente, la definizione di operatore pubblico nella contabilità nazionale (CN)13 fa riferimento alla natura dell’attività economica espletata dai singoli enti, e coincide con la nozione di soggetto pubblico di cui al Regolamento (CE) n. 2223/96 del Consiglio del 25 giugno 1996, relativo al Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella Comunità, noto come “SEC95”14.

Pertanto, nella contabilità nazionale, che classifica in modo univoco ogni unità istituzionale, l’operatore pubblico viene identificato con il cosiddetto “settore delle pubbliche amministrazioni” (S.13) previsto dal citato regolamento comunitario. Tale sistema, al fine di stabilire il settore di appartenenza di ciascuna unità, analizza la natura economica dell’attività esercitata, la funzione che l’unità svolge ed il tipo di relazione economico-finanziaria con le altre istituzioni.

Il regolamento (CE) n. 2223/1996 del Consiglio (SEC95) prevede che “il settore amministrazioni pubbliche (S.13) comprende tutte le unità istituzionali che agiscono da produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita, la cui produzione sia destinata a consumi collettivi ed individuali, e sia finanziata in prevalenza da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori, nonché tutte le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nella redistribuzione del reddito e della ricchezza del paese”.

Le unità istituzionali comprese nel cd. settore S.13 sono: 1) gli organismi pubblici (esclusi i produttori pubblici aventi la forma di società di capitali pubbliche o dotati, in forza di una normativa specifica, di personalità giuridica e le quasi-società, classificate nei settori delle società finanziarie o non finanziarie) che gestiscono e finanziano un insieme di attività, che consistono principalmente nella fornitura di beni e servizi non destinabili alla vendita; 2) le istituzioni senza scopo di lucro dotate di personalità giuridica che agiscono da produttori di altri beni e servizi non destinabili alla vendita, controllate e finanziate in prevalenza da amministrazioni pubbliche; 3) i fondi pensione autonomi, se soddisfano le due condizioni di cui al paragrafo 2.74 del SEC95.

Inoltre, sempre secondo il sopracitato regolamento, il settore delle amministrazioni pubbliche è suddiviso in quattro sottosettori: amministrazioni centrali, amministrazioni di Stati federati (privo di rilevanza nel diritto italiano), amministrazioni locali ed enti di previdenza e assistenza sociale.

Il sottosettore amministrazioni centrali comprende tutti gli organi amministrativi dello Stato e gli altri enti centrali la cui competenza si estende normalmente alla totalità del territorio economico, esclusi gli enti centrali di previdenza e assistenza sociale. Il sottosettore S.1311 comprende anche le istituzioni senza scopo di lucro controllate e finanziate in prevalenza dalle amministrazioni centrali, la cui competenza si estende alla totalità del territorio economico.

Il sottosettore amministrazioni locali comprende gli enti pubblici territoriali la cui competenza si estende ad una parte del territorio economico, esclusi gli enti locali di previdenza e assistenza sociale, nonché le istituzioni senza scopo di lucro controllate e finanziate in prevalenza da amministrazioni locali, la cui competenza è limitata al territorio economico di tali amministrazioni.

Il sottosettore enti di previdenza e assistenza sociale comprende tutte le unità istituzionali centrali, la cui attività principale consista nell’erogare prestazioni sociali, alle quali determinati gruppi della popolazione siano tenuti a partecipare o a versare contributi in forza di disposizioni legislative o regolamentari, la cui gestione sia svolta dalle amministrazioni pubbliche per quanto riguarda la fissazione o l’approvazione dei contributi e delle prestazioni, a prescindere dal loro ruolo di organismo di controllo o di datore di lavoro. Inoltre, il regolamento prevede che, di norma, non vi è alcun legame diretto tra l’importo del contributo versato da un individuo e il rischio cui esso è esposto.

4. Riflessi dei principi comunitari nella legislazione nazionale. In particolare: gli enti considerati pubblici al fine dell’applicazione della normativa nazionale di contabilità e finanza pubblica.

Negli ultimi anni la legislazione italiana, in ossequio al diritto comunitario, si sta aprendo ad una nozione di ente pubblico non statica, ma applicata a casi specifici, in modo da qualificare un ente come pubblico soltanto per particolari finalità. È quanto si verifica, ad esempio, in tema di appalti e di accesso.

Invero, sulla scorta della disciplina comunitaria, anche la legge nazionale comincia a rinunciare ad una definizione unica di ente pubblico, diversificandola a fini settoriali, con la conseguenza che, al di fuori di determinati ambiti taluni soggetti rimangono privati, restando assoggettati alla relativa disciplina privatistica, e non soggiacciono al regime proprio degli enti pubblici.

La nozione più vicina a quella “tradizionale” è indubbiamente quella prevista in tema di pubblico impiego, descritta dall’art. 1, comma 2, del d.lgs 165/2001 secondo il quale si intendono per amministrazioni pubbliche “tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300”.

A tale definizione si affiancano, tuttavia, diverse altre nozioni, a seconda della normativa oggetto di applicazione.

Esempio classico della nuova e “poliedrica” nozione di pubblica amministrazione è la categoria dell’organismo di diritto pubblico, introdotta dalle direttive comunitarie in tema di appalti, al fine di individuare le cc.dd. amministrazioni aggiudicatrici, ovvero i soggetti tenuti al rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte dalla legge comunitaria15.

Difatti, il codice dei contratti pubblici ha recepito in pieno i principi comunitari, sottoponendo alle regole dell’evidenza pubblica anche organismi di diritto pubblico che non sono pubbliche amministrazioni, al fine di assoggettarli alla disciplina sugli appalti.

Allo stesso modo, gli artt. 22 e 23 della l. 241/90 assoggettano alla disciplina dell’accesso non solo i soggetti pubblici, ma anche i soggetti privati gestori di pubblici servizi. In tali ipotesi, l’assoggettamento di tali enti alla disciplina sull’accesso e la devoluzione del relativo contenzioso al G.A. consente di ritenere che, in tema di accesso, tali soggetti debbano considerarsi come pubblici16.

Sotto un altro profilo, sempre in tema di accesso, va ricordato che tale diritto può essere esercitato nei confronti della P.A. anche quando gli atti e i documenti dei quali si chiede la conoscenza riguardino attività di diritto privato, una volta che l’istituto dell’accesso è diretto a perseguire la controllabilità della legittimità dell’azione amministrativa, ove essa incida su interessi di cui è titolare il richiedente. Sul piano applicativo, inoltre, si osserva che la privatizzazione dei rapporti di pubblico impiego non incide sull’ammissibilità del diritto di accesso ad atti o documenti la cui conoscenza riguardi direttamente la tutela di diritti o interessi del richiedente.

Ma l’esempio più evidente di totale scissione tra la nozione classica di pubblica amministrazione e la definizione flessibile, di matrice comunitaria, è la definizione di ente pubblico attualmente applicabile dalla normativa di contabilità e finanza pubblica.

Nell’ambito della procedura sui deficit eccessivi regolata dal Trattato di Maastricht, la definizione del settore statale è quella prevista dal regolamento comunitario sul sistema europeo dei conti, secondo criteri di natura esclusivamente economica e senza prendere in considerazione criteri formali. Tale definizione è utilizzata, nel diritto interno, al fine di individuare le amministrazioni inserite nel conto consolidato. Ciò ha determinato, in tema di contabilità e finanza pubblica, un allargamento della classica nozione di pubblica amministrazione.

Attualmente, l’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 2009, n. 196, nella versione da ultimo modificata dall’art. 5, comma 7, del decreto-legge n. 16/2012, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, prevede che “ai fini della applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendono, per l’anno 2011, gli enti e i soggetti indicati a fini statistici nell’elenco oggetto del comunicato dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) in data 24 luglio 2010, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 171, nonché a decorrere dall’anno 2012 gli enti e i soggetti indicati a fini statistici dal predetto Istituto nell’elenco oggetto del comunicato del medesimo Istituto in data 30 settembre 2011, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 228, e successivi aggiornamenti ai sensi del comma 3 del presente articolo, effettuati sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti dell’Unione europea, le Autorità indipendenti e, comunque, le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni.17

Al comma 3, la norma dispone che la ricognizione delle amministrazioni pubbliche è operata annualmente dall’ISTAT con proprio provvedimento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale entro il 31 luglio18.

In virtù di tale richiamo all’elenco elaborato annualmente dall’ISTAT in attuazione dei criteri previsti dal SEC95, la complessa definizione comunitaria del “settore delle pubbliche amministrazioni” ha dato luogo ad un altrettanto complesso contenzioso amministrativo, tuttora privo di una soluzione univoca, per problemi di tipo applicativo sorti nella zona d’ombra tra il diritto e l’economia.

5. Questioni derivanti dalla definizione dell’ambito soggettivo di applicazione delle leggi nazionali di contabilità e finanza pubblica.

La natura “provvedimentale” attribuita all’elenco statistico in maniera espressa dall’art. 1, comma 3, della L. 196/09 e l’apparente incertezza sui requisiti previsti dal regolamento comunitario per l’inserimento nel settore delle pubbliche amministrazione, hanno contribuito alla nascita di un rilevante contenzioso a livello nazionale, promosso dagli enti che annualmente si vedono inseriti nell’elenco di cui all’art. 1, comma 3, della l. 196/09.

In effetti, siffatta definizione di soggetto pubblico, utilizzata dalle recenti leggi di contabilità e finanza pubblica, ha provocato un ulteriore spostamento della nozione tradizionale, dando luogo a non pochi problemi ermeneutici.

Da un brevissimo excursus sulle più importanti pronunce, è interessante notare come il giudice amministrativo molto spesso abbia accolto i ricorsi diretti all’esclusione degli enti dall’elenco delle pubbliche amministrazioni, sostituendosi direttamente all’Istituto di statistica nella valutazione tecnica sul possesso di taluni requisiti, ed in particolare dei requisiti del controllo e del finanziamento pubblico. Altre volte, il petitum è stato rigettato, in seguito al riscontro, da parte del G.A., dell’effettivo possesso, in capo agli enti ricorrenti, dei suindicati presupposti che, in realtà, come si vedrà in seguito, non sempre sono richiesti per l’inserimento nell’elenco in questione.

Recentemente, con sentenza n. 224 del 2012, il TAR del Lazio ha accolto il ricorso promosso dall’Associazione degli enti previdenziali privati e dalle casse di previdenza privatizzate19, ed ha annullato, nei limiti dell’interesse, l’elenco pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 30 settembre 2011 n. 228. Analogamente, il giudice amministrativo ha ritenuto di escludere dal suindicato elenco anche l’Autorità per Energia elettrica ed il gas20 e l’Autorità per le comunicazioni21, affermando che gli enti in esame non possiedono due requisiti ritenuti indispensabili per l’inserimento nell’elenco: la sottoposizione al controllo pubblico e l’assenza di contribuzione diretta statale. In precedenza, numerosi enti sono stati esclusi dal G.A. dall’elenco in base alla valutazione dei suindicati requisiti22.

Il Consiglio di Stato, in sede cautelare, confermando il precedente orientamento23, ha accolto la richiesta di sospensiva delle suindicate sentenze24, e finora non vi è una pronuncia definitiva sulla vexata quaestio.

Tuttavia, a prescindere dall’esito che potrà avere la decisione definitiva del Supremo Consesso sui singoli casi concreti, sussistono in ogni caso alcune questioni, di ordine generale, che potrebbero avere notevoli ripercussioni sulla delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione delle leggi nazionali di finanza pubblica, e che rischiano di rimanere prive di una soluzione definitiva.

La questione riguarda la natura giuridica dell’elenco delle amministrazioni inserite nel conto consolidato. La legge lo definisce impropriamente “provvedimento”, mentre la natura della ricognizione che si evince dai regolamenti comunitari è strettamente tecnica e statistica, senza alcun margine di discrezionalità.

Sull’argomento, la giurisprudenza degli ultimi anni si è divisa, talvolta qualificando l’elenco quale provvedimento amministrativo vero e proprio, in base a quanto previsto dal dettato normativo, altre volte riconoscendo la sua natura esclusivamente statistica e la conseguente inidoneità a produrre effetti esterni.

Il secondo orientamento è sicuramente più coerente con le finalità dell’elenco de quo, che non rappresenta sostanzialmente un provvedimento amministrativo ma riveste natura esclusivamente certificativa e costituisce un riferimento statistico del tutto inidoneo ad incidere di per sé sulle situazioni giuridiche soggettive degli enti ivi inseriti.

Tuttavia l’elenco, seppur non produttivo di effetti, viene richiamato espressamente dalle leggi in materia di contabilità e finanza pubblica, ed in particolare dalla L. 196/09, a sua volta richiamata da numerose leggi, tra le quali il D.L. 78/10, convertito dalla L. 122/10, il d.lgs 91/2011, in tema di armonizzazione dei sistemi contabili, e le varie norme taglia-enti contenute in diverse manovre, al fine di applicare, agli enti ivi inseriti, le normative di riferimento.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito in più occasioni, in sede cautelare, che “il semplice inserimento in un elenco statistico non appare produttivo di effetti sostanziali”25, in quanto trattasi di una semplice ricognizione effettuata secondo criteri prestabiliti a livello europeo. L’assoggettamento alle misure di contenimento e in generale alle norme di contabilità e finanza pubblica non deriverebbe, pertanto, dal semplice inserimento di un ente nell’elenco, ma direttamente dalla legge, che nel fare riferimento al suindicato elenco richiama (indirettamente) la nozione di settore delle pubbliche amministrazioni di cui al SEC95.

Di conseguenza, sarebbe più corretto l’inquadramento della problematica direttamente nel contenuto della previsione normativa, in quanto è l’uso che la legge fa dell’elenco che produce determinate conseguenze, e non invece il semplice inserimento di une ente nella lista S.13, perché l’applicazione delle norme di contenimento a tali soggetti rappresenta evidentemente una scelta di indirizzo politico, e non deriva direttamente da un atto amministrativo.

Il problema, pertanto, andrebbe meglio inquadrato nell’ottica della logicità e coerenza degli atti normativi, e non, come spesso accade, in termini di legittimità dell’elenco stesso in quanto atto provvedimentale. In tale direzione sembra essersi orientata la giurisprudenza amministrativa, che in alcune recenti pronunce26, nelle quali paradossalmente vengono accolti i relativi ricorsi, afferma espressamente, in relazione agli eventuali danni derivanti dall’inclusione di un ente nell’elenco che “(… )i danni di cui la ricorrente si duole sono imputabili ad una scelta del legislatore nazionale che, con l’art. 6 d.l. n. 78 del 2010, convertito con la l. n. 122 del 2010, ha ritenuto – sulla base di una valutazione ampiamente discrezionale (non essendovi obbligato a livello comunitario) – di utilizzare la nomenclatura ISTAT e, quindi, comunitaria, per individuare i settori della pubblica amministrazione sui quali, a suo avviso, era necessario ed urgente intervenire con misure restrittive della relativa spesa e delle sue ricadute sul bilancio complessivo dello Stato. Segue da ciò che gli effetti delle suddette scelte legislative sono impropriamente imputati all’ISTAT e al suo provvedimento27.

Inoltre, ancor prima dell’entrata in vigore della legge di contabilità e finanza pubblica n. 196/2009, il giudice amministrativo ha affermato che l’art. 1, comma 5 della L. 30 dicembre 2004 n. 311 (cioè la norma che per prima ha individuato nell’elenco S.13 il perimetro dei destinatari dei limiti alla spesa, con la medesima ratio di cui al vigente art. 1, comma 2, della legge 196/2009) “qualifica espressamente come “provvedimento” l’atto impugnato, e quindi dà luogo ad una “delegazione amministrativa” di funzioni pubbliche ad un’amministrazione con specifiche competenze tecniche. Di qui la piena impugnabilità dell’atto28.

Tuttavia, anche se a livello normativo la materia è in continua evoluzione, come si evince dalle recenti modifiche apportate alla suindicata norma dal D.L. n. 16/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, è possibile comunque affermare, anche alla luce delle recenti ordinanze del Consiglio di Stato29, che l’applicazione della normativa in tema di contenimento della spesa non deriva sic et simpliciter dall’inserimento di un ente nell’elenco, ma rappresenta conseguenza diretta dalla legge e, in particolare, dalle scelte di indirizzo politico, in attuazione dei parametri comunitari.

Attualmente, in tutte le pronunce aventi ad oggetto l’annullamento dell’elenco in esame e la conseguente esclusione di uno più enti dello stesso, il giudice amministrativo ha provveduto alla verifica, nei singoli casi concreti, della sussistenza di due requisiti ritenuti essenziali per l’appartenenza al settore S.13: il controllo pubblico e il finanziamento pubblico istituzionale30.

Sul punto, il TAR Lazio31 ha affermato, in particolare che “la nozione comunitaria di “controllo” non s’identifica con quella recepita nel nostro ordinamento, e cioè innanzi tutto controllo sugli atti (in particolare sul bilancio di previsione e sul conto) da parte di un soggetto pubblico sovraordinato, ma si sostanzia nel potere giuridicamente riconosciuto ad un’Amministrazione pubblica di “determinare la politica generale e i programmi” della singola unità istituzionale, cioè di stabilire in via autonoma gli obiettivi che essa è chiamata a raggiungere e le modalità che deve seguire per realizzarli, con atti che in effetti sono di amministrazione attiva, e quindi non verificabili nella loro concreta esistenza con riferimento agli atti di controllo nel significato specifico e nella funzione ad essi assegnati dall’ordinamento nazionale.”

In molte pronunce il giudice amministrativo fa, inoltre, riferimento alla presenza di un secondo requisito: la diretta contribuzione a carico dello Stato, ritenendo fondate le censure laddove gli enti ricorrenti siano finanziariamente autonomi, in grado di provvedere con le proprie entrate a fronteggiare per intero le spese sostenute per l’attività svolta32. Si ritiene, pertanto, necessario e determinante “valutare il rapporto fra spesa complessiva ed entrate proprie dell’ente”.

In altre occasioni, seguendo il ragionamento contrario, pur sempre esaminando la presenza o meno dei presupposti del controllo e del finanziamento pubblico, il TAR Lazio ha ritenuto effettivamente sussistenti tali requisiti in capo agli enti inseriti nell’elenco, rigettando i relativi ricorsi33.

Tuttavia, da un’attenta lettura del regolamento comunitario SEC95, in relazione alla individuazione delle unità istituzionali da includere nel Settore S.13 (amministrazioni pubbliche), si verifica che il regolamento, in realtà, non prevede il controllo pubblico come requisito in relazione agli organismi pubblici (punto 2.69 lettera “a”) ed ai fondi di pensione o enti previdenziali (punto 2.69 lettera “c”).

Pertanto, tale condizione, intesa come la capacità di una pubblica amministrazione di determinare la politica generale e i programmi dell’unità istituzionale, ritenuta indispensabile dal giudice amministrativo nazionale per l’appartenenza al settore, è richiesta dal regolamento comunitario esclusivamente per le istituzioni senza scopo di lucro (par. 2.69 lettera b).

Sul punto, il giudice amministrativo, a proposito dell’art. 1, comma 5, della legge n. 311/2004, ha in precedenza affermato che “la legge non ha realmente introdotto un quid novi, ma ha dato un ulteriore rilievo all’elenco che, nell’ambito degli adempimenti demandati alle autorità statistiche nazionali degli Stati membri, l’Istat già aveva da tempo predisposto ed aggiornato ai sensi del Regolamento CE n. 2223/96 del 25 giugno 1996 del Consiglio relativo al Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella Comunità Ue (c.d. Regolamento SEC 95), per finalità di natura statistico – economica34.

Invero, da un’attenta lettura del suindicato regolamento e del relativo Manuale applicativo, si verifica che l’inserimento nel settore delle pubbliche amministrazioni non presuppone nemmeno la sussistenza di costo diretto per lo Stato ovvero la diretta contribuzione a carico del bilancio dello Stato, che non rappresenta, di per sé, un autonomo criterio di classificazione delle unità istituzionali rientranti nell’elenco delle amministrazioni pubbliche.

Al riguardo, va ricordato che, in relazione alle Autorità indipendenti, molte norme di contenimento della spesa si applicano ad esse a prescindere dal loro inserimento nell’elenco de quo, come l’art. 6 del D.L. 78/10 convertito in L. 122/10, ai commi 3, 7, 8, 9, 12, 13 e 14, secondo cui le misure di contenimento della spesa pubblica si applicano alle amministrazioni inserite nell’elenco di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, “incluse in ogni caso le Autorità indipendenti”. Da ultimo, sempre in relazione alle Authorities, va ricordato che il nuovissimo comma 2 dell’art. 1 della L. 196/2009, come modificato dal D.L. 16/2012, le include espressamente nell’ambito di applicazione delle leggi di finanza pubblica, a prescindere dalla loro presenza o meno nell’elenco delle amministrazioni inserite nel conto consolidato.

Siccome l’elenco delle amministrazioni inserite nel conto consolidato di cui all’art. 1, comma 3, della L. 196/2009 è preso in considerazione, tra l’altro, per l’acquisizione e trasmissione di dati contabili alla Commissione europea, per la realizzazione di stime e per l’analisi dell’incidenza di determinate disposizioni normative, in particolare in tema di contenimento della spesa pubblica, è di tutta evidenza che l’eliminazione di un ente dal relativo elenco fa venir meno la stabilità dei dati contabili acquisiti in relazione al settore delle pubbliche amministrazioni.

Infatti, come sopra accennato, molto spesso il TAR ha dichiarato l’illegittimità del’elenco nella parte in cui esso prevede l’inserimento di determinati enti, rendendo così del tutto instabile la definizione dell’ambito soggettivo di applicazione della normativa di contabilità e finanza pubblica.

E la rilevanza della problematica è ancora più evidente in virtù dell’effetto demolitorio di tali decisioni, una volta che esso elimina la presenza di un ente nell’elenco in maniera retroattiva, vanificando di conseguenza qualsiasi atto che abbia lo preso in considerazione complessivamente, sin dalla sua pubblicazione. In più, la sentenza di annullamento può intervenire anche a distanza di tempo, aggravando il problema relativo all’instabilità dell’ambito soggettivo di riferimento.

La problematica trae origine dalla natura stessa dell’elenco in questione: amministrativa, e non normativa, e quindi soggetta in astratto al sindacato di legittimità. Tuttavia, in un settore, come quello della finanza pubblica, che ha indubbiamente bisogno di stabili parametri applicativi, è auspicabile una definitiva soluzione, a livello normativo o giurisprudenziale, che dia stabilità al settore delle pubbliche amministrazioni a livello nazionale.

6. Conclusioni.

Se è vero che “la miglior soluzione del caso concreto deve essere quella più corrispondente al fine che la norma deve perseguire”, come recita il principio dell’effetto utile, la scelta normativa più adatta, al fine della definizione di “ente pubblico” per l’applicazione delle norme di finanza pubblica, non può prescindere dal doveroso allineamento con la nozione comunitaria applicabile nel relativo settore, una volta che comuni sono gli obiettivi di politica economica da perseguire e comuni sono anche i vincoli di finanza pubblica.

È altrettanto vero che il “fine che la norma deve perseguire” potrebbe anche essere individuato di volta in volta nei singoli casi concreti, dallo stesso legislatore, al fine di non imporre vincoli troppo pressanti in relazione a situazioni che difficilmente implicherebbero l’effettivo raggiungimento degli obiettivi predefiniti.

Del resto, sarà interessante verificare gli effetti dell’applicazione del nuovo comma 2 dell’art. 1 della L. 196/2009, modificato dall’art. 5, comma 7, del decreto-legge n. 16/2012, convertito dalla legge n. 44/2012, che include nell’ambito soggettivo delle disposizioni in materia di finanza pubblica non solo gli enti indicati nell’elenco delle amministrazioni inserite nel conto consolidato, ma anche le Autorità indipendenti, a prescindere dal loro inserimento nel relativo elenco, nonché le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e quindi potrebbe allargarsi il novero dei soggetti destinatari della normativa di finanza pubblica, in quanto alcune categorie di enti pubblici non economici non sono comprese nell’elenco dell’ISTAT.

In ogni caso, nelle more della definizione, a livello nazionale, della questione relativa agli enti appartenenti al “settore delle pubbliche amministrazioni” secondo la doverosa applicazione delle regole tecniche del SEC95, in attesa di un’interpretazione univoca da parte del Consiglio di Stato, una valida soluzione alle varie problematiche derivanti dall’applicazione omogenea dei vincoli finanziari potrebbe pervenire dallo stesso legislatore che, di volta in volta, potrebbe ampliare o restringere l’ambito soggettivo di applicazione delle varie misure secondo le finalità effettivamente perseguite dai singoli atti normativi.

Si auspica, infine, che la nozione di pubblica amministrazione nella normativa nazionale di finanza pubblica possa – finalmente – acquisire maggiore stabilità concettuale anche nel diritto interno, poiché la ratio della classificazione comunitaria è quella tutelare il sistema europeo dei conti dall’instabilità dei concetti amministrativi, ritenuti poco idonei per l’analisi economica e la valutazione della politica economica, poiché, come recita il Manuale del SEC95, i concetti economici sono “stabili nel tempo e ben definiti” mentre i concetti amministrativi “cambiano nel tempo”, ed è proprio tale continuità concettuale che riduce la vulnerabilità dei concetti del SEC alle pressioni politiche nazionali e internazionali (cfr. par. 1.10 e 1.11, All. A Regolamento CE n. 2223/96).

1 In tal senso: CARINGELLA, F. Manuale di diritto amministrativo, 4° ed., Dike ed., p. 594.

2 in precedenza, l’elenco delle amministrazioni era disciplinato dall’art. 1, comma 5, della legge 311/2004, il quale prevedeva che “Al fine di assicurare il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica stabiliti in sede di Unione europea, indicati nel Documento di programmazione economico-finanziaria e nelle relative note di aggiornamento, per il triennio 2005 – 2007 la spesa complessiva delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato, individuate per l’anno 2005 nell’elenco 1 allegato alla presente legge e per gli anni successivi dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) con proprio provvedimento pubblicato nella Gazzetta Ufficiale non oltre il 31 luglio di ogni anno, non può superare il limite del 2 per cento rispetto alle corrispondenti previsioni aggiornate del precedente anno, come risultanti dalla Relazione previsionale e programmatica”. In seguito all’entrata in vigore di tale previsione normativa, le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato sono state individuate nell’elenco di cui al Comunicato ISTAT del 29 luglio 2005 (Gazzetta ufficiale del 29 luglio 2005, n. 175), al Comunicato ISTAT del 28 luglio 2006 (Gazzetta ufficiale del 28 luglio 2006, n. 174), al Comunicato ISTAT del 31 luglio 2007 (Gazzetta ufficiale del 31 luglio 2007, n. 176), modificato dal Comunicato ISTAT del 29 ottobre 2007 (Gazzetta ufficiale del 29 ottobre 2007, n. 252), al Comunicato 31 luglio 2008 (Gazzetta Uff. 31 luglio 2008, n. 178) e al Comunicato 31 luglio 2009 (Gazzetta ufficiale del 31 luglio 2009, n. 176). Sul punto, v. l’art. 14-viciesquinquies, D.L. 30 giugno 2005, n. 115, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione, l’art. 11-ter, D.L. 30 settembre 2005, n. 203, aggiunto dalla relativa legge di conversione e gli artt. 9 e 17, comma 8, D.L. 1° luglio 2009, n. 78. Attualmente la disposizione di riferimento è l’art. 1, commi 2 e 3, L. 31 dicembre 2009, n. 196.

3 Nella versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, l’art. 45 prevede che: “1. La libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è assicurata.

2. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.

3. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto:

a) di rispondere a offerte di lavoro effettive;

b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri;

c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali;

d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l’oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego.

4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione.”

4 Cfr., ex multis, Corte Giust. CE, 30 maggio 1989, causa C-33/88, in Racc., 1989, 1591.

5 Sul punto, v. art. 38 d.lgs 165/2001.

6 Sulla nozione di organismo di diritto pubblico la Corte giustizia CE, sez. VI, 15 maggio 2003 n. 214, in Foro amm. – CdS, 2003, 1489, ha affermato che: “il carattere privatistico di un organismo non costituisce motivo per escludere la qualificazione dello stesso come amministrazione aggiudicatrice ai sensi dell’art. 1 lett. b) delle direttive 92/50, 93/36 e 93/37 e, pertanto, dell’art. 1 n. 1 della direttiva 89/665. L’effetto utile della direttiva 89/665 non sarebbe preservato qualora l’applicazione della relativa disciplina potesse essere esclusa con riferimento a quegli organismi che, in base alla disciplina nazionale, sono costituiti e regolati nelle forme e secondo il regime del diritto privato”.

7 Cfr. CARINGELLA F. Manuale di diritto amministrativo, cit.

8 R. GAROFOLI- M.A. SANDULLI, Il nuovo diritto degli appalti pubblici dopo la direttiva unificata n. 18/2004, Giuffrè, 2005.

9 Sent. 12 luglio 1989, in causa 188/89, Foster c. British Gas, in Racc., 1990, I-3133 (domanda vertente sull’ interpretazione della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’ attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’ accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro ( GU L 39, pag . 40).

10 R. GAROFOLI- M.A. SANDULLI, Il nuovo diritto degli appalti pubblici dopo la direttiva unificata n. 18/2004, cit.

11 G.U.C.E. 209 del 2.8.1997, p. 1.

12 G.U.C.E. 209 del 2.8.1997, p. 6.

13 Sul punto v. “I principali saldi di finanza pubblica: definizioni, utilizzo, raccordi”, a cura di Balassone F., Mazzotta B., e Monacelli D., Servizio Studi della Ragioneria Generale dello Stato, luglio 2008.

14 Cfr. Eurostat, Sistema europeo dei conti 1995 – Sec95, Lussemburgo, Eurostat, 1996.

15 cfr. direttive nn. 17 e 18/2004, recepite nel d.lgs 163/2003, all’art. 3, comma 26, secondo il quale: “L’«organismo di diritto pubblico» è qualsiasi organismo, anche in forma societaria: istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; dotato di personalità giuridica; la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico.”

16 in tal senso: CARINGELLA F., op. cit., p. 596.

17 Comma così sostituito dall’art. 5, comma 7, D.L. 2 marzo 2012, n. 16.

18 Il decreto-legge 06.07.2011 n° 98 , pubblicato nella G.U. 06.07.2011, convertito con modificazioni dalla legge 15.07.2011 n° 111, ha previsto, all’art. 10, comma 16, che all’articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, le parole: “entro il 31 luglio” sono sostituite dalle seguenti: “entro il 30 settembre”.

19 TAR Lazio n. R.G. 9979/2011 – sent. 224/12.

20 v. TAR Lazio sentenza n. 225 del 2012, depositata in data 11 gennaio 2012, rg. n. 9981/2011.

21 v. TAR Lazio, sentenza n. 226 del 2012, depositata in data 11 gennaio 2012 – rg. n. 9986/2011.

22 v. a titolo esemplificativo, le sentenze del TAR Lazio nei procedimenti nn.: 10395/2010 10345/2010, 10536/2010, 10347/2010, 10342/2010, 10357/2010, 10352/2010, 10349/2010, 10351/2010, 10339/2010, 10355/2010, 10285/2010, 10344/2010, 10340/2010, 10348/2010, 10354/2010, 10346/2010, 9621/2010, 10650/2010, 9981/2011, 9986/2911, 9979/2011.

23 v. Consiglio di Stato, ordinanza n. 3695/08, rg. n. 5023/08, e ordinanza n. 975/2011, rg. n. 357/2011.

24 v. ord. reg.prov.cau. n. 1215/2012, n. 1216/2012, n. 1217/2012 e n. 1218/2012 della 6° Sezione del Consiglio di Stato.

25 In tal senso v. Consiglio di Stato, ordinanza n. 3695/08, rg. n. 5023/08, e ordinanza n. 975/2011, rg. n. 357/2011.

26 V. TAR Lazio 12/07/2011, sentenza n. 6213/2011, rg. n. 10345/2010; TAR Lazio 12/07/2011, sentenza n. 6209/2011, rg. n. 10395/2010; TAR Lazio 12/07/2011, sentenza n. 6206/2011, rg. n. 10346/2010.

27 Nello stesso senso v. anche TAR Lazio, sentenza n. 3048/2012, rg. 10062/2010, con la quale è stato invece rigettato il ricorso promosso da ANCI e UPI.

28 In tal senso: TAR Lazio 14/02/2007, sentenza n. 4826/07, rg. 10676/2006.

29 V. ordinanze n. 3695/2008, rg. 5023/2008; n. 975/2011, rg. 357/2011. Da ultimo tale orientamento è stato ribadito con le ordinanze del 26/03/2012, nell’ambito dei procedimenti nn. rg.: 1434/2012, 1436/2012, 143/2012 e 1439/2012.

30 V. le sentenze del TAR Lazio nei procedimenti nn. rg.: 10395/2010 10345/2010, 10536/2010, 10347/2010, 10342/2010, 10357/2010, 10352/2010, 10349/2010, 10351/2010, 10339/2010, 10355/2010, 10285/2010, 10344/2010, 10340/2010, 10348/2010, 10354/2010, 10346/2010, 9621/2010, 10650/2010, 9981/2011, 9986/2911, 9979/2011, nonché sul mancato possesso dei requisiti: rg nn. 9867/2010, 10062/2010.

31 Cfr. sentenza n. 224/2012 – Associazione degli enti previdenziali privati ed altri c. ISTAT, MEF, PCM, Min. Lavoro.

32 nella sentenza n. 224/2012, il TAR Lazio ha dichiarato che: “Parimenti fondata è la censura afferente alla completa autonomia finanziaria delle Casse ricorrenti, che si manifesta con la capacità delle stesse di provvedere con le proprie entrate a fronteggiare per intero le spese sostenute per l’attività svolta, sicché manca il presupposto che in coerenza con le finalità perseguite potrebbe giustificare il loro inserimento nell’elenco Istat, e cioè un costo per la finanza pubblica e per il bilancio dello Stato che va contenuto. L’autonomia finanziaria delle ricorrenti, le fonti dalle quali discendono le loro entrate (id est i contributi ad essa obbligatoriamente versati dagli iscritti ai fondi di previdenza sostitutivi di quello generale I.V.S.), la possibilità di intervenire per garantirne nel tempo la corrispondenza alle uscite sono tutti elementi legislativamente fissati, e, quindi, incontestabili. Segue da ciò che non è configurabile una spesa che la finanza pubblica potrebbe in futuro essere costretta a sopportare per assicurare il pareggio di bilancio delle ricorrenti atteso che a questo fine esse sono già state fornite dal legislatore di strumenti propri per provvedere in via autonoma”.

33 TAR Lazio – rg nn. 9867/2010, 10062/2010.

34 in questi termini, T.A.R. Lazio Roma Sez. III quater, 25-05-2007, n. 4826.

Fernanda Ballardin

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