Gli ATO in Sicilia possono fallire?

Greco Massimo 06/11/08
Scarica PDF Stampa
Il problema della gestione dei rifiuti in Sicilia è ancora irrisolto e se il legislatore non provvede con urgenza a determinare ope legis la liquidazione delle attuali società d’ambito ed il contestuale passaggio delle Autorità Territoriali Ottimali in capo ai nuovi soggetti consortili, il rischio di aggrovigliare l’intero sistema è più che reale. Tra le tante questioni che riguardano la materia ve né una che ancora oggi non è stata né affrontata né prevista e concerne l’ipotesi di una procedura fallimentare a cui andrebbero incontro alcune società d’ambito che non dovessero riuscire a reggere la gestione delle rispettive strutture né, tanto meno, aspettare l’intervento del legislatore.
 
Il quesito che si pone è semplice: la società d’ambito che si occupa della gestione dei rifiuti in Sicilia è sottoposta al regime fallimentare o gode anch’essa dei così detti “istituti di privilegio” che sottraggono l’ente pubblico all’applicazione di determinate norme di diritto comune?
 
Se infatti la società d’ambito, a totale partecipazione pubblica, rientra nel novero delle società per azioni disciplinate dal Codice Civile la risposta non può che essere affermativa. Viceversa se la società d’ambito, pur avendo una struttura formalmente di diritto privato, è da considerarsi sostanzialmente ente pubblico, la risposta non può che essere negativa. Infatti, quanto all’attività di diritto comune svolta dall’Ente Pubblico, essa è oggetto di una disciplina speciale, volta ad assicurare il rispetto dei principi di imparzialità e di economicità nella scelta del contraente. Basti pensare alla sottrazione al fallimento, stabilita dall’art. 2221 c.c. e dalla legge fallimentare per gli enti pubblici che esercitano attività di impresa, ed alla ritenuta inapplicabilità alle Pubbliche Amministrazioni dell’art. 1181 c.c., cosicché il creditore privato non può rifiutare un adempimento parziale, evenienza possibile allorché in bilancio non sia stanziata una somma sufficiente a pagare l’intero debito.  
 
Definire con certezza se trattasi di enti pubblici, solo formalmente privati, o viceversa di enti sostanzialmente privati, come sopra accennato, è di fondamentale importanza anche sotto il profilo delle implicazioni in punto di giurisdizione.
 
Per cercare di rispondere al quesito occorre fare alcuni passi indietro lungo il percorso delle privatizzazioni e su quello connesso del concetto evolutivo di Pubblica Amministrazione o di Ente Pubblico.
 
 Una elencazione esaustiva delle Pubbliche Amministrazioni nel nostro ordinamento è contenuta nell’art. 1, comma 2, del D.Lgs 30/03/2001 n. 165 recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”. Oltre a quelle tipizzate, la norma fa un generico riferimento a “tutti gli enti pubblici non economici”. L’individuazione di questi enti appare riservata all’ordinamento positivo. Tuttavia, neppure la qualificazione operata dalla legge risulta sempre decisiva. Diversi sono i casi di enti espressamente qualificati dalla legge pubblici o privati e diversamente dichiarati dalla giurisprudenza giusto insegnamento della Corte Costituzionale (Corte Cost. 7/04/1988 n. 396). Emerge quindi che un Ente Pubblico è quello che, al di là della definizione normativa, possa comunque essere ritenuto tale, nel senso che le definizioni non vincolano l’interprete, il quale dovrà determinare la natura dell’ente indipendentemente dalla sua denominazione, per cui la stessa qualificazione esplicita è irrilevante se in contrasto con l’effettiva natura (Dauno Trebastoni, “Identificazione degli enti pubblici e relativa disciplina”, Giustizia-Amministrativa.it, 07/05/2007).
 
La tradizionale impostazione di Pubblica Amministrazione è stata travolta attraverso le così dette privatizzazioni. Con la privatizzazione è infatti accaduto che alcuni servizi pubblici – pur ritenuti essenziali – siano stati affidati a società per azioni le cui quote risultano di pertinenza prevalente, se non esclusiva, di enti pubblici. “La giurisprudenza ha così dovuto prendere atto della esistenza di società per azioni che costituiscono <<istituzione pubblica>> affermandone la giurisdizione della Corte dei Conti. “Ed invero, come rilevato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 466/1993, si assiste ad uno stemperamento della dicotomia tra ente pubblico e società di diritto privato. Tale stemperamento si desume: dal crescente impiego della società per azioni per perseguire finalità di interesse pubblico; dall’adesione comunitaria ad una nozione sostanziale d’impresa pubblica; dall’accertata impossibilità di individuare nelle nuove società per azioni derivate dai precedenti enti pubblici connotazioni proprie della loro originaria natura pubblica. Con particolare riferimento alla nozione di impresa pubblica di matrice comunitaria, occorre precisare che la nozione europea di pubblica amministrazione, cui consegue l’obbligo di applicare la disciplina della evidenza pubblica e i relativi principi comunitari, si fonda su di una nozione sostanziale di organismo di diritto pubblico individuato sulla base di tre parametri tutti necessari: possesso della personalità giuridica; il fine perseguito costituito dal perseguimento di bisogni di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale; la sottoposizione ad un’influenza pubblica dominante” (Ferruccio Capalbo, Le privatizzazioni di enti pubblici dopo la legge n. 178/2002, Giust.it n. 9-2002).
 
Dunque la qualificazione di un ente come società di capitali non è di per sé sufficiente ad escludere la natura di istituzione pubblica dell’ente stesso, ma si deve procedere ad una valutazione concreta in fatto, caso per caso” (Cass. sez unite civ. sent. 3/05/2005 n. 9096). “Queste circostanze dimostrano che, a differenza di quanto accadeva in passato, venuti meno i vincoli interpretativi ad una concezione <<allargata>> di pubblica amministrazione, quella che oggi risulta favorito non è la soggettività in sé (ossia l’elemento formale), quanto piuttosto la tipologia di attività svolte e la capacità a svolgerle (dunque, l’elemento sostanziale)” (Sgueo Gianluca, Diritto.it, 02/11/2006).
“La nozione di <<ente pubblico>> come nozione unitaria (come quella che designa una serie di fattispecie accomunate da una disciplina generale) è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, pur supportata da una produzione dottrinale assai nota” (Cerulli Irelli, “Ente Pubblico: problemi di identificazione e disciplina applicabile, in Cerulli Irelli e Morbidelli (a cura di), Ente pubblico ed enti pubblici, Torino, 1994, 89). Quindi, l’identificazione in concreto dell’ente pubblico laddove incerta deve essere fatta analizzando la disciplina giuridica propria di esso (gli elementi di disciplina certi); ricavando da questi elementi, in base a parametri normativamente predeterminati, l’essere pubblico dell’ente. “In buona sostanza, l’indagine sulla natura di tali società deve essere svolta privilegiando gli aspetti sostanziali rispetto al dato meramente formale costituito dalla configurazione giuridica dell’ente, secondo un modus procedendi che è tipico del diritto comunitario” (Maria Teresa Sempreviva, in “I Succedanei dell’Ente Pubblico nell’epoca delle privatizzazioni”, Rivista Trimestrale degli Appalti n. 4/2000, Maggioli Editore).
“In effetti, si è andato consolidando in questi ultimi anni nella giurisprudenza nazionale – in linea con il concetto di impresa pubblica elaborato a livello comunitario, il cui elemento caratterizzante è l’influenza dominante dei pubblici poteri, prescindendo dalla natura formale -, l’orientamento della prevalenza degli aspetti pubblicistici sostanziali sulla forma privatistica ai fini della qualificazione di un soggetto. Si è quindi affermato che una s.p.a. a totale capitale pubblico è privata esclusivamente per la forma giuridica assunta, ma sul piano sostanziale essa, visto che continua ad essere sotto l’influenza pubblica, è assimilabile ad un ente pubblico. Anche la dottrina ha osservato che le società a capitale pubblico, derivanti dalle privatizzazioni dei precedenti enti pubblici, presentano caratteristiche di specialità rispetto al modello tradizionale di società commerciali” (Ufficio legislativo e legale della Regione Siciliana, Parere n. 353/2005).
La problematica connessa a tale modello di società nell’epoca delle privatizzazioni pone una serie di interrogativi, con particolare riferimento alla compatibilità della missione pubblica con la causa privatistica, dell’equiparabilità all’Ente Pubblico, anche con riguardo ai profili di costituzionalità della disciplina e del riparto giurisdizionale delle controversie relative agli atti di gestione (Antonio Catricalà, I Succedanei dell’Ente Pubblico nell’epoca delle privatizzazioni, “Rivista Trimestrale degli Appalti n. 4/2000”, Maggioli Editore).
“Al riguardo è d’obbligo richiamare due pronunce che rivestono fondamentale importanza nel dibattito nazionale sviluppatosi attorno al tema della configurabilità di enti pubblici a struttura societaria. La prima è quella con cui la Corte Costituzionale (sentenza n. 466 del 28/12/1993) – successivamente alla trasformazione in società per azioni degli enti di gestione delle partecipazioni statali e degli enti pubblici economici per effetto dell’art. 15 del D.L. 11/07/1992, n. 333, convertito nella legge 8/08/1992, n. 359-, ha affermato che persiste l’assoggettamento al controllo della Corte dei Conti delle società in questione finchè le stesse continuano ad essere detenute, in modo esclusivo o maggioritario, dallo Stato…………..sì da indurre a riconoscere la loro natura di società di <<diritto speciale>>, tale da legittimare la compatibilità tra il controllo previsto dal citato art. 12 e la disciplina relativa alle <<privatizzazioni>>. L’altro dictum giurisprudenziale volto ad evidenziare come anche in ambito nazionale la veste societaria non costituisca più elemento aprioristicamente ostativo alla connotazione pubblicistica dell’ente, è quello con il quale il Consiglio di Stato (sez. VI, 20/05/1995, n. 498), hanno statuito che, nonostante l’intervenuta privatizzazione formale, i contratti stipulati dalla s.p.a Ferrovie dello Stato sono assoggettati alle procedure dell’evidenza pubblica e le relative controversie appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo: più specificatamente, in tali fattispecie <<l’adozione della forma societaria si presenta come modulo per rendere l’attività economica più efficace e più funzionale, fermo restando che l’impresa mantiene sotto molteplici profili uno spiccato rilievo pubblicistico>>. L’esclusione della riconducibilità del modello societario alla categoria soggettiva in questione sull’assunto della incompatibilità di alcuni elementi tipici dell’organismo societario – tra cui il fine di lucro e la natura economica dell’attività esercitata – e la connotazione pubblicistica che caratterizza, invece, la figura giuridica coniata dal diritto comunitario, non tiene conto dell’evoluzione del dibattito sviluppatosi in ambito nazionale ove vi è spazio per la qualificazione ad enti pubblici, o a connotazione pubblicistica, di soggetti aventi veste societaria. Tanto più che la nozione di organismo di diritto pubblico, com’è noto, si fonda su parametri di gran lunga più sostanziali ed elastici di quelli, sovente di carattere formale, utilizzati dall’ordinamento interno al fine di ricostruire la figura dell’ente pubblico” (Maria Teresa Sempreviva, “Le società per la gestione dei servizi pubblici locali”, “Rivista Trimestrale degli Appalti n. 4/2000”, Maggioli Editore).
Peraltro, la giurisprudenza (Cons. St., sez. V°, 1/04/2000, n. 2078; sez. VI, 4/04/2000, n. 1948; sez. VI, 1/04/2000, n. 1885), ritiene che la veste imprenditoriale ed anche l’eventuale caratterizzazione lucrativa di un soggetto non ostano alla qualifica in termini di organismo di diritto pubblico, e, quindi all’equiparazione agli enti pubblici del diritto interno ai fini della natura pubblica dei relativi atti e alla conseguente emersione della giurisdizione amministrativa. Ancor prima, aderendo alla nozione sostanziale di Pubblica Amministrazione, il Consiglio di Stato, con la decisione n. 498 del 20/05/1995 della VI sez., affermava che in linea di massima “tali società, affidatarie della cura di rilevanti interessi pubblici, conservano inalterata la propria connotazione pubblicistica con la conseguenza che malgrado la trasformazione sono destinate a rimanere pubbliche”. Lo stesso Consiglio di Stato ha altresì affermato che ”…il fenomeno dell’azionariato pubblico e, più in generale, della costituzione di società lucrative da parte della p.a., non si radica esclusivamente nella disciplina di diritto comune, ma presenta aspetti di diritto speciale, connessi al fatto che l’amministrazione, nella sua veste di azionista di una società formalmente di diritto civile, non può che indennizzare le attività societarie a fini di interesse pubblico generale, che fanno assumere alle stesse attività i caratteri della funzione amministrativa e valenza oggettivamente pubblicistica” (Consiglio di St. sez. II°, 20/06/2001 parere n. 1428/2000). Ancora, “una società è da considerarsi pubblica quando sussistono regole di organizzazione e funzionamento che, oltre a costituire una consistente alterazione del modello societario tipico (comprendendo una compressione delle autonomie funzionale e statutaria degli organismi societari), rivelino, al tempo stesso, la completa attrazione nell’orbita pubblicistica dell’ente societario” (Cons. St. sez. VI, n. 1303/2002).
Illuminante appare anche la sentenza della Cassazione penale secondo cui, “Il momento d’individuazione della natura pubblica di un ente non va ricercato negli scopi da esso perseguiti (dal momento che mentre alcuni enti privati perseguono finalità cui tende lo Stato stesso, come quelle relative all’istruzione e al credito, quest’ultimo, a sua volta, interviene frequentemente in concorrenza con i privati in attività di natura privatistica, come nel campo dell’economia e della produzione), ma nel regime giuridico dello stesso nonché nella sua collocazione istituzionale in seno all’organizzazione statale, come organo ausiliario necessario al raggiungimento di finalità di interesse generale e, in quanto tale, dotato di poteri e prerogative analoghi a quelli dello Stato e assoggettato ad un intenso sistema di controlli pubblici. I caratteri sopa indicati si riscontrano negli automobil clubs provinciali, ai quali pertanto deve riconoscersi la natura di enti pubblici, con la conseguenza che i funzionari di tali enti sono pubblici ufficiali e pubblici sono gli atti da essi posti in essere nell’esercizio delle loro funzioni” (Cass. Pen. Sez. V°, 14/04/1980, in Cass. Pen, 1981, 1541).
Per una parte della dottrina “Quelle che comunemente vengono chiamate società a partecipazione pubblica non sono una terza specie di enti pubblici: sono invece società per azioni nelle quali azionista, unico, di maggioranza o di minoranza, è l’ente pubblico. Si tratta, cioè, di una species del genus società per azioni (di diritto privato)” (Guido Corso, L’attività amministrativa, Torino, 1999, 156).
Anche la Corte dei Conti si è adeguata da tempo al suddetto indirizzo affermando, a proposito della privatizzazione delle Poste, che al di là della formale connotazione come soggetto di diritto privato le Poste Italiane s.p.a., sono parte integrante della Pubblica Amministrazione e valgono per essa le argomentazioni valide per gli enti pubblici economici. Più recentemente è stato affermato che “A seguito della diffusione nel settore pubblico del modulo societario, deve ritenersi che il criterio da utilizzare per individuare la natura pubblica o privata di un organismo non è dato dalla forma rivestita (ente o società), bensì dalla caratura pubblica dello scopo perseguito e dalle risorse utilizzate nello svolgimento della sua attività, con la conseguenza che anche in presenza della forma societaria se l’ente utilizza risorse pubbliche è da considerare senz’altro ente pubblico, con effetti sulla finalizzazione dell’attività e sul regime delle responsabilità” (Corte dei Conti, sez. controllo Reg. Lombardia, delib. 18/10/2007 n. 46).
“A livello comunitario, con il Regolamento CE 2223/96 del Consiglio, in data 25 giugno 1996, relativo al sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella comunità 8SEC 95), il Consiglio della Comunità economica europea ha modificato il Sistema Statistico europeo, varando nuove definizioni e regole di calcolo delle grandezze relative alla finanza pubblica denominate SEC 95, ed applicabili in ogni Stato. All’interno del SEC 95, che ha valore normativo primario poiché è stato approvato, come si è detto con un regolamento del Consiglio delle comunità europee, si ritrova una precisa nozione di Amministrazione Pubblica (seppur al limitato fine della disciplina settoriale esaminata), laddove è precisato che sono da considerare Amministrazioni Pubbliche <<tutte le unità istituzionali che agiscono da produttori di beni e servizi non destinati alla vendita, la cui produzione è destinata a consumi collettivi e individuali ed è finanziata in prevalenza da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori e/o tutte le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nella ridistribuzione del reddito e delle ricchezze del paese>>. Deve considerarsi ente pubblico, pertanto, qualsiasi soggetto che indipendentemente dalla forma giuridica assunta utilizzi in prevalenza per lo svolgimento dell’attività per cui è costituito risorse pubbliche, anziché private. Ne consegue che, anche a livello europeo, al fine di individuare la natura di un ente non è rilevante la forma giuridica che viene data al medesimo, ma le risorse che utilizza per lo svolgimento della sua attività” (Giuseppe Naimo, “L’incidenza del diritto comunitario sulle nozioni di a) organismo di diritto pubblico; b) impresa pubblica. Gli enti pubblici in forma societaria, DirittodeiServiziPubblici.it, 14/04/2008).
Tornando al caso in specie, è necessario indagare sulla genesi della società d’ambito al fine di attribuirle la giusta qualifica.
L’attribuzione della titolarità delle risorse per la gestione dei rifiuti è avvenuta in applicazione di quanto stabilito dal Commissario delegato per l’Emergenza rifiuti nella Regione Sicilia che, in merito, ha previsto come obbligatoria la gestione dei rifiuti in Ambito Territoriale Ottimale (A.T.O.) a mente dell’art. 233 del Dlgs n. 22/97, secondo le modalità ivi pure stabilite (Ordinanza n. 488 dell’11/06/2002 e n. 1069 del 28/11/2002). “Nella rinnovata prospettiva comunitaria in materia di gestione dei servizi pubblici facenti capo agli enti locali, la nuova normativa predilige – in luogo delle gestione diretta del servizio – una gestione ottimale per ambiti territoriali omogenei per il tramite di società d’ambito: la cui istituzione, coinvolgendo direttamente gli Enti Locali interessati, non può ritenersi lesiva della rispettiva sfera di autonomia. In conformità ai principi comunitari di adeguatezza ed efficienza dell’organizzazione del servizio di che trattasi (unitamente alla nuova rilevanza del principio della concorrenza nel settore della erogazione dei servizi pubblici) la nuova normativa si propone il superamento del modello della gestione frammentaria per singoli ambiti comunali, prevedendo forme anche obbligatorie di cooperazione tra gli enti locali (Tar Palermo, sez. I°, sent. 10/05/2006, n. 1061).
La responsabilità della gestione, quindi, con gli atti in esame, è stata affidata alla società d’ambito, che è organismo avente propria personalità giuridica, costituito per effetto obbligatorio di norme di legge e provvedimenti commissariali adottati in regime di emergenza di protezione civile, tra Enti pubblici locali territoriali ed è deputato alla cura di predominanti interessi pubblici. Le richiamate disposizioni realizzano un vero e proprio trasferimento di funzioni con relativo mutamento nella titolarità del potere, che dal Comune “trasla”, in via amministrativa, in capo all’Ente pubblico appositamente costituito. Pertanto, tra Comune ed ATO si deve quindi considerare il rapporto come una vera e propria successione tra Enti, sia pure permanendo in capo all’originario titolare della funzione una ridotta potestà (avente soprattutto natura partecipativa all’esercizio del potere da parte del nuovo titolare” (TAR Catania, sez. I°, sent. n. 1993/2006). 
A riprova di ciò si consideri che il Comune non ha la possibilità giuridica di “riacquisire” il servizio, sottraendosi alla società d’ambito e gestendo in proprio. Con riguardo, infatti all’art. 120 della Costituzione, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che “il principio di leale collaborazione tra gli enti è stato enucleato dalla Corte costituzionale con riferimento allo svolgimento dei diversi rapporti di rango costituzionale tra Stato e regioni, pur tuttavia la relativa applicazione non può condurre a situazioni di stallo decisionale che possano compromettere gli interessi pubblici oggetto delle decisioni da assumere, ed il rispetto di detto principio non può legittimare comportamenti che tendono a paralizzare la costituzione degli A.t.o. (….) (TAR Catania, sez. I°, sent. n. 1974/2003). “Il Comune, quindi, non ha più funzioni impositive, non ha poteri di regolamentazione autonoma dello stesso, disponendo per il proprio territorio una eventuale organizzazione difforme da quella dell’ambito; tutte le funzioni residuali che gli permangono per effetto dell’art. 23 del Dlgs. n. 22/97, il Comune li esercita obbligatoriamente <<nella>> società d’ambito, come socio nell’Assemblea. La società d’ambito, quindi, è una modalità di gestione di un servizio attribuito in forma associativa e collettiva in capo a tutti gli Enti dell’ambito ottimale, con modalità avente natura e carattere obbligatorio, per via dell’avvenuto commissariamento emergenziale della Regione e degli Enti locali regionali in materia di rifiuti. A riprova di tale argomentazione, si osserva che sono state infatti trasferite alla società d’ambito anche le risorse e le funzioni amministrative dell’Ente, nonché (soprattutto) la titolarità dei poteri coattivi di imposizione e riscossione della tariffa; ed infine si è previsto espressamente che alla data di attivazione del servizio da parte della società d’ambito, le funzioni comunali in ordine al servizio vengono a cessare. Tale società è costituita per legge e non in base ad un patto societario, opera come strumento per il perseguimento di specifiche finalità stabilite nell’ambito di politiche ministeriali ed inoltre ad essa sono affidati obbligatoriamente determinati compiti previsti dalla legge.  
   Nel caso in esame ci si trova di fronte ad un ulteriore esempio del c.d. processo di “privatizzazione formale” (che si distingue dalla vera privatizzazione che implica la totale dismissione delle proprietà e delle attività) in quanto qui la trasformazione concerne esclusivamente la soggettività dell’amministrazione pubblica, cui si consente di perseguire le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato. Trattasi, pertanto, di società che ha formalmente natura giuridica privata ed autonomia privata, ma che svolge attività pubblica non dissimile da quella che svolgevano i Comuni quali enti pubblici prima di cedere la titolarità del servizio.
 
 La società d’ambito (di diritto speciale) interamente nella mani pubbliche non evidenzia, pertanto, una causa lucrativa ex art. 2217 cod. civ., ma continua ad agire per il perseguimento di finalità pubblicistiche.
 
Per un caso analogo, il Consiglio di Giustizia Amministrativa si è così espresso: “Il fatto che l’ATO ME 4 sia formalmente una società di diritto privato non può, anzitutto, avere rilevanza, trattandosi di soggetto a capitale pubblico – costituito tra i comuni territorialmente competenti e la provincia regionale di Messina per la gestione integrata dei rifiuti in ambito territoriale ottimale – che in quanto <<amministrazione aggiudicatrice>> è tenuta comunque ad applicare la normativa, di derivazione comunitaria, in tema di appalti pubblici di servizi” (Cons. Giust. Amm. Parere n. 533/07 dell’11/12/2007).
 
Recentemente anche la Corte Costituzionale è stata investita della questione in occasione della eccezione di costituzionalità sollevata dalla Stato sulla legge della Regione Abruzzo 5 agosto 2004 n. 23. Lo Stato, deduceva l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4 lettera f), della legge regionale in esame, in quanto la stessa, nel prevedere che le società a capitale interamente pubblico, affidatarie del servizio pubblico, sono obbligate al rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte agli enti locali per l’assunzione di personale dipendente, pone a carico di società private obblighi e oneri non previsti per l’instaurazione dei rapporti di lavoro nel settore privato ed invade quindi la competenza esclusiva statale nella materia “ordinamento civile” (art. 117, secondo comma, lettera I, della Costituzione). Per la Corte la questione non risultava fondata in quanto “La disposizione in esame non è volta a porre limitazioni alla capacità di agire delle persone giuridiche private, bensì a dare applicazione al principio di cui all’art. 97 della Costituzione rispetto ad una società che, per essere a capitale interamente pubblico, ancorchè formalmente privata, può essere assimilata, in relazione al regime giuridico, ad enti pubblici. D’altronde, questa Corte, sulla base della distinzione tra privatizzazione formale e privatizzazione sostanziale, e dunque con riferimento al suindicato principio, ha riconosciuto la legittimità della sottoposizione al controllo della Corte dei Conti degli enti pubblici trasformati in società per azioni a capitale totalmente pubblico (sentenza n. 466 del 1993)” (Corte Cost. sent. n. 29 dell’1/02/2006).
 
Alla luce delle superiori argomentazioni si può ragionevolmente affermare che la società d’ambito, in quanto società di diritto speciale interamente posseduta dagli Enti locali dell’ambito territoriale di riferimento, che utilizza, per lo svolgimento della propria attività, risorse pubbliche, naviga in un orbita oggettivamente pubblicistica.
 
Si tratta a questo punto di indagare sugli indicatori sintomatici al fine di verificare a quale delle categorie concettuali di organo pubblico può appartenere detta società: ente pubblico non economico, ente pubblico economico, organismo di diritto pubblico, impresa pubblica.
 
Lo statuto tipo delle società d’ambito siciliane prevede gli scopi che la società dovrà assicurare per la gestione unitaria ed integrata dei rifiuti. Fra questi vi è anche la possibilità di emettere obbligazioni e compiere tutte le operazioni commerciali, industriali e finanziarie ritenute necessarie o utili per il conseguimento dell’oggetto sociale.
 
La Corte di Giustizia Europea ha statuito che “L’art. 1, lett. B), comma 2, della direttiva 92/50 deve essere interpretato nel senso che l’esistenza o la mancanza di bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale deve essere valutata oggettivamente, restando al riguardo irrilevante la forma giuridica delle disposizioni che istituiscono l’organismo ed individuano i bisogni per il cui soddisfacimento l’organismo stesso è istituito” (Corte di Giustizia U.E. Corte plenaria, sent. 10/11/1998 in C. 360/96, Gemeente Arnhem, BFI Holding BV.). Con questa sentenza la Corte ha sostanzialmente giudicato che rientra nella nozione di organismo di diritto pubblico una società di capitali, istituita da due comuni olandesi per la gestione del servizio della raccolta dei rifiuti dei rispettivi territori. La Corte di Giustizia Europea (sent. 22/05/2003, C.18/2001, resa nel caso Taitotalo) ha ribadito che la natura non industriale o commerciale dei bisogni istituzionalmente soddisfatti può dirsi sussistente allorchè si tratti di bisogni che da un lato sono soddisfatti in modo diverso dall’offerta di servizi e beni sul mercato e, dall’altro, al cui soddisfacimento lo Stato preferisce provvedere direttamente ovvero con modalità organizzative tali da consentirgli di mantenere un’influenza dominante. E’ stato sottolineato, proprio con riguardo alla nozione di organismo di diritto pubblico, che un’attività industriale o commerciale svolta in stretta collaborazione con un interesse pubblico perde la sua tradizionale connotazione giuridica ed economica per acquistare quella specifica dell’ordinamento comunitario, così che il carattere non industriale va individuato quando sussiste un collegamento ad un interesse che il legislatore ha inteso sottrarre dai mercati improntati esclusivamente da un’ordinaria attività imprenditoriale, industriale o commerciale (Cons St. sez. V°, 22/04/2004, n. 2292).
 
L’avvenuta costituzione per legge dell’Autorità Territoriale Ottimale e la scelta del modello societario avvenuta per volontà del Commissario per l’emergenza rifiuti in Sicilia attraverso specifiche ordinanze, promosse al precipuo fine di perseguire specifiche finalità pubbliche di interesse generale, stabilite nell’ambito di precise politiche ministeriali e dall’altro, lo svolgimento di un’attività soggetta al controllo di organi di direzione e vigilanza formati dagli Enti locali, in uno a forme di reclutamento finanziario totalmente pubbliche, fanno propendere per una qualificazione di Ente pubblico.
 
In subordine, la società d’ambito, possedendo, ovviamente, i tre requisiti cui la normativa subordina l’attribuzione di tale qualifica e cioè, il requisito della personalità giuridica in veste di s.p.a., quello della sottoposizione alla influenza pubblica e, infine, quello della gestione di un servizio pubblico volta a soddisfare esigenze generali della collettività non aventi carattere industriale o commerciale, la stessa è da annoverare tra gli Organismi di diritto pubblico.
 
In conclusione si ritiene, così rispondendo al quesito iniziale, che le società d’ambito siciliane che ancora oggi gestiscono i servizi pertinenti al ciclo dei rifiuti, pur avendo una veste giuridica formalmente di diritto privato sono qualificabili sostanzialmente come Enti pubblici e, come tali, dotati degli “istituti di privilegio” tra i quali vi è quello di essere sottratti alle procedure fallimentari.
 
Se così non fosse, non avrebbe alcun senso neanche la previsione fatta dal legislatore regionale di tipizzare l’intervento sussidiario in favore della società d’ambito nel caso di accertate difficoltà finanziarie. L’intervento sussidiario del Comune risulta infatti espressamente previsto dal legislatore regionale e precisamente dal comma 17 dell’art. 21 della L. r. 19/2005 che ha ribadito l’obbligo dei Comuni soci della società d’ambito di prevedere nel proprio bilancio un capitolo per intervenire “sussidiariamente” rispetto alla propria società, dotandolo di “adeguata” capacità finanziaria, da stabilire secondo criteri di buon senso ed in considerazione della obbligatorietà dell’assicurazione degli equilibri economici e finanziari della società d’ambito stessa. I Comuni soci, in sede di assembleare, sono chiamati a determinare in misura congrua il proprio intervento per la copertura dei costi, assicurando gradualità nel passaggio da copertura parziale a copertura integrale dei costi, così come prevede l’art. 238 del Dlgs n. 152/2006.
 
Massimo Greco

Greco Massimo

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento