Il giudizio d’appello nella procedura civile

Introduzione

L’istituto giuridico dell’Appello rappresenta uno tra i mezzi di impugnazione attraverso il quale si ha un riesame totale della controversia già decisa dal giudice ([1]) di primo grado. La sentenza emessa dal giudice d’appello assorbe e sostituisce la decisione di primo grado.

Il giudizio d’appello produce i seguenti effetti:

  • effetto sostitutivo, in quanto la sentenza di secondo grado mira a sostituirsi integralmente a quella impugnata, sia quando riforma la sentenza di primo grado sia quando ne conferma i contenuti;
  • effetto devolutivo, in quanto devolve al nuovo giudice la cognizione dello stesso rapporto sostanziale conosciuto dal primo giudice. A ben vedere, l’effetto devolutivo non è totale in quanto la devoluzione dal giudice di primo grado al giudice d’appello non avviene in modo automatico e pieno;
  • non dà luogo ad un nuovo processo ma permette la verifica del processo di primo grado; anzi lo si può definire una continuazione del processo di primo grado.

Per sapere tutto su questo argomento leggi anche “Appello e cassazione come evitare gli errori” di Antonio Gerardo Diana, Gianluca Falco, Giuseppe Cassano

Quali sentenze appellabili?

Secondo l’art. 339 c.p.c. sono appellabili tutte le  sentenze pronunciate in primo grado purché l’appello non sia escluso dalla legge o dall’accordo delle parti a norma dell’articolo 360, secondo comma.

Le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità (art. 113 c.p.c.) ([2]) pubblicate a partire dal 2 marzo 2006 sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia.

Sono inappellabili:

  • le sentenze che il giudice ha pronunciato secondo equità ([3]) ([4]) a norma dell’articolo 114 c.p.c. ([5]);
  • le sentenze che si pronunciano sulla nullità o meno del lodo arbitrale;
  • le sentenze che decidono solo sulla competenza;
  • le sentenze che hanno deciso una controversia individuale di lavoro o in materia di previdenza e assistenza obbligatoria, di valore non superiore a euro 25,82;
  • le sentenze dichiarate non appellabili da particolari norme di legge;
  • le sentenze per le quali le parti sono d’accordo ad omettere l’appello.

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Quali differenze tra il c.d. giudizio equitativo e il giudizio secondo diritto?

Il giudizio secondo equità differisce dal giudizio secondo diritto in quanto mentre in quest’ultimo il giudice deve eseguire le norme del diritto, nel primo il giudice è autorizzato a disapplicare la regola  giuridica in senso stretto, per offrire una valutazione equitativa del caso concreto. Ad ogni modo, nel fare ciò egli non è completamente svincolato dalle regole giuridiche, proprio perché il giudizio equitativo risulta subordinato all’osservanza di principi informatori della materia, i quali vanno rispettati anche se potendo colmare le lacune della legge attraverso una valutazione equitativa.

Il procedimento di appello

L’appello contro le sentenze del giudice di pace e del tribunale si propone rispettivamente al tribunale ed alla corte di appello nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza. Ai sensi dell’art. 350 c.p.c.: «Davanti alla corte di appello la trattazione dell’appello è collegiale ma il presidente del collegio può delegare per l’assunzione dei mezzi istruttori uno dei suoi componenti; davanti al tribunale l’appello è trattato e deciso dal giudice monocratico». Bisogna sottolineare che la possibilità di una delega delle funzioni è stata introdotta di recente con l. n. 183 del 12.11.2011 ([6]) ([7]).

Il giudizio di appello si distingue in:

  • principale, il quale si propone con citazione che contiene l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione nonché le indicazioni di cui agli artt. 163 e 163-bisp.c. ([8]);
  • dopo la proposizione dell’impugnazione principale, ogni successiva impugnazione contro la stessa sentenza deve proporsi in forma incidentale, ossia deve innestarsi nel processo dell’impugnazione principale. A questo punto ci si chiede: come deve essere proposto l’appello incidentale? La risposta a tale quesito ci viene fornita dalla riforma attuata con la l. 353/90 ([9]) in base alla quale: «L‘appello incidentale dovrà essere proposto, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, all’atto della costituzione in cancelleria». Ne consegue che in sede di costituzione tardiva l’appello incidentale non sarà ammissibile.

Nei procedimenti d’appello davanti alla corte o al tribunale si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale.

In appello è ammesso l’intervento di terzi? Esso, normalmente, è inammissibile. L’unico intervento ammesso, viceversa, è quello dei terzi che potrebbero proporre opposizione a norma dell’art. 404 c.p.c. ([10]).

Inammissibilità e improcedibilità dell’appello

L’appello è inammissibile nei seguenti casi:

  • per mancato ottemperamento dell’ordine di integrazione del contraddittorio art. 331 c.p.c.;
  • in difetto delle condizioni per impugnare;
  • nel caso di estinzione di un precedente giudizio di appello;
  • quando viene proposto dopo la decadenza per decorrenza del termine o per acquiescenza.

Ai fini dell’improcedibilità è rilevante: la mancata costituzione dell’appellante nei termini, in tal caso l’appello viene immediatamente dichiarato improcedibile anche d’ufficio; oppure se l’appellante, una volta costituitosi, non compare alla prima udienza e, in tal caso, il giudice con ordinanza impugnabile rinvia la causa ad una udienza successiva. Se anche alla nuova udienza l’appellante non compare, l’appello è dichiarato improcedibile anche d’ufficio.

Conseguenza grave dell’inammissibilità e dell’improcedibilità è che l’appello non è più proponibile.

Le novità introdotte dalla legge 353/90

È utile ricordare che la legge 26 novembre 1990 n. 353 ha soppresso il c.d. ius novorum (ossia il diritto di proporre elementi nuovi) in appello.

Nel procedimento d’appello le parti non possono proporre nuove domande in quanto vige il divieto dello ius novorum ribadito nell’art. 345 c.p.c. ([11]). La ragione di tale divieto è dovuta proprio perché il giudizio d’appello consiste in un riesame esclusivamente della stessa controversia oggetto del giudizio di primo grado. A questo punto ci si chiede: quando si considera nuova una domanda? Essa è nuova: – se è diverso il petitum ossia il provvedimento del giudice richiesto; – se sono diverse le persone cioè l’attore e il convenuto; – se è diversa la causa petendi ossia le ragioni della domanda». Se nonostante il divieto vengono comunque presentate domande nuove queste debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio.

Nonostante il divieto summenzionato, l’art. 345 c.p.c. prevede che si possano richiedere in appello (pur essendo nella sostanza domande nuove) le domande attinenti: – agli interessi, i frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata; – al risarcimento dei danni sofferti dopo tale sentenza.

A norma dell’art. 345, 2° co., c.p.c. il divieto dello ius novorum viene esteso alle nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio. Occorre sottolineare che il divieto di nuove domande ed eccezioni ha natura di ordine pubblico e, ragion per cui, la sua violazione va rilevata d’ufficio, senza che possa avere alcuna rilevanza l’eventuale accettazione del contraddittorio.

Ai sensi dell’art. 346 c.p.c.: «le domande e le eccezioni  non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate».

Inoltre, l’art. 345 c.p.c. prevede l’inammissibilità di nuovi mezzi di prova e il divieto di produzione di nuovi documenti in appello ([12]) tranne nei seguenti casi:

  • quando il collegio ritenga che i nuovi mezzi di prova siano indispensabili ai fini della decisione della causa;
  • quando la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per cause ad essa non imputabili;
  • quando venga deferito il giuramento decisorio.

La decisione del giudice d’appello

Il giudice d’appello ha facoltà di emettere tre tipi distinti di provvedimenti ossia: sentenza definitiva, sentenza non definitiva, ordinanza.

Per quanto concerne la sentenza definitiva, essa si ha quando il giudice decide definitivamente la causa nel merito o in rito. Tale pronunzia può essere distinta a sua volta in: sentenza di conferma, quando il titolare del potere giurisdizionale conferma la sentenza appellata; sentenza di riforma, quando, riformandola, decide definitivamente il giudizio sia che questo non debba più continuare, sia che debba essere ripreso ex novo davanti al primo giudice. Più precisamente, il giudice d’appello deve pronunciare sentenza con la quale rinvia la causa al giudice di primo grado ([13]) nei seguenti casi stabiliti tassativamente dalla legge (artt. 353 e 354):

  • quando, in primo grado, deve essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte;
  • quando il primo giudice abbia negato la giurisdizione che, secondo il giudice di appello, gli competeva;
  • quando è dichiarata nulla la notificazione della citazione introduttiva, il che comporta la irregolare dichiarazione di contumacia;
  • quando il primo giudice ha dichiarato l’estinzione del processo e il giudice d’appello riformi la sentenza;
  • quando è dichiarata la nullità della sentenza di primo grado per mancanza di sottoscrizione.

Per quando riguarda, invece, la sentenza non definitiva, occorre ribadire che essa si ha quando il giudice, riformando la sentenza, decide questioni pregiudiziali o preliminari di merito e dispone, con ordinanza, per gli ulteriori provvedimenti istruttori.

L’ordinanza, invece, è quel provvedimento emesso dal giudice al fine dell’assunzione di una prova oppure la rinnovazione totale o parziale dell’assunzione già avvenuta in primo grado o quando dà disposizioni per la continuazione del giudizio che si chiuderà sempre con sentenza.

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([1]) Organo dello Stato che impersona la funzione giurisdizionale di applicazione delle norme giuridiche ai casi concreti attraverso un provvedimento singolare e concreto. È un soggetto processuale che, all’interno della dinamica del processo riveste, rispetto agli altri soggetti, una posizione di terzietà e imparzialità, mentre, rispetto agli altri poteri dello Stato, si caratterizza per l’autonomia e l’indipendenza in quanto, come si evince dall’art. 101 della Costituzione, è sottoposto soltanto alla legge (Fonte: www.treccani.it).

([2]) Cause il cui  valore non ecceda euro 1.100.

([3]) L’equità può essere definito come il criterio di giudizio in forza del quale il giudice, nel decidere una controversia, ricorre a criteri di convenienza e di comparazione degli interessi delle parti, prescindendo dall’applicazione di una norma giuridica. Trattasi, in ogni caso, sempre di poteri giurisdizionali in quanto basati sulla legge e da questa limitati. Quando ricorrere all’equità? Ubi aequitas evidens poscit subveniendum est direbbero i latini, ossia si deve ricorrere all’equità quando l’evidenza lo richiede.

([4]) Secondo la Corte costituzionale (sent. n. 206 del 5-6 luglio 2004): «La sola funzione che alla giurisdizione di equità può riconoscersi, in un sistema caratterizzato dal principio di legalità a sua volta ancorato al principio di costituzionalità, nel quale la legge è dunque lo strumento principale di attuazione dei principi costituzionali, è quella di individuare l’eventuale regola di giudizio non scritta che, con riferimento al caso concreto, consenta una soluzione della controversia più adeguata alle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta, alla stregua tuttavia dei medesimi principi cui si ispira la disciplina positiva: principi che non potrebbero essere posti in discussione dal giudicante, pena lo sconfinamento nell’arbitrio, attraverso una contrapposizione con le proprie categorie soggettive di equità e ragionevolezza.  Il giudizio di equità, in altre parole, non è e non può essere un giudizio extra-giuridico. Esso deve trovare i suoi limiti in quel medesimo ordinamento nel quale trovano il loro significato la nozione di diritto soggettivo e la relativa garanzia di tutela giurisdizionale, il che era del resto ciò che esprimeva il testo previgente della norma, attraverso la previsione dell’obbligo di osservanza dei «principi regolatori della materia».

([5]) Il giudice, sia in primo grado che in appello, decide il merito della causa secondo equità quando esso riguarda diritti disponibili delle parti e queste gliene fanno concorde richiesta.

([6]) Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2012) (GU Serie Generale n. 265 del 14-11-2011 – Suppl. Ordinario n. 234).

([7]) Per completezza, tuttavia, bisogna evidenziare che la Cassazione civile, sez. 3, con sent. 14.06.2011 n. 12957 ha precisato che: «L’attività istruttoria svolta dal giudice monocratico, su delega del collegio, in violazione della regola della trattazione collegiale del procedimento che si svolge davanti alla corte d’appello, non si traduce tout court in un vizio di costituzione del giudice ex art. 158 c.p.c., con conseguente nullità assoluta della relativa pronuncia, occorrendo, a tal fine, la specifica deduzione e il positivo riscontro, che l’attività stessa abbia, in concreto comportato l’esplicazione di funzioni, se non decisorie, certamente valutative, riservate dalla legge al collegio».

([8]) Ai fini del calcolo dei termini minimi a comparire di cui all’art. 163-bis c.p.c., decorrenti dalla data della notifica della citazione (in primo grado ed in appello), si deve fare riferimento alla data dell’udienza fissata in citazione; nel caso di inosservanza dei predetti termini, la nullità della citazione non è sanata quando quei termini risultino rispettati per effetto del differimento dell’udienza a norma dell’art. 168-bis, 4 e 5, c.p.c. (Cass. civ., sez. 1, n. 15128/2014).

([9]) L. 26 novembre 1990, n. 353. Provvedimenti urgenti per il processo civile (GU Serie Generale n. 281 del 01-12-1990 – Suppl. Ordinario n. 76).

([10]) Tutto ciò lo chiarisce la Cassazione civ. sez. 2 (sent.  n. 11420 del 18.05.2009) in base alla quale: «A norma dell’art. 344 c.p.c., nel giudizio di appello è ammesso soltanto l’intervento del terzo che sarebbe legittimato all’opposizione di cui all’art. 404 c.p.c., in quanto titolare di un diritto incompatibile che potrebbe essere pregiudicato dalla emananda pronuncia; ne consegue che, in un giudizio avente ad oggetto la tutela delle distanze di un fabbricato, promosso da soggetto che si affermi proprietario dell’immobile, sussiste la legittimazione ad intervenire, in grado di appello, da parte del terzo che assuma di essere proprietario esclusivo del medesimo bene, in quanto la sentenza – pur rimanendo una “res inter alios acta” – costituisce una situazione giuridica incompatibile col diritto di proprietà vantato dal terzo».

([11]) La Cassazione civile, sez. terza, con sentenza del 17.04.2013 n. 9239 ha precisato che: «Non costituisce domanda nuova, ai fini di cui all’art. 345 c.p.c., la proposizione per la prima volta in appello della domanda di corresponsione dell’indennizzo ex art. 2045 c.c., quando l’appellante abbia proposto in primo grado domanda di risarcimento del danno, dovendo la prima ritenersi implicita nella seconda, tanto che il giudice può provvedere su di essa persino ex officio».

([12]) La dicitura “e non possono essere prodotti nuovi documenti” dell’art. 345 c.p.c. è stata aggiunta con l. 18 giugno 2009, n. 69. Prima della riforma, nel silenzio della norma si riteneva generalmente ammissibile la produzione di nuovi documenti. Ora la norma chiarisce che non possono essere prodotti nuovi documenti, tranne nelle ipotesi descritte.

([13]) Quando è previsto il rinvio al primo giudice, le parti devono riassumere la causa entro tre mesi dalla notificazione della sentenza, pena l’estinzione del processo (termine così sostituito dall’art. 46, comma 19, lett. b), della legge 18 giugno 2009, n. 69. Il termine vigente in precedenza era di sei mesi).

Stefano Galeano

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