Evoluzione del concetto di Stato dal XIX al XXI secolo

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“E testimonia altresì la preoccupazione per il moltiplicarsi delle scuole, delle corporazioni, delle sette accademiche incapaci di dar vita ad una conoscenza unitaria e cumulativa. Scuole, corporazioni e sette non solo orgogliose degli elementi di distinzione e del livello di specializzazione raggiunto, ma portate caparbiamente a sottovalutare o ad ignorare il lavoro di coloro che non utilizzano lo stesso lessico e le stesse prospettive di ricerca.

 

(Giorgio Sola, Storia della Scienza Politica. Teorie, ricerche e paradigmi contemporanei, Introduzione, 14, La nuova Italia Scientifica, 1996).

Dedicato al Serg. Benedetto Sabetta, Divisione di montagna “Acqui”, disperso in combattimento a Cefalonia.

 

Parte prima

Prefazione

Nello Stato il problema fondamentale è la formazione dell’élite e di una aspirazione idealistica su cui dirigere l’azione di governo, non solo il potere per il potere ma un’analisi delle necessità e dei bisogni propri della comunità, una visione non momentanea e circoscritta al potere immediato, puramente tattica, bensì strategica, tesa a creare una società stabile e adattabile nel tempo, sostenibile nelle future generazioni.

Vi è una memoria storica negli Stati e comunità che si riflette nell’agire quotidiano, la stessa tecnologia è piegata e usata in una sintesi di tradizione e innovazione, i cambiamenti avvengono sempre, per quanto accelerati, su una inconscia struttura culturale e la lotta per il potere, tra Stati e all’interno degli stessi, non può non tenerne conto, il fattore culturale è anche una ricreazione della storia, una sua rilettura che viene adattata al potere e alle sue ideologie del progresso umano e materiale, della conquista, della guerra o della pace (1).

In questo mutare e alternarsi di cicli, conflitti e pace, “Un uomo di Stato nel senso più alto è soltanto colui nel quale la consapevolezza della sua indiscutibile responsabilità non può essere turbata dalla volontà di potenza né da un trionfo o da una sconfitta nella  lotta per il potere: responsabilità che riguarda la creazione, la conservazione e il consolidamento di un ordine sociale autentico e quindi durevole. [ …] Uomo di Stato nel senso più alto è soltanto colui che nell’ardore della lotta non dimentica mai di riflettere sulla possibile conclusione della lotta stessa, nell’aspetto che il mondo dovrà assumere dopo” (2), una società diventa durevole solo se viene sentita come una “vera società morale”, vi è quindi una ragione morale dietro la ragione di Stato e una precisa consapevolezza della responsabilità morale.

In questa ragione Ritter trova il superamento dell’antinomia tra la lotta per il potere e un durevole ordine pacifico, ricevendo qui la sua giustificazione morale in contrapposizione ad un qualsiasi altro “idealismo culturale”, non esistendo nell’alta politica come nell’alta strategia regole definite, ma considerando sempre la difficoltà di individuare quando la forza è al servizio dell’idea o al contrario è l’idea che copre una volontà di potere smisurato e il conseguente uso dissennato della forza.

Disegnare vuol dire omettere : diceva il grande pittore Max Lieberman. Ciò vale anche per lo storico che non voglia limitarsi a redigere una cronaca, ma tenti invece di costruire una narrazione leggibile e coerente. E’ vero che la decisione su quanto si deve tralasciare è sempre soggettiva, ma ritengo che un certo ambito di soggettività debba essere concesso all’autore soltanto se i singoli fatti da lui narrati si fondano in una totalità” (3), una coscienza della storia e della storicizzazione dei fatti che nell’epoca del tutto attuale, di una connessione e di un presente continuo, viene a mancare come le polemiche sulle statue e le figure storiche che vengono a lacerare attualmente gli U.S.A., fino a coinvolgere esploratori e scopritori quali Cristoforo Colombo e i padri fondatori Washington e Jefferson, fino a risalire a figure storiche come il Generale Lee, rispettato perfino dai generali nemici, dimostrano  un massimalismo storico e culturale tipico delle età di transizione e dei fervori sperimentali giovanili, in cui necessita il fermo richiamo alla logica storica.

NOTE

  1. A.A. VV., a cura di F. Chatelet, Storia delle ideologie, Vol. II, Rizzoli, 1978;
  2.  Ritter G., I militari e la politica nella Germania moderna. Da Federico il Grande alla prima guerra mondiale, 13, Introduzione, Vol. III, Einaudi, 1967;
  3.  Eyck E., Storia della Repubblica di Weimer 1918-1933, Prefazione dell’autore alla parte seconda, Einaudi, 1996.

 

INTRODUZIONE

Vi è nei confronti dello Stato un duplice rapporto da una parte una scienza politica americana che nello svalutare il potere politico esalta il potere sociale indistinto dei gruppi di pressione su uno Stato parcellizzato, dove si punta al consenso piuttosto che all’uso della forza nell’ottenere il consenso, dall’altra la tradizione europea che evidenzia l’importanza di un apparato amministrativo e ideologico che ricorre alla violenza e alla manipolazione, in uno stretto nesso tra produzione economica e distribuzione del potere sociale e politico.

La riscoperta dello Stato da parte degli ambienti accademici americani, nel corso degli anni ottanta del Novecento, si risolve nell’ambito dell’approccio neoistituzionale o della scelta razionale, nella prima ipotesi lo Stato è visto come una delle tanti istituzioni politiche formali che definiscono la “cornice” in cui agisce la politica, nella seconda ipotesi lo Stato è il luogo in cui si formalizza l’offerta del settore pubblico in rapporto alla domanda dei cittadini, un apparato simile al mercato, capace di controllare le “esternalità” del mercato privato che lo stesso non riesce a gestire.

Se poi si pone lo Stato come un insieme di individui che perseguono la massimizzazione dei propri benefici, si è osservato che i governanti tendono a conquistare il potere e mantenerlo in stretto rapporto con le richieste dei vari gruppi di elettori, mentre i burocrati puntano ad accrescere le funzioni amministrative con le relative risorse finanziarie disponibili; gli studiosi che si sono ricollegati a tale pensiero hanno rifiutato la prospettiva neomarxista di un rapporto con la struttura di classe, ritenendo di fare esclusivo riferimento ai desideri dei governanti e burocrati; questo non mette tuttavia a repentaglio l’importanza dello Stato secondo l’orientamento “neocorporativista”, in quanto attore principale di una concertazione tra le principali organizzazioni che rendono possibile la gestione di una società industriale avanzata, dando pertanto per scontato una sua “relativa” autonomia dalla società e dalle forze economiche che in essa operano.

Nel periodo che intercorre tra la metà del XIX secolo e la fine della II Guerra Mondiale lo Stato è al centro dell’attenzione sia in Germania che negli Stati Uniti, non mancarono voci discordanti quali Gaetano Mosca che separò nettamente la scienza politica dal diritto pubblico, concentrando l’attenzione sui rapporti effettivi di potere contro l’astrazione formale delle istituzioni giuridiche, fino ad arrivare a Bentley che elimina la stessa idea di Stato dalla sua analisi politica, considerandolo una pura astrazione rispetto ai concreti rapporti di forza (1); si prepara così la sua eclissi nei decenni successivi al secondo dopoguerra, questo sia per reazione all’esaltazione  che ne fecero i regimi totalitari che per le nuove aree di ricerca del comportamentismo e del pluralismo, in cui l’attenzione è centrata sullo studio dei comportamenti individuali e sulla dinamica dei rapporti tra gruppi concorrenti, nei quali lo Stato assume la funzione di un puro “registratore di cassa” (2).

Il venire meno della centralità dell’Europa nella politica internazionale a favore degli U.S.A. e di una potenza euroasiatica quale l’U.R.S.S., la dissoluzione degli imperi coloniali con la rivendicazione dell’autonomia delle culture del terzo mondo, il tentativo di esportazione del modello americano e della sua ideologia democratico-liberale su cui si fonda, fa sì che Easton affermi l’ingannevole semplicità del concetto di Stato, in cui vi è una confusione concettuale derivante dalla mancanza di precise e concordanti caratteristiche istituzionali, avendo pertanto un valore pratico più che scientifico (3); solo valutando l’insieme delle relazioni statali ed extra statali e le pratiche politiche utilizzate si può avere una ricostruzione reale del “sistema politico”, lo stesso Dahl  riduce l’attenzione sullo Stato preferendo concentrarsi sul governo quale fonte delle decisioni coercitive (4), osserva tuttavia Nettl che la tematica dello Stato non può essere rimossa in quanto presente se non altro come fenomeno culturale nella vita quotidiana (5).

Con gli anni ottanta del secolo scorso vi è la riscoperta dello Stato quale condensatore di potere, dotato di una sua unitarietà e coerenza interna, il cui agire del personale politico – amministrativo è spesso improntato non solo a interessi ma anche a motivi ideologici, vi è inoltre la scoperta dell’importanza delle strutture statali nello sviluppo economico dei paesi in via di sviluppo; limitazioni a questa riscoperta si hanno con le tesi neocorporativiste e neoistituzionaliste, dove vengono sottolineati i rapporti con gli interessi economici dominanti e la circostanza della presenza accanto allo Stato di molteplici istituzioni politiche, March ed Olsen sottolineano che, nella dialettica società e Stato, la prima persegue l’ordine attraverso la razionalità e lo scambio, la seconda mediante l’obbligazione e i diritti politici (6).

Quando appaiono insufficienti sia l’etica privata che la legislazione come strumenti per promuovere il benessere della società, nasce la necessità del concetto di etica pubblica nell’ambito dell’economia del benessere e dell’utilitarismo al fine di promuovere il bene dei cittadini senza doverli interpellare, ne consegue un accrescimento dell’autonomia del potere pubblico rispetto ai vincoli dei mandati rappresentativi, ma anche una forza vincolante di regole che nessuna vittoria politica può scalzare, resta peraltro la necessità di dare un contenuto a tali regole che non rifacendosi più a principi tecno-economici risultano strettamente morali.

La crisi dell’etica individuale viene fatta risalire dal Viano alla concezione idealistica hegeliana dello Stato, la sua perfezione presuppone una società perfettamente organizzata sui modelli industriali, guidata da tecnici ed esperti che nel superare le opposte fazioni diano la base per il processo produttivo, così da superare il sempre possibile conflitto tra imperativi individuali e compromessi sociali, un sistema tecnocratico che affonda le sue radici nello Stato nato dalla rivoluzione francese e in cui il diritto diventa un puro sistema meccanico precostituito (7), tuttavia l’insufficienza dei soli principi scientifici rilancia l’etica che non può restare comunque individuale proprio per la necessità di una sua oggettività pubblica.

Emerge pertanto un problema evidenziato dall’osservazione dei comportamenti effettivi delle persone, dove vi è una inconsapevole quanto tenace resistenza ad avere e mantenere obbligazioni morali di lunga durata, viene a diffondersi la mutabilità degli impegni che seguono utilità momentanee, secondo una tendenza osservata da Nozick di non sentirsi mai definitivamente vincolati, così che come ci ricorda Bodei “l’etica della coerenza e della responsabilità – per quanto non sempre esplicitamente ripudiata – vengono diluite in favore di un mutamento endogeno” (8).

Il problema è ulteriormente aggravato dallo sviluppo tecnologico e della rete a cavallo del millennio, che appare svuotare i poteri dello Stato a favore di un accresciuto potere finanziario, lo Stato sembra essere limitato nelle sue capacità di intervento così come un senso di impotenza investe i cittadini sugli aspetti economici, il senso di libertà che la rete crea, di guadagno, è nella realtà controbilanciato dal potere finanziario che sembra essere deterritorializzato ma in realtà concentrato nelle capacità tecnologiche brevettate dai Superstati, rinasce nello sbandamento la necessità di un territorio: una comunità, una Patria in cui identificarsi e rifugiarsi.

Lo Stato moderno è anche figlio della Rivoluzione francese, di una lotta per la libertà dell’individuo che nella sua assolutizzazione, nella durezza imposta dalla stessa lotta ha creato le premesse dello Stato giacobino, che richiede ai suoi cittadini un sacrificio assoluto, totale in quanto etico, superiore al sacrificio mercantilistico dell’utile proprio dello Stato assolutistico del XVII – XVIII secolo, lo Stato diventa ambivalente da una parte liberale in stile anglosassone, dall’altra totalitario, con una tensione romantico-idealistica del mito napoleonico e rivoluzionario che nel successivo secolo sfocerà nei drammi delle due guerre mondiali e dei totalitarismi nazionalisti e comunisti.

La potenza di una Francia rivoluzionaria ma persa in un liberalismo anarchico, una volta disciplinata e ricondotta ad una logica politica nazionale di potenza nelle figure di Carnot e Bonaparte, ruppe gli argini e dialogò per il Continente, ma una forza, se non limitata ed inserita in un sistema stabile di alleanze che l’innalzino ad ordine legittimo, sarà sentita come pura violenza e, seppure portatrice di una nuova “idea”, non farà che lievitare forze contrarie portatrici di rielaborazioni dell’idea originale, come avvenne in Germania dopo la disfatta di Jena (9).

NOTA

  1.  Mosca G., Elementi di scienza politica, Bocca 1923;  Bentley A., Il processo di governo, Giuffrè, 1983;
  2.  Latham E., The Group Basis of Politics, Cornell University Press, Ithaca, 1952;
  3.  Easton D., Il sistema politico, Comunità, 1963;
  4.  Dahl R. A., Introduzione alla scienza politica, Il Mulino, 1967;
  5. Nettl J. P., The State as a Conceptual Variable, in “World Politics”, 20, 1968, 559-592;
  6.  March J. –  Olsen J. P., Riscoprire le istituzioni, Il Mulino, 1992;
  7.  Viano C. A., Etica pubblica, Ed. Laterza, 2002;
  8.  Nozick R., Spiegazioni filosofiche, Il Saggiatore, 1987; Bodei R., La filosofia del Novecento, 187, Ed. Donzelli, 2006;
  9.  Ritter G., I militari e la politica nella Germania moderna, Vol. I, Einaudi, 1967.

CAPITOLO 1

Dalla concezione organicistica e contrattualistica alla concezione formalistica, dall’idealismo romantico al positivismo.

Il “Dizionario di filosofia” dell’Abbagnano alla voce Stato (1) distingue tre concezioni

fondamentali, quella organicistica, quella atomistica o contrattualistica e infine la concezione formalistica propria dell’età contemporanea.

Le prime due , solitamente alternatesi nel pensiero occidentale, solo apparentemente appaiono contrastanti, venendo ad inserirsi nel tronco contrattualistico esigenze proprie della concezione organicistica, per cui le parti dello Stato non possono essere divise dalla sua totalità senza perdere la dignità e il proprio carattere, secondo una concezione che risale a Platone e Aristotele (Abbagnano).

Fichte osserva che solo “nell’ambito dello Strato e in virtù dei suoi poteri sono possibili i diritti originari delle persone” (2), in quanto l’essere come individuo può agire nel mondo solo se a lui sono garantite la “libertà” da ogni costrizione, la “proprietà” dei beni necessari al suo operare e la “conservazione” della sua esistenza corporea dalle minacce altrui, vi è quindi la necessità di un accordo politico che dia origine ad una volontà generale legislativa, ma questa deve avere la possibilità e capacità di essere mandata ad effetto, diventare reale.

Se Fichte allontanandosi da Rousseau  individua solo nello Stato la radice dei diritti originari dell’individuo, vi è tuttavia un limite nei rapporti tra questi, in particolare quale cittadino, e lo Stato, la diminutio della sua sfera di libertà è in rapporto ai servizi che lo Stato quale ente gli rende nella conservazione della proprietà e dell’esistenza corporea dalle minacce esterne, sulla base di tali principi vi è una deduzione dei capisaldi tanto nel diritto pubblico che privato.

Dovendo lo Stato garantire non solo i diritti fondamentali ma anche una dignità di vita a tutti i cittadini, Fichte prospetta la necessità di un sistema chiuso in cui produzione e distribuzione interna siano in parte regolate dallo stresso Stato, un socialismo nel quale il commercio estero venga comunque monopolizzato dallo Stato al fine di mantenere un benessere interno generalizzato secondo giustizia.

Per Hegel l’uomo è un individuo etico, ossia l’incontro tra volontà soggettiva e bene da realizzare, calato nel sistema dei bisogni quale aspetto fondante della società civile ma è solo nello Stato che viene a realizzarsi tale aspetto, viene pertanto rigettata la dottrina del contratto sociale in quanto pone lo Stato all’arbitrio degli individui, esso pertanto assume una dimensione religiosa di manifestazione divina nel mondo, che fa sì che ricavi la propria sovranità non dal popolo, moltitudine disorganizzata, ma da se stesso, d’altronde l’individuo viene a valere nello Stato non in quanto unità singola ma bensì quale componente di un gruppo attivo nello stesso, non vi sono pertanto diritti individuali di partecipazione agli affari dello Stato, né per Lui valgono le leggi morali dell’individuo essendo superiore per origine a quello morale, solo nella Storia egli troverà il suo giudizio universale.

In opposizione all’idealismo hegeliano, quale massimo sviluppo della sinistra hegeliana, Marx introduce il concetto di materialismo storico per cui “l’unico soggetto della storia è la società nella sua struttura economica” (3), mentre il resto è una semplice “soprastruttura” riflesso della struttura sottostante, in essa rientrano tanto le forme di diritto e dello Stato che la religione, la morale, la metafisica e ogni altra forma di coscienza, tutto deriva e si adegua al mutare della produttività materiale, di immutabile non resta quindi che l’astrazione del movimento, “mors immortalis” (4), lo Stato diverrà tuttavia nella realtà storica del socialismo scientifico del Novecento, l’ente supremo in cui riassorbire la forma della produttività materiale, seguendo le necessità nate dal comunismo di guerra, proiezione dell’organizzazione industriale liberale per lo sforzo bellico della Grande Guerra (5).

All’idealismo e al concetto di Stato che esso teorizza quale espressione sulla terra dell’Idea, si oppone da questo punto di vista del tutto esterno il positivismo sociale dell’utilitarismo, Stuart Mill propone un individualismo radicale tale che un intervento di una qualsiasi autorità sulla condotta dell’individuo può trarre giustificazione solo dalla necessità della difesa degli stessi diritti individuali, vi è in questo l’influenza di Comte nella ricerca della felicità individuale quale elemento del progresso umano (6), superando la concezione strettamente utilitarista assunta da Bentham e dei due Mill, Spencer, secondo una visione positivista evoluzionistica, pone accanto al puro egoismo una necessità etica che favorisca la cooperazione, in modo da superare non solo il regime impositivo militare del potere statale, che impone compiti e funzioni, ma anche l’attuale regime industriale fondato sull’indipendenza individuale (7).

La razionalità dello Stato moderno viene sottolineata da Weber per cui è uno dei capisaldi dell’agire amministrativo, essa si collega alla specificità propria della politica nell’Occidente moderno, tanto che categoricamente afferma “lo stato, nel senso di stato razionale, è esistito soltanto in Occidente” (8), anche nell’età antica e  medioevale esistevano forme di organizzazione statuale prive tuttavia dell’oggettività amministrativa e giuridica dello Stato moderno.

Per Weber lo stato non è mai uno scopo in sé né può essere definito in termini di scopo, nella realtà quello che lo caratterizza è l’impiego legittimato della forza senza ulteriori fini, tutti gli scopi sono stati perseguiti pertanto solo il mezzo ne definisce ed è indispensabile per la sua essenza, la quale non può che essere l’uso monopolistico della forza (9).

L’analisi weberiana si concentra sul potere e la sua legittimazione, in questa visione lo Stato non è che una delle possibili forme di organizzazione del controllo sul territorio, tanto che si ha la classificazione del potere legittimo nei poteri legale, tradizionale e carismatico.

L’apparato amministrativo permette l’esercizio coercitivo del potere in termini “continuativi”, ma esso deve essere sorretto da una pretesa “legittimazione” interiore che lo stabilizzi rispetto ai semplici interessi, o costumi, questo conduce necessariamente al distacco tra persona fisica e giuridica, ma solo nello Stato moderno si ha quella razionalità necessaria al razionalismo economico del capitalismo moderno, circostanza che esalta l’apparato amministrativo burocratico nei confronti del singolo detentore del potere, una soluzione che si è estesa a tutte le forme organizzative attuali come vera rivoluzione moderna.

Nel distinguere tra “potenza” e “potere” vi è una ulteriore razionalità, la potenza è la possibilità di fare valere la propria volontà contro terzi ma è nel potere che risiede una delle fonti della modernità dello Stato in quanto  possibilità di ottenere obbedienza in termini continuativi, in questo si ha la definizione sociologica di un termine amorfo quale è la potenza.

Il carattere politico del potere risiede nella territorializzazione e nella rivendicazione dell’uso esclusivo della forza, tuttavia la forza fisica è solo l’estrema ratio  a cui ricorrere, in quanto il potere è innanzi tutto “riconoscimento” e coercizione psichica, comunque la distinzione così netta tra potere politico ed economico che Weber intenderebbe attuare, è dallo stesso autore riconosciuto carente, quando esplicitamente ammette che in ogni rapporto di obbedienza vi deve essere un minimo “interesse” all’obbedienza stessa, si apre quindi la possibilità alla “gradualità” della legittimità essendo una legittimità piena un caso-limite.

La razionalità del potere attraverso un apparato amministrativo fa sì che questi acquisti progressivamente una propria indipendenza attraverso il “sapere tecnico”, inoltre nel “mettersi al servizio” garantisce la propria continuità e sopravvivenza, burocratizzazione e democratizzazione se da una parte si rafforzano a vicenda in uno Stato moderno complesso, d’altra parte entrano in conflitto in quanto vi è la pretesa di un assoluto della burocrazia, fino a divenire una gabbia che determina il destino dell’individuo moderno in attuazione dell’assoluto preteso dall’organizzazione statale moderna (10).

Kelsen nel ridurre lo Stato al solo elemento normativo e coercitivo, viene a negare l’aspetto sociologico riducendo tutto ad un puro aspetto formalistico, emergono tuttavia i limiti di una tale concezione dove il formalismo pervade tutti gli ordinamenti nei quali la tecnica coercitiva si concreta, senza che si valutino i costumi, l’educazione, l’etica sul piano sociale individuale, ma anche l’economia e la finanza sul piano collettivo, viene meno quello che Gierke definisce come “l’obbligo morale di farlo”, la coercizione si tradurrebbe in “obbligo passivo”, in un minimo essere (11).

NOTA

  1. Abbagnano N., Dizionario di filosofia, voce: Stato, UTET, 1971;
  2. Abbagnano N., Storia della filosofia, Vol. III, 60, UTET, 1974;
  3. Abbagnano N., Storia della filosofia, Vol. III, 206, UTET, 1974;
  4. Schlesinger R., Marx, His time and Ours, Londra 1951, trad. it., Milano 1961;
  5. Bruce Lincoln W., I bianchi e i rossi. Storia della guerra civile russa, Le Scie, Arnoldo Mondadori ed., 1991;
  6. Abbagnano N., Storia della filosofia, Vol. III, Voce: Stuart Mill, UTET, 1974;
  7. Abbagnano N., Storia della filosofia, Vol. III, Voce: Spencer, UTET, 1974;
  8. Weber M., Storia economica. Sommario di storia economica e sociale universale, trad. it. A cura di A. Cavalli, Edizioni di Comunità, 266, 2003;
  9. Rossi P., Weber Max. Una idea di Occidente, Weber e Hegel : lo Stato moderno e la sua razionalità, Donzelli ed., 2007;
  10. Rossi P., cit., La teoria della politica;
  11. Abbagnano N., Dizionario di filosofia, Voce: Stato, UTET, 1971.

 

CAPITOLO  2

Stato leggero e Superstato

Nell’era della connessione continua e globale, del flusso continuo di capitali, delle merci e delle persone, del potere mondiale della finanza e delle multinazionali, ci si è chiesto se lo Stato abbia ancora un significato e il potere che dalla Rivoluzione francese ha accumulato, si è stabilito pertanto un rapporto triangolare tra Stato, Superstato, riflesso di una dimensione continentale, e gli altri poteri transnazionali, in questo raffronto lo Stato è sembrato perdere consistenza a fronte degli altri due termini, tanto che si è cercato di accelerare in Europa la costruzione dell’U.E. e della sua moneta l’Euro ottenendo una struttura parziale e squilibrata, gestita da una tecnostruttura a cui viene meno la legittimazione sociale, una germanizzazione finanziaria scollata dalle varie storie e culture, subita più che accolta.

Già Ralf Dahrendorf  avvertiva negli anni novanta del secolo scorso che “L’adeguamento al Trattato di Maastricht presuppone che le società civili aderenti siano in grado di organizzarsi in maniera tale da trarre vantaggio dall’unione monetaria. Le mentalità collettive, peraltro, sono molto resistenti e si modificano solo lentamente. Il problema centrale della valuta comune, perciò, è il fatto che essa costringe società con esperienze storiche molto differenti in un contesto politico-finanziario comune dai tratti palesemente tedeschi […], nonostante le diverse priorità di ogni società” (1), ma di fronte ad una globalizzazione economica crescente ed al prevalere di una finanza internazionale aggressiva l’unica risposta concreta possibile è sembrata essere la formazione di un Superstato di carattere continentale, che potesse raffrontarsi non solo con gli U.S.A. e la Russia in crisi ma anche con la crescente potenza della Cina e un domani con i sub continenti indiano, indonesiano e brasiliano, mantenendo il primato occidentale.

Il succedersi delle crisi finanziarie del 2008 e del 2011, delle varie crisi migratorie dell’Asia e dell’Africa, hanno evidenziato le diverse anime dell’U.E. e il prevalere progressivo della Germania nella guida dell’Unione, anche a scapito dell’asse Parigi – Berlino e infine favorito il ripensamento della Brexit, ma è lo stesso peso economico e demografico della Germania, la sua centralità nel Continente che ne fa al contempo un centro di gravità ed un ponte, come d’altronde è sempre avvenuto nella sua storia, il ridurre l’Unione ad un puro calcolo economico comporta un raffronto costi/benefici in cui non tutti guadagnano inoltre potrebbero sorgere diseconomie di scala non immediatamente evidenziabili, le frontiere esterne che non si è riusciti a custodire e gestire adeguatamente tornerebbero ad essere frontiere interne.

Non dobbiamo tuttavia dimenticare che vi è un rapporto tra estensione politica e costi politici, più è grande uno Stato maggiori sono i costi politici e finanziari di mantenimento, occorre quindi proseguire nell’accumulo di risorse al fine di sostenere i costi, inoltre occorre determinare la cultura che presiederà all’espansione e gestione tanto dell’apparato necessario al governo che al benessere della popolazione, se questo è avvenuto storicamente in U.S.A., Cina e Russia, risulta conflittuale in Europa dove vi è un affiancarsi e sovrapporsi di culture simili e al contempo diverse e in cui si affacciano due faglie , una Mediterranea con il disordine ed i problemi africani ed asiatici del Medio Oriente, l’altra con l’area euroasiatica della Federazione Russa ex U.R.S.S.

Il rapporto collaborativo conflittuale tra U.S.A. e Germania si riflette sulle dinamiche dell’U.E., nel ricercare una dimensione autonoma nei rapporti con la Federazione Russa e con la Cina, al contempo vi è negli Stati Uniti un ripensamento dei costi che una politica imperiale comporta, una richiesta di maggiore tutela degli interessi della classe media impoverita da una globalizzazione di cui ora riscontra gli effetti negativi e di cui non vuole più pagarne i costi, vi è perciò uno scollamento tra  le esigenze strategiche che una visione imperiale comporta per il solo fatto di esistere e che comunque le élite sostengono nonostante il malessere evidenziato dagli strati della classe media (2).

Ogni impero, parola che negli U.S.A. acquista un significato particolare soft di economia deterritorializzata costituita da una rete di presenze e relazioni, ha bisogno non solo di beni e finanza ma soprattutto di una base ideologica a cui riferirsi e su cui appoggiarsi, è la crisi ideologica che ne costituisce la premessa di una revisione, una crisi frutto del suo stesso trionfo e del gigantismo che ne consegue, dove sorgono “problemi di legittimazione del sistema presso la popolazione” (3) quale premessa per una crisi più generalizzata del sistema non solo economico ma innanzitutto politico –  imperiale.

I Superstati hanno comunque una propria ideologia a cui fare riferimento nel sostenere e proteggere i propri interessi ed un tessuto culturale prevalente e storicamente sedimentato su cui appoggiarsi, di matrice anche religiosa ma con profondi riflessi pubblici e statuali, Confucianesimo, Taoismo, Shintoismo, le varie forme di protestantesimo a loro volta intrecciate al razionalismo e all’idealismo hegeliano, le Chiese Ortodosse, hanno costituito la base su cui razionalizzare la costituzione del potere, ma anche nel Cattolicesimo il Giansenismo, il Gallicanesimo e il Giuseppinismo hanno posto la religione a sostegno del potere statale, laicismo e fede sono quindi venuti a convergere nel rendere omogeneo culturalmente il potere stesso sulle grandi estensioni territoriali.

Con la caduta del muro di Berlino il successivo disgregarsi dell’Impero Sovietico si è proclamata la nascita di una nuova era, in cui una sola superpotenza avrebbe gestito il mondo imponendo per forza naturale il modello neoliberale di uno Stato leggero, mentre una rete in connessione continua sia comunicativa che di trasporto merci avrebbe avvolto il pianeta.

Le corporations transazionali e le organizzazioni non governative, espressioni della società civile avrebbero decretato un progressivo esautoramento dello Stato il quale avrebbe perso il controllo delle frontiere e dell’economia, riducendone l’area di intervento fino a rimanere impotente di fronte agli enormi flussi di capitale mossi, il compito dello Stato diventava pertanto quello di preparare passivamente le migliori condizioni perché le corporations e i capitali affluissero.

In questo scenario solo dei Superstati grandi per le dimensioni territoriali, demografiche, economiche e tecnologiche avrebbero potuto competere e non subire passivamente la globalizzazione in atto, seguendo questo ragionamento si è cercato di accelerare la costituzione di una Unione Europea che subentrasse alla semplice  unione commerciale della C.E., l’accresciuta dimensione avrebbe permesso all’U. E. di trattare alla pari gli accordi commerciali sia con gli U.S.A. che con la Cina, oltre a non venire bloccata dal probabile risveglio russo, inoltre la costituzione di una unica area continentale con una alta concentrazione industriale, finanziaria e di know – how avrebbe dovuto favorire una accresciuta concentrazione industriale e finanziaria, tale da favorire una maggiore resistenza ad eventuali attacchi esterni e diventare a sua volta punta di diamante per future penetrazioni commerciali e acquisizioni.

L’U.E. ha tuttavia evidenziato problemi strutturali propri di una costruzione parziale, ad un aspetto finanziario di una moneta unica è mancata la possibilità di una politica fiscale e industriale in Italia, ma sono venute meno anche altre condizioni per l’esistenza di un vero e proprio Superstato, il controllo unitario ed efficace delle frontiere esterne, una unica voce in ambito internazionale, sono riemerse le contraddizioni storiche e le diffidenze tra i vari Stati, né la Germania è stata in grado di proporre e gestire una “idea” di Europa che si allargasse oltre l’aspetto finanziario e genericamente buonista, anche per il peso storico del Novecento, di fatto si sono create le premesse per una Europa apertamente a due velocità, circostanza che si era voluto negare ed evitare nel corso degli anni novanta del ‘900.

Tuttavia problemi globali commerciali quali la Golden power, la reciprocità, l’uso di sussidi pubblici da parte di Stati esteri, quali la Cina e gli Emirati Arabi Uniti, nello shopping di attività industriali e commerciali europee in violazione del principio di una libera attività economica, per non parlare della crisi migratoria che pare essere stata una delle cause, se non la detonante di tutte le tensioni accumulate per la Brexit, ha messo in evidenza le difficoltà dell’U.E. e la necessità di un suo ripensamento non solo tecnico ma anche ideologico e di legittimazione popolare, dove anche la Corte di Giustizia europea è stata vista molte volte come una ulteriore interferenza con principi astratti su problematiche concrete e quotidiane dei singoli stati componenti l’Unione.

Attualmente e ancor più in futuro il potere di uno Stato risiederà non tanto nel possesso di enormi capitali, ormai considerati semplici materie prime, ma dalla tecnologia e dai brevetti che la contengono, la possibilità sia di strutturare in campo finanziario nuovi prodotti da fare circolare moltiplicando gli effetti finanziari e dirigendoli sui settori interessati, che di sviluppare nuovi prodotti industriali e di comunicazione tali da poterne controllare l’utilizzo e il contenuto, inondandone il mercato sempre più esteso a nuove aree, farà sì che solo quegli Stati che saranno in grado di attrarre, sviluppare e mantenere al loro interno tale Know how, sia attraverso strutture pubbliche che corporations, potranno garantirsi un potere ed una capacità competitiva e di influenza globale, in altre parole la propria indipendenza, tutto questo non può tuttavia estraniarsi da una forte componente culturale di innovazione ma anche di coesione.

Su queste necessità grava peraltro il pericolo del diffondersi di una caoticità derivante dal fallimento di molti Stati relative ad estese aree geografiche, che vanno dalle Americhe, all’Africa, all’Asia, secondo una fascia prevalentemente equatoriale; immigrazione incontrollata, criminalità diffusa, stati permanenti di guerra e guerriglia, diventano focolai di diffusione, tanto più pericolosi per la facilità di comunicazione, aree grigie e franche dove insediare qualsiasi tipo di attività.

Come ci ricorda Colombo, l’ordine mondiale non può che essere di tipo gerarchico, dovendo la sovranità di ciascun Stato inserirsi in termini più o meno limitati in tale ordine (5), nasce quindi la necessità di intervenire su tali aree stabilizzandole non tanto e solo in termini militari, quanto economici, culturali e sociali, uno sforzo tale che non può essere affrontato da un solo Superstato per quanto potente, emerge nuovamente la necessità di definire aree di influenza comunicanti tra loro, a struttura variabile con un minimo di coordinazione, la competizione non può trasformarsi in destabilizzazione ma in inclusione, nel frattempo occorre raffreddare i fenomeni per acquisire il tempo necessario.

(Vedere cartine allegate)

NOTA 

  1. Dieter H., La strategia ingessata della Germania, in Limes, Rivista italiana di Geopolitica, (Chi comanda il mondo), 125, 2/2017;
  2. AA.VV., USA – Germania duello per l’Europa, Limes, Rivista italiana di Geopolitica, 5/2017;
  3. Streek W., Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, 2013;
  4. Dieter  H., La strategia ingessata della Germania, 121-128, Maronta F., La Germania ama tanto l’Europa da volerne due 111-120, in Limes, cit., 2/2017; AA.VV., USA-Germania duello per l’Europa, Limes, cit., 5/2017;
  5. Colombo A., Tempi decisivi, Feltrinelli, 2004.

 

Parte seconda

CAPITOLO 3

Teorie dello Stato

  1. Teorie neomarxiste dello Stato

Le teorie neomarxiste possono raggrupparsi in tre modelli: strumentale, strutturalista e interventista, il primo, rifacendosi a Miliband, tende a isolare lo Stato dall’ambiente sociale ed economico concentrando l’attenzione sui rapporti tra élites economiche e politiche, dove il fine ultimo è conservare, difendere e riprodurre l’economia capitalistica; il secondo, nato dalle riflessioni di Poulantras, analizza lo Stato nel contesto socio-economico e considera la coincidenza degli interessi della classe dominante con la funzione dello Stato un risultato proprio del sistema in sé, indipendentemente da una partecipazione diretta alla gestione dello Stato, viene messa in luce una relativa autonomia dello Stato capitalistico a differenza dell’ipotesi precedente; il terzo modello, richiamandosi ai lavori di Offe e Habermas, mette in evidenza in un’ottica sistemica la forte interdipendenza tra Stato e società, in uno schema di tipo input – output tra economia e politica, sfera privata e sfera pubblica (1).

Il sostegno offerto dai cittadini senza condizioni allo Stato è da questi ricompensato mediante risposte alle loro richieste ed esigenze, evitando pertanto una difesa esclusiva degli interessi delle classi superiori, questo aspetto universalistico crea due possibili contraddizioni: la prima deriva dalla necessità dello Stato di favorire il processo accumulativo, conservando al contempo la fiducia sulle proprie istituzioni quali arbitri imparziali tra contrasti di interessi, la seconda dalla difficoltà dello Stato non solo di raccogliere le risorse necessarie ma anche di impiegarle fruttuosamente per la crescita di un benessere diffuso.

Crisi di legittimità sul lato dell’input e crisi di razionalità dalla parte dell’output si succedono, in quanto viene meno la capacità di assicurarsi una larga lealtà dei cittadini non potendo al contempo tutelare la capacità di accumulo e investimenti con la necessità politica di rispondere alle crescenti richieste delle classi inferiori, dispersioni di risorse e malversazioni vengono ad intrecciarsi; Habermas parla a sua volta di “crisi di sistema” relativamente alle dimensioni output e di “crisi di identità” per il lato input (2).

La tendenza alle crisi economiche si evidenzia nell’allargamento del debito pubblico, nel persistere dell’inflazione a due cifre, nella decrescita economica accompagnata dalla deflazione, nell’allargamento della forbice tra fasce sociali, vi è una incapacità dello Stato di migliorare le prestazioni sociali senza aumentare la pressione fiscale a scapito dell’accumulo, le crisi politiche a loro volta si manifestano come crisi di “razionalità” e di “legittimazione”, ossia incapacità del sistema burocratico – amministrativo di attuare e rendere effettiva la necessità del controllo del sistema economico e contemporaneamente conservare un sufficiente livello di lealtà delle masse.

Vi è in sostanza un corto circuito tra la necessità dello Stato di procurarsi risorse senza intaccare la capacità di accumulo e quella di accrescere e migliorare le prestazioni sociali senza distorsioni e dispersioni, si verifica pertanto un continuo rimbalzo tra crisi di razionalità e crisi di legittimazione, fino a divenire una crisi socio – culturale di motivazione nella duplice fisionomia di mancata integrazione sociale e legittimazione accompagnata da richieste sociali sempre più esorbitanti, un rilancio continuo.

D’altronde, osserva Miliband,  superata da tempo la fase nel capitalismo maturo di un ricorso alla repressione sistematica, vi è l’intensificazione dell’uso dell’influenza ideologica nel creare valori ed ethos condivisi conformi agli interessi del sistema economico vigente, valori e desideri privati di appropriazione vengono esaltati, mentre i sistemi di comunicazione nel diffondere i valori convincono della necessità di risolvere i problemi all’interno del sistema economico vigente, assorbendo nel sistema delle classi dirigenti i leaders espressi dai vari gruppi di opposizione (3).

L’organizzazione statuale ha inoltre l’ulteriore funzione di integrazione delle classi dirigenti essendo esse soggette a fenomeni di frammentazioni, frazioni che vengono ad essere talvolta in contrasto per interessi tra loro a causa della pressione competitiva, in questa funzione di mediazione, necessaria per l’instabile equilibrio del moderno sistema capitalistico, lo Stato deve dare talvolta ragione a richieste degli strati inferiori della società, anche se appaiono nel breve periodo contrari agli interessi delle classi superiori.

Il blocco di potere è un insieme di classi e frazioni in cui una di esse si pone in termini egemonici con il sostegno delle altre; la relativa autonomia della sfera politica fa sì che lo Stato possa assumere funzioni di arbitrato tra gli strati della popolazione ed agire talora nel breve termine, a seconda della congiuntura, contro una o più  frazioni della classe dominante, inoltre, rileva Poulantzas,   questo fa sì che ai vertici dello Stato possano convivere elementi di classi e frazioni diverse le quali si collocano differentemente rispetto al potere politico (4).

Offe individua nelle società avanzate tre sistemi relativamente autonomi: il sistema economico, il sistema politico-amministrativo e il sistema normativo; mentre il sistema economico ha bisogno dell’intervento statale per eliminare le proprie disfunzioni e contraddizioni fornendone le risorse finanziarie necessarie, il sistema normativo in senso lato o socio-culturale fornisce allo Stato il consenso e la legittimazione necessaria per esercitare il potere utile alla regolamentazione dell’economia secondo forme non coercitive, dando un ruolo crescente all’apparato politico-amministrativo.

Lo Stato assume una funzione di tutore e garante degli interessi comuni, un meccanismo che non può essere identificato come “apparato” a servizio della classe economicamente predominante (Milliband), né quale “condensazione” dei rapporti di forza tra le classi (Poulantzas), vi è comunque alla base una contraddizione strutturale derivante dalla necessità di sostenere da una parte l’accumulazione e garantirne la proprietà, dall’altra continuare a mantenere la legittimazione derivante dall’essere ritenuto arbitro imparziale, ne nascono ulteriori due conseguenti contraddizioni, un “interesse istituzionale” a salvaguardare la vitalità dell’economia capitalistica quale fonte delle risorse necessarie alla sopravvivenza dello Stato stesso e del suo apparato, inoltre il suo coinvolgimento nelle contraddizioni economiche e sociali del capitalismo.

Vi è un delicato equilibrio fra Stato e mercato che corrisponde alle funzioni simmetriche della legittimazione e della accumulazione, regole formali del governo democratico sulle modalità istituzionali di accesso al potere e regole sostanziali del processo di accumulazione, le quali vengono di fatto a porre dei confini all’esercizio del potere legittimamente acquisito, ossia all’impossibilità per una democrazia di dare risposte a tutte le aspettative provenienti dal corpo elettorale, di qui la risposta strategica di selezionare le parti del corpo elettorale a cui dare una risposta negoziata, istituzionalizzando le alleanze con accordi di tipo “neocorporativo” rivolti prevalentemente al capitale oligopolistico e ai lavoratori organizzati, ne deriva una crisi dello Stato dovuta al suo crescente intervento nel tessuto economico e sociale, nonché nella impossibilità di fornire servizi sempre più estesi.

Offe contesta il concetto weberiano di razionalità burocratica quale dipendenza dalle norme giuridiche, la legittimazione della politica amministrativa dello Stato sociale avviene in termini “non-legali”, così da andare in contrasto con la razionalità politica del sistema, sono i risultati concreti a legittimare tali da spingere l’amministrazione a produrre essa stessa gli input necessari a risolvere i problemi specifici, il consenso politico ne fornirà l’avvallo facendo così dipendere le decisioni politiche da quelle amministrative e creando per tale via un doppio canale per i gruppi di pressione (5).

Rifacendosi alle due funzioni spesso contraddittorie dell’accumulazione e della legittimazione individuate da Offe, O’Connor  considera avere le uscite statali la duplice fine di incrementare il saggio di profitto con l’aumentare la produttività e la contemporanea diminuzione dei costi di riproduzione del lavoro, mentre erogazioni ed uscite non produttive hanno lo scopo di mantenere la pace sociale e incrementare il consenso.

Il crescere delle spese con una rapidità superiore alla possibilità delle entrate determina tuttavia una crisi fiscale dello Stato che viene ad evidenziare l’esistenza di una lacuna strutturale nel bilancio, sindacati del settore monopolistico e grandi società si trovano concordi nell’opporsi all’aumento della tassazione, dove una miriade di gruppi spingono sulla spesa, il potere politico innanzi alle richieste crescenti di servizi sociali reagisce non tanto secondo una logica di mercato quanto con una logica politica che genera sprechi di ogni genere.

Le molteplici pressioni tendono a sgretolare l’unitarietà dell’azione politica creando contraddizioni nel perseguire obiettivi particolari, l’esecutivo cerca attraverso la predisposizione di strumenti contabili – amministrativi di coordinare e condizionare i comitati parlamentari, altrimenti eccessivamente sensibili alle spinte particolari di breve periodo, diversa  la situazione a livello locale dove maggiore e più diretto è l’intreccio con il mondo degli affari in un potenziale contrasto tra economia locale e nazionale (6).

Fondamentale per Therborn al fine di consolidare il potere statale è la sua riproduzione  ideologica, oltrepassando la pura costrizione fisica ed economica, accanto all’ignoranza, disinteresse o mancanza di fiducia vi è l’ideologia per coinvolgere i singoli secondo tre modelli: il primo descrive agli individui quello “che esiste”, il secondo quello “che è possibile”, infine quello “che è giusto” (7), venendo in tal modo a consolidare le idee poste alla base della legittimità del potere.

Nella crisi attuale di legittimazione del capitalismo democratico Streeck vede non tanto il problema di un rapporto conflittuale tra cittadini e Stato, quanto un “malcontento” del capitale stesso determinato dal distacco tra democrazia ed economia, situazione che conduce alla mancanza “di una propria forma e di una propria legittimità” (8), tanto da suscitare problemi di legittimazione presso la popolazione degli Stati considerati democratici, si forma una egemonia della giustizia di mercato che viene istituzionalizzata a scapito della giustizia sociale, l’impossibilità di rispondere alle crescenti richieste sociali ha pertanto indotto ad una forma di “doping monetario”, quale l’inflazione e il debito pubblico, per rinviare la crisi immanente, recuperando le previsioni marxiste.

NOTE

  1. Sola G., Storia della scienza politica, La Nuova Italia Scientifica, 1996;
  2. Habermas J., La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, 1975;
  3. Miliband R., Lo Stato nella società capitalistica, Laterza, 1970;
  4. Poulantzas N., Classi sociali e capitalismo oggi, Etas, 1975;
  5. Offe C., Le trasformazioni dello Stato, La Nuova Italia, 1980;
  6. O’Connor J. F., La crisi fiscale dello Stato, Einaudi 1977;
  7. Therborn G., Come governano le classi dirigenti, Ed. Riuniti, 1981;
  8. Streeck W., Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, 44, Feltrinelli, 2013:

 

  1. Stato e mercato

 Lindblom, partendo dall’osservazione che la distinzione più significativa tra un governo e l’altro risiede fondamentalmente nel grado di sostituzione del mercato con il governo e viceversa,   ritiene vi siano solo due modi per collegare i fenomeni economici con i fenomeni politici: l’organizzazione sociale mediante l’autorità o mediante lo scambio e il mercato, ma mentre nella seconda ipotesi occorre un accordo con una reciproca rinuncia a qualcosa per ottenere qualcosa, nella prima ipotesi non vi sono costi per lo scambio.

Due sono i caratteri distintivi del tipo di organizzazione fondato sull’autorità, la struttura gerarchica o piramidale e una divisione coordinata del lavoro basata sulla specializzazione funzionale, nel modello scambio-mercato dove vi è un “rapporto di controllo deliberato” devono sussistere due condizioni, una tutela che garantisca la libertà e la proprietà personale e l’esistenza di una moneta e di un sistema di prezzi, questi ultimi hanno la funzione di un convertitore universale che permette di accelerare lo scambio e di monetizzare tutto.

Nel momento in cui nel modello di mercato entrano in gioco le condizioni di vita e i mezzi di sussistenza, si passa da una coercizione indiretta ad una coercizione diretta e personale che costringe molti a vendere la propria attività a prezzi non concordati, il controllo tuttavia in un sistema di mercato risulta essere più costoso per la necessità di offrire incentivi, è comunque nei sistemi basati sul mercato che sussiste la democrazia politica, per quanto il mercato non si proponga di per sé scopi democratici.

Sebbene vi sia apparentemente un’ampia possibilità democratica nella realtà le decisioni più rilevanti rientrano nella sfera riservata agli imprenditori e dirigenti delle grandi società a cui il governo deve riferirsi, questo fa sì che di fatto i soggetti economici esercitino funzioni pubbliche che direttamente influiscono sul livello di vita e la sicurezza economica,.

La necessità di favorire l’accumulazione del capitale quale sorgente di finanziamento pubblico, sia per le politiche pubbliche che per il mantenimento della stessa classe politico-amministrativa, favorisce una vera e propria dualità nella leadership delle poliarchie, così da avere un estremo grado di accordo e ridurre le eventuali reciproche ostilità a questioni e settori marginali,.

Due gruppi di potere vengono ad agire contemporaneamente e congiuntamente nello Stato ma solo uno di essi, il governo, deve sottoporsi a periodiche consultazioni elettorali, le imprese nella loro libertà d’azione acquisiscono pertanto una enorme influenza, derivante anche dalla loro capacità di manipolare le idee e l’informazione in generale, d’altronde nell’arena politica le possibili alternative sono piuttosto ridotte e controllabili dagli imprenditori e dirigenti delle grandi imprese, che procedono sia ai  finanziamenti diretti alle organizzazioni politiche che indiretti al bilancio dello Stato, nell’assicurarne il benessere sociale superando le eventuali crisi periodiche; si realizza quindi una democrazia limitata dagli interessi delle grandi imprese, in cui lo Stato cessa di essere un arbitro neutrale fra tutti gli interessi per diventare il nume tutelare del mondo degli affari delle grandi imprese o suoi conglomerati, si avvera quindi il motto per cui “i voti contano, ma le risorse decidono” (1).

Non vi è tuttavia accordo sulle funzioni dello Stato che, visto come una semplice arena in cui gli input sociali vengono convertiti in output politici, riacquista una propria autonomia in autori quali Krasner e Nordlinger, che superano la riduzione dello Stato al puro processo decisionale, in questa nuova prospettiva Stato – centrica, Krasner verifica l’autonomia dello Stato quale complesso di funzionari pubblici e autorità elettive nel determinare le linee principali della politica estera americana, oltre l’esistere di interessi specifici nazionali che si pongono talvolta contro gli obiettivi e gli interessi specifici dei principali gruppi economico – industriali.

Esiste pertanto una propria ideologia a cui l’agire degli elementi costituenti l’organizzazione statale si rifanno, tanto che Krasner osserva che vi è stata in tutte le presidenze una logica mercantilistica che ha difeso ad oltranza una dottrina liberista, talvolta in contrasto con gli interessi economici dei grandi gruppi nazionali che sarebbero volentieri scesi a compromessi ai fini commerciali, in sostanza viene messo in luce il vantaggio di cui godono nell’economia internazionale quegli Stati dotati di strutture “forti” (2).

Il concetto di Stato quale insieme di istituzioni è da Nordlinger  sostituito con il concetto di “rete di individui”, che occupando posizioni di governo e uffici pubblici vengono indicati quali autorità (public officials) e come tali impegnati con continuità a produrre decisioni autoritative, questi acquistano per tale via un ruolo più importante nelle preferenze rispetto a quello svolto dalle varie componenti della società civile, ne consegue che le politiche pubbliche in molti casi risentono più dei condizionamenti interni alla P.A. che di quelli esterni.

Nella difesa delle proprie prerogative e autonomia le varie parti dell’apparato vengono spesso in contrasto tra loro così che le decisioni sono nella maggior parte dei casi dei compromessi, si viene quindi a definire il concetto di “autonomia relativa” sia come misura della capacità dello Stato di attuare le politiche pubbliche da lui preferite, sia come valutazione della capacità di non rispondere a condizionamenti esterni allo Stato stesso ma di riferirsi solo ai rapporti di forza interni agli attori pubblici.

Valutando il rapporto tra capacità di dare corso alle politiche pubbliche e il grado di sostegno ottenuto dalle forze sociali si ottiene una tipologia di Stati che vanno dallo Stato forte, con alta autonomia e alto sostegno sociale, allo Stato indipendente, alta autonomia e basso sostegno sociale, dallo Stato ricettivo, bassa autonomia ma alto sostegno sociale, fino allo Stato debole, dove basso sostegno sociale e bassa autonomia statale vengono a convergere.

Elementi quali malleabilità o sensibilità dei funzionari verso i gruppi sociali, isolamento e coesione di coloro che dirigono lo Stato, elasticità ovvero la capacità dello Stato di reagire alle resistenze e la vulnerabilità ossia la capacità di attuare le politiche pubbliche sono variabili proprie dello Stato, come la separatezza, la differenziazione interna, il grado di coesione, l’esistenza di strutture adeguate per l’implementazione delle decisioni riguardano il rapporto tra società e Stato. (3)

Esponenti della “new political economy” esaltano il ruolo dello Stato all’interno delle economie contemporanee, analizzando lo sviluppo impetuoso di paesi dell’Estremo Oriente, quali Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, ne rilevano la fondamentale importanza nei processi di industrializzazione delle istituzioni pubbliche, in particolare per gli investimenti, l’innovazione e le politiche di esportazione, quello su cui studiosi quali Wade, Kim ed Evans insistono sono l’autonomia e il radicamento dell’élite di governo e della burocrazia, che creano un circolo virtuoso fondato sulla fiducia dei gruppi privati nei loro confronti, l’orgoglio di corpo delle istituzioni e una emulazione costruttiva. (4)

Nel confronto fra economicismo e logica di potenza, ossia tra le tesi opposte di Appleman Williams, e Schlesinger Jr. in cui sembrano muoversi gli U.S.A. prevale l’aspetto ideologico a cui la recente reazione nel 2016 dell’elettorato americano appare rifarsi chiaramente, vi è una stanchezza sui costi che il modello di mondializzazione ha imposto al ceto medio americano e che solo ora, con il suo progressivo impoverimento, sembra emergere chiaramente. (5)

Il ritiro degli U.S.A. fa emergere ancora con più forza la mancanza di un baricentro e le difficoltà in cui sembra dibattersi il potere pubblico nei confronti del capitale e della sua organizzazione globale, l’internazionalizzazione della tecnologia unito alla libertà di movimento dei capitali appare avere esautorato gli Stati, nella realtà si è scatenata una lotta per il controllo delle proprietà intellettuali quale elemento fondamentale per la nuova economia, lasciando esportabili beni e servizi.

E’ infatti la tecnologia, finanziaria, controllata dai grandi intermediari occidentali a prevalere sul capitale in sé, diventato “materia prima” da lavorare e rimettere sui mercati, se l’Occidente di per sé sembra non avere perso eccessivamente potere, vi è tuttavia al suo interno una redistribuzione di potere dai governi alle maggiori istituzioni finanziarie e industriali, queste ultime rispondono prevalentemente ai requisiti dei mercati i cui obiettivi difficilmente corrispondono a quelli dei cittadini, ci sono infatti tre soggetti, il sistema finanziario, il sistema industriale e quello politico, di cui due sono internazionali mentre il politico è territoriale, se non locale, pertanto limitato da confini.

Vi è una asimmetria tra investitori e cittadini, i primi possono sempre votare disinvestendo o investendo, creando rapidi movimenti globali, i secondi agiscono solo su tempi cadenzati ed in ambiti territoriali ristretti, il potere finanziario accentuato dal venire meno della distinzione tra investimenti a lungo termine e speculazione a breve, nella ricerca di un continuo incremento,riduce i salari reali sganciandoli dalla produttività, induce a spostare la produzione e impoverisce la classe media, vera base di una salda democrazia, elemento distintivo degli Stati occidentali. (6)

Il fenomeno è amplificato dal sistema finanziario che, raggiunte dimensioni notevoli, è in grado di giocare anche contro le banche centrali, imponendo agli Stati meno solidi politiche di rigore che risultano recessive e alle imprese una eccessiva liquidità per premiare investimenti a breve termine, viene in tal modo affievolito il senso di appartenenza e svuotata in parte la sovranità degli  Stati, da inclusiva la società diventa escludente con pericoli alla lunga di stabilità. (7)

NOTE

  1. Lindblom C.E., Politica e mercato. I sistemi politico-economici mondiali, Etat, 1979;
  2. Sola G., Storia della scienza politica, 607-609, La nuova Italia Scientifica, 1996;
  3. Sola G., cit., 610-617, La Nuova Italia Scientifica, 1996;
  4. Wade R., Governing The Market, Princeton University Press, Princeton, 1990;
  5. Limes, Rivista italiana di geopolitica, Chi comanda il mondo, Editoriale Gruppo Espresso, 2/2017;
  6. Penna A., La finanza occidentale domina il mondo, 173-182, in Limes, cit.;
  7. Acemoglu A. – Robinson J.A., Perché le nazioni falliscono, Il Saggiatore, 2013.

 

  1. Neocorporativismo, Istituzionalismo e neoistituzionalismo

            Nel secondo dopoguerra in Europa lo sviluppo economico assunse un andamento non comprensibile secondo i modelli della scienza politica americana,  dall’analisi sulla maggior parte degli Stati democratici europei emerse uno schema triangolare che legava esecutivo, industria e sindacati operai, secondo uno schema elaborato da Schmitter e individuato come una forma di corporativismo di Stato (1).

Le tesi sviluppate nell’approccio neocorporativo sono due: nella prima si sottolinea il crescente intervento dello Stato in termini tanto direttivi che interventisti in economia, nella seconda vi è un delegare da parte dell’autorità di poteri decisionali a rappresentanze di interessi settoriali o di categoria, definiti dagli autori anche come “governi privati”; Beer  nell’analisi dell’esperienza inglese individua il passaggio verso forme neocorporative quando le associazioni da private, in difesa e promozione degli interessi di precise categorie, diventano “semipubbliche” in quanto coinvolte in un regolare reciproco rapporto di collaborazione con l’esecutivo (2).

Nel neocorporativismo viene messo in evidenza il potere delle organizzazioni nel rapporto con lo Stato, prendendo le distanze sia dall’approccio “neomarxista” in cui predominano ancora i rapporti di classe, che da quello “pluralista” in cui si parla di una molteplicità di gruppi in continua competizione tra loro, con un potere non cumulativo ma disaggregato.

Nel neocorporativismo si istituzionalizza un sistema tripartito di potere, in cui poche organizzazioni chiave sono coinvolte nella formulazione delle politiche pubbliche e nella risoluzione dei problemi che emrgono nei rapporti tra Stato, mercato e società, dove i rappresentanti delle associazioni sindacali e delle imprese acquistano più rilevanza dei parlamentari stessi, i cittadini portatori di interessi emarginati assumono pertanto forme di protesta alternative.

Nei rapporti tra Stato e organizzazioni occorre considerare che non tutte le organizzazioni sono uguali, dovendo valutare il rapporto tra la “forza” delle strutture pubbliche e la “concentrazione” che gli interessi privati sono riusciti ad ottenere, così che ad uno Stato “forte” per compattezza ed autonomia il neocorporativismo si manifesta solo in presenza di altrettante forti organizzazioni di interessi privati, mentre in uno Stato “debole” solo interessi frammentati organizzativamente possono dare luogo al neocorporativismo, scivolando altrimenti facilmente verso forme di regime.

Le tesi di Bull e Cawson vengono ad integrarsi con la teoria sostenuta dallo stesso Cawson e Saunders, per cui l’intervento statale si distingue a seconda se riguarda la produzione, i consumi o i servizi (dual State Thesis) (3), nei tre casi vi è una diversa collaborazione che deve essere alta nella produzione ed estremamente bassa nei consumi, affidandosi alle dinamiche pluralistiche.

Superando la distinzione operata da Schmitter  tra corporativismo statale o autoritario e corporativismo societario o liberale (4), vi sono tre modelli a cui rifarsi, nel primo si tratta di un semplice sistema di istituzionalizzazione della rappresentanza degli interessi maggiori a scapito dei minori, nel secondo Lehmbruch sottolinea che le associazioni non solo intervengono nella formazione delle politiche ma vengono coinvolte anche nella loro attuazione e nel mantenimento di un diffuso consenso nel tempo, nel terzo lo Stato assume una propria precisa conformazione nella “reciproca” influenza con i gruppi interessati, tanto che lo Stato utilizza gli stessi ai propri fini e, come evidenziano Panitch e Cawson, ad uno Stato “forte” corrispondono interessi monopolistici “forti” (5).

Tuttavia perché possa affermarsi un assetto neocorporativo occorrono delle precise condizioni (6):

  1. Diffusione di una ideologia “consensuale” che riduca la propensione al conflitto;
  2. Centralizzazione e istituzionalizzazione delle strutture e del potere sindacale con una leadership estesa;
  3. Forti e autonome istituzioni statali in grado di vincolare le parti agli accordi corporativi;

vi è comunque sempre in atto la pressione delle forze sociali escluse e l’evoluzione tecnico-economica, che fa sì che emergano nuove istanze non sempre recepibili dalle strutture in essere, tanto da “liberare” nuovi interessi individuali da parte degli imprenditori, mentre si disperde la forza “collettiva” dei lavoratori e delle altre strutture.

Con gli anni Novanta di fine millennio si riscopre l’importanza delle istituzioni sia nel condizionare le scelte politiche che sull’andamento dei processi decisionali, in termini generali l’istituzionalismo esprime le seguenti affermazioni (7):

  1. Le istituzioni contano;
  2. La storia conta;
  3. Le idee contano;

si prendono le distanze sia dall’istituzionalismo tradizionale che considera le istituzioni quale “riflesso” delle forze sociali o “proiezione” delle forze politiche, che dal comportamentismo per il quale le istituzioni sono delle semplici “arene” per lo svolgimento del processo politico, né si può sottovalutare il condizionamento che le strutture istituzionali del passato esercitano su quelle successive.

Le idee a loro volta sono fonte sia di stabilità che di innovazione, è la loro percezione da parte di coloro che sono al potere che determina le decisioni, ma il valore delle informazioni da cui derivano dipende anche dal modo in cui sono pervenute, le idee quindi vengono a incorporarsi nelle istituzioni e i fenomeni istituzionali storicamente “pesati” diventano pertanto fondamentali nello spiegare le scelte collettive, le istituzioni politiche vengono concepite come strutture differenziate ma stabili nel tempo, un insieme di regole, procedure e valori che vengono a influenzare gli attori del processo politico istituzionale (8).

Già Selznick , nell’osservare il funzionamento della Tennessee Valley  Authority (TVA), aveva proposto negli anni ’50 del secolo scorso una distinzione tra organizzazione formale e stabilizzata ed organizzazione informale, nella prima prevale una leadership gerarchica e direttiva (routine leadership) tendente alla stabilizzazione e all’efficienza amministrativa, nella seconda una prevalentemente creativa (creative leadership) che lavora per ridefinire la missione istituzionale, incorporando valori e programmi per fornire all’istituzione non solo un fine ma anche una forte identità (9), secondo un approccio fortemente culturale.

Secondo una visione economica, che si rifà alla “teoria economica dell’organizzazione”, le istituzioni vengono analizzate attraverso quattro teorie: dei costi di transazione, dell’informazione, dei diritti di proprietà e dell’agenzia; minimizzazione dei costi di transazione, razionalità limitata dovuta all’incertezza delle informazioni, differenza comportamentale tra organizzazioni private  e pubbliche, opportunismo degli attori connesso all’asimmetria informativa, diventano tutti elementi di studio e riflessione.

Williamson  evidenzia come i costi di transazione siano legati a tre dimensioni principali:  la specificità dell’investimento, la standardizzazione o meno delle procedure a seguito della frequenza delle transazioni, l’incertezza che obbliga ad una minuziosità della regolamentazione dello scambio (10); anche sull’informazione vi è il ricorso alla “selezione contraria” nell’assunzione del personale a seguito di informazioni diseguali come anche un “rischio morale”, ossia la possibilità di influire sul risultato della decisione che in termini organizzativi si traduce in problemi di fiducia, lealtà e fedeltà con la dirigenza.

Huntington individua la forza delle istituzioni nell’ampiezza del sostegno che riescono ad ottenere regolando efficacemente il comportamento dei cittadini, da cui discende il livello di istituzionalizzazione consistente nelle modalità di organizzazione e funzionamento delle procedure, l’autore propone di misurare empiricamente il livello di istituzionalizzazione attraverso gli elementi dell’adattabilità/rigidità, della complessità/semplicità, dell’autonomia/subordinazione e della coerenza/disunione.

L’instabilità politica è la mancata capacità di canalizzare le richieste dando luogo ad una crescente frustrazione sociale, analogamente il potere non è che il risultato di una assimilazione di sempre nuovi gruppi sociali e nuove risorse, come tale è misurabile in termini di accumulazione mentre la quantità non è che il numero e l’intensità del vincolo dei rapporti, nonché della capacità di mobilitare persone e risorse (11).

March ed Olsen osservano essere il potere fortemente condizionato dalla routine, dalle procedure, dalle convenzioni, dalle strategie e dalle forme organizzative, mentre i processi decisionali sono spesso improntati secondo modelli di “anarchia organizzata” piuttosto che ad una “razionalità limitata” o ad una “logica incrementale”, vi sono quindi continue ambiguità e improvvisazioni che di fatto nonostante i vincoli imposti dalle regole costituzionali cambiano sostanzialmente gli interessi, le risorse, nonché le regole.

Gli autori parlano di “memoria istituzionale” che viene a plasmare l’agire degli attori, come la percezione di fiducia o diffidenza che si instaura con il sistema politico, ma le istituzioni non si limitano a definire il senso della realtà sociale, esse intervengono sui processi decisionali aumentandone la dimensione simbolica talvolta a scapito del conseguimento dei risultati stessi; all’interno delle istituzioni solitamente le scelte assumono una rappresentazione teatrale che deve assicurare all’auditorio l’esistenza di una riflessione e intelligenza nella scelta, la ponderazione di tutti gli interessi coinvolti e che i leader controllano il sistema politico-amministrativo, il simbolismo ha una tale rilevanza da essere una base del potere come il controllo delle risorse materiali.

Spesso le riforme relative alle istituzioni falliscono per la resistenza delle stesse, molte volte  vi è il tentativo di queste di modificare il loro ambiente piuttosto che adattarsi, i risultati non sono quindi in molte occasioni conformi alle aspettative ed ai programmi, questo in quanto le istituzioni sono nella realtà il frutto di tre elementi: l’individuo, l’istituzione stessa e l’insieme delle istituzioni che ne definiscono l’ambiente.

Risulta più facile iniziare una riforma che controllarne l’esito, si spera di modificare gli assetti politici ma non si riescono a controllarne gli effetti ultimi, si creano quindi dei cicli di mutamento istituzionale dovuti alle contraddizioni che il sistema contiene, degli “insolubili dilemmi” che possono riassumersi in una serie di contraddizioni quali il contrasto tra regola della maggioranza e diritti individuali, l’estensione progressiva dei diritti e la necessità dei doveri, l’autonomia dei politici e quella contrapposta dei burocrati, neutralità e responsabilità dell’amministrazione, il prevalere ogni volta di uno dei due opposti provoca il ciclo con resistenze e spinte alla riforma fino al momento opposto (12).

Se per March e Olsen gli attori politici sono guidati nei loro comportamenti più dalle necessità connesse ai loro ruoli istituzionali che da calcoli complessi, per North e Levi i governanti tendono a massimizzare le proprie entrate con solo due limitazioni, la prima concorrenziale dovendo tenere conto dei gruppi organizzativamente più potenti, l’altra relativa ai costi di transazione dovendo strutturare dei diritti di proprietà favorevoli a questi gruppi, tuttavia nel tempo vi sarà una riduzione di questi costi se le istituzioni saranno in grado di difendere tali diritti (13).

E’ stato osservato che le istituzioni hanno la funzione di un “collante” che “costringe” i diversi attori a collaborare, non solo esse sono la sede in cui ci si raffronta per prendere decisioni ma esse stesse sono il frutto di una scelta, la quale come tale ne vincolerà i componenti e ne favorirà un certo equilibrio decisionale attraverso la divisione del lavoro e la sua specializzazione, nonché la gestione dell’agenda decisionale e degli ordini del giorno, questo non vuol dire che le istituzioni si dimostrino il più delle volte efficienti, vi sono nella quotidianità degli alti costi di transazione politici che se non ridotti da modelli precisi di condotta, tanto nella competizione che nella cooperazione, si tradurranno in una situazione di declino economico che indurranno a cambiamenti istituzionali quasi sempre in modo incrementale (14).

NOTE 

  1. Sola G., Il neocorporativismo, 664-684, in Storia della Scienza Politica, La Nuova Italia Scientifica, 1996;
  2. Maraffi M. ( a cura di), La società neo- corporativa, Il Mulino, 1981;
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Panitch L. , Lo sviluppo del corporativismo nelle democrazie liberali, in M. Maraffi, cit., 133 – 162;

  1. Sola G. , cit. , 678;
  2. Sola G. , cit. , 823;
  3. March J. G. – Olsen J. P., Riscoprire le istituzioni, Il Mulino, 1992; Olsen J. P., Scienza politica e teoria dell’organizzazione. Le possibili convergenze, in “Rivista italiana di scienza politica”, 19, 3 – 22, 1989;
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  6. Huntington S.P., Ordinamento politico e mutamento sociale, Angeli, 1975;
  7. March J. G. – Olsen J. P., Riscoprire le istituzioni, Il Mulino, 1992;
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  9. Shepsle K. A. – Weingast B. R., Structure – Induced Equilibrium and Legislative Choice, in “Public Choice”, 36, 503-519, 1981.

 

Parte terza

CAPITOLO 4

 Il dualismo Stato – Religione

             La Religione può essere intesa sia come offerta alla salvezza dell’uomo, sia come funzione sociale ed economica generale, che nella Religione vi sia una garanzia sui valori morali relativi alla vita associata è un’osservazione già sollevata da Platone e ripresa in età moderna da Kant, il quale tuttavia nell’assolutezza del comando morale non trova garanzia di una sua applicazione pratica al livello individuale, la Religione tende a fornire una garanzia a livello individuale, in cui Hoffding viene a distinguere tra Religione quale conservazione dei valori e Fede religiosa quale certezza della loro connessione con la realtà, la Religione per tale via acquista una chiara utilità biologica e sociale di rafforzamento dei vincoli sociali, questo tanto nelle società primitive che nelle società moderne, come già osservato da Bergson  (1).

Il rapporto tra Stato e Religione varia a seconda della tipologia autoritaria o meno dello Stato e del rapporto di ciascuna Religione sia con le altre confessioni che con lo Stato stesso, il concetto di eguaglianza nella cittadinanza, quale unica identità riconosciuta dallo Stato moderno, risulta essere una cartina di tornasole nella sua accettazione da parte del credente e dei rappresentanti religiosi, vi è in questo la libertà di coscienza e l’impossibilità di avere una propria libertà assoluta che venga di fatto a limitare la libertà altrui, perdendo quella che nello Stato democratico moderno è stata la conquista dell’eguale libertà, dove la laicità è stata l’elemento fondante dello Stato moderno, una laicità che non deve essere perdita di valori a fronte del dissolversi dell’individuo in un Ego estremo come non deve perdersi in un collettivismo esasperato (2).

Lo Stato democratico moderno nella sua laicità acquista il concetto di tolleranza e in questa ammette i vari insegnamenti religiosi, si pone tuttavia il problema del rapporto sia con le Religioni istituzionalizzate, mediante propri apparati, sia con le Religioni non istituzionalizzate ma assolutiste nella propria fede, ricordando che, come osserva Flores D’Arcais, “La religione è compatibile con la democrazia solo se addomesticata , cioè convertita all’autonomia assoluta della norma civile rispetto alla legge religiosa” (3), anche se vi è sempre un influsso di gruppi di pressione, religiosi o laici che siano, sulla legislazione in un gioco democratico.

Tuttavia può esservi una forte commistione tra sfera statale e sfera religiosa, come attualmente nelle società arabe, dove possono esserci degli aspetti coercitivi ma più spesso concessioni di particolari favori legati alla Religione, rifacendosi agli aspetti più propriamente culturali ed identitari della religione, per cui le società arabe vedono con scandalo atteggiamenti anticonformisti che minano l’unità dei fedeli; i governi dei paesi islamici, nell’assecondare tale visione  attraverso le credenziali religiose, ottengono pertanto una legittimazione che non può fondarsi su elezioni per una mancata democrazia di base (4).

Lo stesso cristianesimo ha assunto forme diverse in Occidente ed Oriente, assumendo nel cattolicesimo una valenza fortemente temporale nel rivendicare una supremazia papale in politica, un cesaropapismo figlio della commistione tra potere temporale e spirituale del tardo Impero romano, affinatosi nelle turbolenze dell’alto medio evo, fino alle lotte con l’Impero e alla costituzione di uno Stato della Chiesa.

A sua volta in Oriente nel campo Ortodosso, a seguito della presenza di un più saldo e continuativo sistema imperiale, con un passaggio dall’Impero Romano di Oriente all’Impero Bizantino, si è radicata una forma di cristianesimo sostenuto dal potere politico e da esso dipendente, a cui si doveva obbedienza e sostegno quale unione visibile del cielo e della terra, una concezione ereditata dalla Russia degli Zar, il sistema ecclesiale risultava quindi una delle articolazioni, anche se con larga autonomia, del potere statale.

Un’ulteriore configurazione si ha con il cristianesimo di matrice protestante, che viene a porsi tra l’affermazione calvinista ed ugonotta di una democrazia assembleare dello Stato, al sostegno luterano ai Principi riformati del Sacro Romano Impero Germanico.

Tradizione, dominazione, gerarchia e incorporazione sono i quattro principi su cui poggia la valenza sociale delle Religioni che Gauchet  sottolinea, queste tuttavia sono state rovesciate in Occidente negli ultimi secoli nell’individualismo, nell’uguaglianza di natura, nella rappresentanza e nell’invenzione pratica dell’avvenire, il ribaltamento è avvenuto tuttavia solo nell’ambito occidentale, accettato dalla Chiesa cattolica dopo lunghe lotte scindendo il piano metafisico dall’ordine politico, ed è divenuto così normale da destare sorpresa le reazioni del mondo orientale islamico.

La “globalizzazione mercantile”, come la definisce Gauchet  per  distinguerla dalla prima globalizzazione imperialista delle colonizzazioni del XIX e prima metà del XX secolo, comporta una adesione alle strutture tecniche occidentali da cui ne consegue anche una adesione culturale, acquisendone stili, pensieri e forme culturali, ma l’assimilazione deve avvenire in tempi brevi e questo conduce allo scontro culturale per il mancato adattamento, quello che in Occidente è avvenuto in secoli, dal XVI secolo in poi, oggi, al contrario, deve avvenire in pochi anni.

Questo porta ad inevitabili scontri, a rigetti di sistema di fronte all’impossibilità di una integrazione totale e di una assimilazione culturale completa, nasce da qui il fondamentalismo quale richiamo ai fondamenti della religione nel vivere quotidiano, ricerca di riscatto nel riferirsi ai valori primordiali originali da contrapporre, in una ambivalenza di attrazione/repulsione nei confronti dei valori occidentali imposti dalla globalizzazione (5).

Nell’ambito delle lotte di secolarizzazione delle Indie britanniche degli anni Trenta il pakistano Mawdudi elabora il concetto di “Stato islamico” nel quale l’Islam è fondamento e cuore di tutti gli aspetti sia istituzionali che culturali, lo “Stato islamico” non è semplicemente lo “Stato dei musulmani” ma è qualcosa di superiore, totalitario, come tale entra in conflitto con le promesse dei totalitarismi del XX secolo, sia marxisti-leninisti che nazional – fascisti o nazional-socialisti, non a caso l’elaborazione del pensiero di Mawdudi avviene nell’età del trionfo dei totalitarismi, il suo pensiero tuttavia rimane latente a causa dell’urgenza delle lotte di decolonizzazione e del modello totalitario marxista – leninista, rappresentato dall’U.R.S.S., che sembra trionfare e fornire non solo il modello ma anche i mezzi per la lotta, si ha quello che fu definito come il “socialismo arabo” dai contorni piuttosto incerti.

I totalitarismi fornivano il sogno di un radioso futuro in cui credere e per cui lottare, essi avevano colto dalle religioni il concetto di speranza, desiderio di comunità, identificazione e la relativa ritualità adattandola al concetto di forza, il loro fallimento conclamato negli anni Ottanta del ‘900 conduce a due opposte reazioni: nell’Occidente al dissolversi in un continuo presente senza un valido sogno nel futuro, desiderio di realizzare se non per utilizzarlo nel presente, nel mondo islamico al passatismo fondamentalista e quindi al recupero del pensiero di Mawdudi quale unica alternativa valida, l’identità ereditata dal passato quale collante di una futura comunità, ancor più di fronte alla più insidiosa seconda globalizzazione commerciale e finanziaria, assorbitrice e al contempo annullatrice delle identità sociali nell’individualismo.

Emergono l’indifferenza che nell’Islam diventa quietismo o fatalismo e reattiva ambizione politica globale che si trasforma in un virulente espansionismo, tuttavia nella realizzazione pratica del messaggio di Mawdudi emergono le differenze esistenti all’interno del mondo islamico tra sunniti e sciiti, i primi privi di una salda organizzazione religiosa al contrario degli sciiti che possono appoggiarsi su una forma istituzionalizzata di religione, la rivoluzione è così guidata, elaborata ed istituzionalizzata in una nuova forma di Stato opposto al modello laico- razionale occidentale.

Nel mondo sunnita vi è una frammentazione operativa e il richiamo a un mitico Califfato delle origini da ricostituire, dove la legittimazione avviene nei fatti e nel richiamo mitico; d’altronde il richiamo all’educazione, come osserva Gauchet, favorisce inizialmente l’adesione ad una religione rinforzata, ad una fede personale, come avvenne in Europa dalla Riforma ai Lumi, solo successivamente si risolve lentamente in una crescente capacità critica, ma il rapporto con l’Islam fa si che la soluzione non potrà che essere per ora la sintesi tra lo Stato razionale di matrice occidentale ed i valori religiosi, in che modo declinati sarà da vedere.

NOTE 

  1. Abbagnano N., Dizionario di filosofia, Voce: Religione, UTET, 1971;
  2. Flores D’arcais P., Undici tesi sulla laicità, 3-13, in Laicità o barbarie, Micro Mega ;

4/2015;

  1. Flores D’Arcais P., cit., 6; Micro Mega 4/2015;
  2. Whitaker B., Vivere senza Dio in Medio Oriente (Società, Stato, Religione), cit.,60, Micro Mega, 4/2015;
  3. Gauchet M., Le cause del fondamentalismo islamico, cit., 159-185, Micro Mega, 4/2015.

 

CAPITOLO 5

Al di là dello Stato: organizzazioni internazionali e corporance , dal pubblico al privato

              La rete comunicativa che ha progressivamente avvolto il mondo in questi ultimi decenni, sia Internet quale strumento di conoscenza e lavoro o semplicemente i Social Network, ha rivoluzionato i rapporti di potere tra Stati e tra questi e le società od organizzazioni private, la possibilità di superare con l’informazione le barriere fisiche e di accumulare elaborandoli enormi masse di dati ha fatto crescere dei nuovi poteri, che sembrano sfuggire al controllo statuale e per tale via pubblico ma anche accelerato o consolidato nuove gerarchie tra Stati e favorito i Superstati a cui l’Europa ha cercato di conformarsi.

L’elemento su cui si è fondata la rivoluzione appena descritta è l’algoritmo e la lotta intrapresa per il suo controllo, questi strumenti progressivamente hanno allargato le loro capacità fino a diventare talmente pervasivi da modificare i destini economici e politici di interi Stati e comunità, arrivando a dettarne l’agenda politica (1).

L’algoritmo non è mai neutro e riflettente la realtà, esso non rappresenta la realtà ma ne costruisce una versione propria adattandola all’utente, le informazioni che propone sono gerarchizzate secondo i desiderata del costruttore dell’algoritmo stesso, vi è un’assenza di trasparenza sui principi e parametri del suo funzionamento unita ad una asimmetria informativa, che permette di creare delle bolle informative intorno all’utente finale, conquistandone gli spazi del suo agire.

La massa dei dati a sua disposizione unita alla capacità di analisi secondo modelli psicometrici, conduce alla possibilità di manipolare lo scenario politico elaborando masse di messaggi personalizzati, sia in positivo per acquisire voti che in negativo per scoraggiare l’elettorato degli avversari, quanto avvenuto recentemente nelle ultime elezioni negli U.S.A., ma anche nel referendum per la Brexit o in recenti casi analisi di votazioni, ha indotto la Commissione europea a chiedere chiarimenti a Google, ma ormai gli algoritmi una volta creati tendono a replicarsi e implementarsi rendendone difficile il controllo delle caratteristiche innovate agli stessi tecnici (2).

Davanti a un tale pericolo vi è stato ultimamente una forte reazione statale, sia degli U.S.A., che della Cina e della Russia, se ne è discusso al vertice di Taormina del maggio  2017, si tratta di “controllare chi controlla” la programmazione degli automatismi, al fine di evitare una totale perdita di controllo dei sistemi con un rischio di instabilità negli equilibri mondiali e cosa ancora più grave alle varie forme democratiche; un pericolo nato all’interno delle stesse democrazie quale risultato collaterale indesiderato della loro dinamicità, un ulteriore salto di qualità nella manipolazione del consenso che da esterno e generalista diventa interna e personalizzata, in un potenziale enorme conflitto di interessi che avvolge l’intero pianeta e a cui volenterosamente si prestano gli stessi utenti – cittadini, concentrati nel loro apparentemente infinito spazio ma nella realtà puntiforme.

Gli U.S.A., campioni della globalizzazione, di fronte all’accelerazione sovranista dei suoi alter ego asiatici tende anch’esso a riproporre la centralità dello Stato, l’uso che della Rete è stato fatto prima dalle organizzazioni non governative a fini politici (3) e la conseguente reazione che vi è stata da parte della Russia quale Stato, ha evidenziato l’alto potenziale destabilizzante che in essa si nasconde; al contempo si deve ricordare che come le istituzioni e le forze politiche hanno bisogno di strumenti opachi e sempre negabili per agire, altrettanto le nuove forze globali hanno bisogno dell’organizzazione statale per assicurarsi una base stabile e consolidarsi (4).

In questo intreccio tra contrapposizioni e alleanze vi è il pericolo che maturi l’idea e nasca la volontà di riunire in una sola élite il potere politico e quello informatico, dove la promessa di liberazione di Internet si trasformi in un condizionamento determinato dallo strapotere degli attuali monopoli; finanza e capacità automatica di elaborazione, velocità di informazione globale e sua manipolabilità, fanno sì che il potere si concentri in relativi pochi snodi dove risiedono le capacità tecniche necessarie al calcolo, solo apparentemente neutre mentre nella realtà sviluppate secondo precise ideologie.

Lo sviluppo della finanza e la deterritorializzazione dell’economia avvenuta grazie allo sviluppo dell’informatica e alla crescita della potenza di calcolo, ha favorito l’espansione e il mantenimento dell’unica superpotenza restata dopo la guerra fredda, ma ha al contempo poste le premesse per la crisi della statualità, una crisi che è venuta ad investire gli stessi U.S.A. per la perdita di lavoro qualificato della classe media, indebitata dalla promessa mancata di una crescita di ricchezza finanziaria continua, la quale in molti casi è venuta a saldarsi con la criminalità organizzata.

Il modello U.S.A. che si è imposto ha spinto alla creazione di unità territoriali più estese, quali l’U.E., ma ha anche permesso all’unica superpotenza restata di finanziarsi durante l’espansione della sua potenza, delocalizzando le più costose produzioni manifatturiere, comprimendone i costi, fino all’attuale crisi di deindustrializzazione spinta che rischia di intaccare gi stessi sistemi industriali strategici necessari al mantenimento del suo primato, provocando contemporaneamente l’accennata crisi sociale lavorativa.

Altro fenomeno collaterale è stata l’impetuosa crescita di alcuni Superstati, quali la Cina, che acquisiscono ruoli di potenza regionale sempre più autonomi, sebbene legati finanziariamente ed economicamente per gli sbocchi di mercato agli U. S. A.

In tutto questo, strutture collaterali, quali le Agenzie di rating, provvedono a sostenere il mercato finanziario americano, essendo gli attori dominanti di quello stesso mercato nel quale avviene il consumo, ma anche potenziali strumenti di lotte politico-finanziarie che acquistano valenze politico – strategiche globali, entrando per tale via nell’alta strategia degli U.S.A. (5).

La debolezza degli Stati minori è inoltre evidenziata dall’operare delle organizzazioni umanitarie, il loro agire ha in molti casi  un’ambivalenza di fondo, oltre a dimostrare in modo evidente la debolezza delle strutture in cui agiscono, possono essere la proiezione di concentrazioni di potere che operano in termini ideologici e non neutri, una forma apparentemente neutra di intervento per perseguire fini politico – ideologici, quali strumenti di accordi tra poteri globali privati  e Stati su altri Stati, una serie di scatole cinesi che impediscono di individuarne le fonti di finanziamento e le responsabilità, coprendosi nella ricerca del conseguimento dei fini umanitari, i diritti umanitari quale strumento di potere (6), tanto da essere considerate potenzialmente come Stati diffusi senza territorio, novelli Cavalieri di Malta.

Questa crescita esponenziale di poteri diffusi che hanno messo in crisi molti Stati nel mondo hanno tuttavia paradossalmente bisogno di una loro territorializzazione e di tecnologia, riemerge quindi l’importanza delle caratteristiche sociali, territoriali e politiche dei singoli Stati, la coesione culturale delle loro élite, che concentrando i poteri li riconducono alla territorialità, aumentando ulteriormente la propria potenza e pertanto il potere sugli Stati minori, le capacità tecniche che vengono così accumulate costituiscono la base su cui differenziare i livelli degli interventi, da quello fisico diretto e indiretto, a quello smaterializzato della comunicazione e della finanza, fino a quello dell’attacco cibernetico sulle strutture e reti altamente informatizzate per gli Stati più forti e i Superstati.

NOTE 

  1. Bussi M., Merkel dice basta allo strapotere di Google e Facebook, in Milano Finanza del 29/10/2016;
  2. Vitali Gentilini F., Il lato oscuro degli algoritmi e dei loro padroni, in Limes, Chi comanda il mondo, 2/2017;
  3. Mainoldi L., George Soros: il potere ombra contro Trump, in Limes, cit., 2/2017; Macchi A., Metodo Belgrado: i segreti delle rivolte colorate. A che servono i servizi, in Limes, 7/2014;
  4. Dottori G., La valenza geopolitica del complotto, in Limes, cit. 2/2017;
  5. Sankaran K., L’egemonia gramsciana delle agenzie di rating, in Limes, cit., 2/2017;
  6. Mainoldi L., George Sores: il potere ombra contro Trump, cit., 2/2017.

 

CONCLUSIONI

             Già Theodor W. Adorno aveva osservato che i nuovi media che si erano imposti nel Novecento, radio, riviste illustrate, film, televisione, avevano comportato trasformazioni tanto nell’economia che nella politica, imponendo nuove forme di controllo che si sovrapponevano a quelle tradizionali dell’autorità e della religione, il rischio era l’azzeramento della individualità dietro l’apparenza di un trionfo dell’individualismo narcisistico, che manifesta chiaramente la debolezza di un Io manipolabile (1).

L’ulteriore salto di qualità è avvenuto a cavallo del Millennio con l’informatica, prima con la diffusione di Internet e successivamente con la creazione di una rete vastissima di Social Network, che ha creato uno Stato virtuale dall’apparenza libertaria ed anarchica, ma nella realtà controllatissimo da una élite anonima e a sua volta non controllabile democraticamente, raggiunta la massa critica e considerata la sua superiorità di velocità e quantità nella trasmissione ed elaborazione dell’informazione  essa ha posto il dilemma di un possibile esautoramento dello Stato, ma più probabilmente di un suo controllo antidemocratico nell’apparenza di una democrazia, effettuato dall’incontro di una élite con una classe di tecnocrati  con il rischio che il sistema divori in ultima istanza se stesso, sostituendo rovinosamente la capacità di mediazione della politica attraverso dibattiti surrettiziamente controllati.

E’ quella che Ferraris descrive con una “mobilitazione totale” (2), automazione, dinamizzazione e iper-registrazione, unite ad una crescita esponenziale della capacità di calcolo, conducono ad un possibile asservimento, mentre la smaterializzazione e la delocalizzazione riunita alla centralizzazione né impediscono un controllo autenticamente democratico, la burocrazia weberiana appare ridotta all’impotenza, un vecchio rudere per le classi minori, tuttavia nei fatti solo gli Stati più grandi dotati tecnologicamente di competenze e mezzi, possono attraverso la capillarità burocratica essere il centro di potere che controllano e coordinano i centri minori, economia e istituzioni vengono nuovamente a saldarsi ad un livello più alto a danno e con una capillarità più estesa, ma meno evidente, con gli Stati minori.

Vi è un rischio per la democrazia in quanto l’aspetto del dibattito e del controllo democratico si riversa, per i problemi di tutto il pianeta, alle valutazioni utilitaristiche dei soli cittadini ed élite di questi Superstati, ma è la conseguenza del concetto di impero, pure esistente di fatto ma non chiaramente esprimibile a cui le Organizzazioni istituzionali internazionali dovrebbero porre dei limiti, seppure tenui ed ambigui, si tratta di quello che Alberoni definisce un nuovo “Stato nascente” (3).

NOTE 

  1. Adorno T. W., Massa e leader, in “Almanacco di filosofia”, MicroMega, 5/2011;
  2. Ferraris M., Mobilitazione totale, Laterza, 2015;
  3. Alberoni F., Genesi, Garzanti, 1989.

 

EPILOGO

             Lo Stato etico che l’idealismo e la Rivoluzione francese nella loro esaltazione romantica hanno prodotto, nel suo incontro con il razionalismo positivista e il nazionalismo,

si è tradotto in una volontà di potenza sfociata nello “Stato etico totalitario” del Novecento, vi è un unico filo dalle avventure napoleoniche, figlie degli eserciti rivoluzionari organizzati da Carnot, e le guerre totali del secolo scorso.

Un immenso tributo pagato in dolore e sangue dall’Europa, in particolare dalle classi contadine, affittuari o piccoli / medi proprietari che fossero, ricordo da bambino negli anni ’60 la nonna vestita di nero seduta all’ingresso della casa colonica guardare la strada aspettando il ritorno, mai avvenuto e sempre sperato, del primogenito disperso a Cefalonia, i piedi congelati del fratello gemello di mio padre, i racconti reticenti e a sprazzi della guerra nei Balcani di mio padre, delle prigionie in Germania e in Africa dei due zii, ma anche la desolazione raccontata dai reduci che tornati dopo anni e anni, se non 10 come il nonno materno dopo l’impresa di Libia e la Grande Guerra, trovavano la casa diroccata ed i terreni devastati , impraticabili e intossicati dai gas per gli esplosivi, duri come il cemento mia madre bambina con la sorellina di pochi anni partire per farsi dare il latte, una sofferenza immensa voluta ed offerta allo Stato – Dio immaginato da Hegel ma monopolizzato kafkianamente da cattivi leader sacerdoti (1).

Nella seconda metà del secolo lo Stato acquista, almeno in Occidente, un volto umano con il welfare ed il boom economico, l’etica viene addolcita, resa positiva dal superamento del nazionalismo e della pura volontà di potenza wagneriana ad esso collegata, ma la caduta della cortina di ferro e la conseguente globalizzazione promettono un benessere  infinito, esteso a crescenti masse, una promessa che si risolve in fallimenti di alcune aree geografiche, prevale l’idea di uno “Stato economico” che si risolve in un indebolimento dei piccoli e medi Stati, mentre si formano potentati privati talmente estesi, su interi continenti, da essere trattati e paragonati come veri e propri Stati sui generis, da essere coinvolti da pari a pari in progetti e pianificazioni geo-strategiche.

L’abbattimento dei costi con la delocalizzazione produttiva accompagnata da un accentramento finanziario e tecnologico nell’unica Superpotenza restata, permette agli U.S.A. di finanziare il suo controllo globale ma diventa al contempo elemento di una crisi dovuta alla bulimia che tale sistema comporta, una deindustrializzazione talmente spinta da provocare una crisi sociale lavorativa una volta manifestatasi la crisi finanziaria dei subprime e del fallimento di Lehman Brother, l’esplodere della bolla speculativa mette a nudo la mancanza di risorse della middle class statunitense, del suo vivere a credito per sostenere il sistema, ma blocca anche l’afflusso di capitali dall’estero, specie cinesi, e fa emergere i profondi squilibri commerciali innanzitutto a favore di Cina e Germania.

La Germania nella sua espansione commerciale si fonda su una “etica monetaria” che diventa “etica di Stato” austerità in conflitto con la visione mediterranea di una continua espansione della base monetaria, l’U.E. entra in tensione nel conflitto tra Stati con un esteso welfare e austerità propria di uno Stato dall’etica monetaria, la mancata promessa della globalizzazione crea pertanto una serie di crisi in cui lo Stato sembra tra l’altro perdere i suoi connotati a favore di altre entità private, ma al contempo i conflitti commerciali tra gli  Stati più forti sembrano ridare fiato agli stessi, che spinti dai loro cittadini elettori cercano di riprendere la centralità di una lotta che è anche una ridefinizione dello Stato stesso quale potere (2).

NOTE 

  1. Mosse G. L., L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, Laterza,1982; Mosse G. L., Il fascismo. Verso una teoria generale, Laterza, 1996; Petacco A. , Storia del fascismo, Curcio ed., 1982;
  2. VV., U.S.A. – Germania duello per l’Europa, Limes, 5/2017; AA.VV., Chi comanda il mondo, Limes, 2/2017; Giardina, Biografia del Marco Tedesco, Giunti, 1996.

 

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(Relazione presentata al For. Com. – Roma)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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