Etichettatura nelle produzioni alimentari per conto terzi

Redazione 24/09/04
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Vincenzo Pacileo

Una delle caratteristiche più peculiari e interessanti della materia alimentare è, anche per il giurista, la sua natura interdisciplinare, spaziante tra scienza, diritto e tecnologia.
A sua volta la disciplina dell’etichettatura coinvolge sul piano giuridico molteplici profili, da quelli di diritto civile (per gli aspetti relativi al marchio e alla concorrenza sleale) a quelli di diritto amministrativo (per le prescrizioni inerenti gli obblighi di etichettatura, gli illeciti amministrativi, l’etichettatura ingannevole), passando attraverso quelli di rilevanza penale (come la frode in commercio, l’ uso di marchi e segni distintivi mendaci).
Né va dimenticata la disciplina di cui al d.lgs. 74/1992, appositamente dedicato alla pubblicità ingannevole, e per la quale la competenza è affidata alla Autorità garante della concorrenza e del mercato, salvo il ricorrere di fattispecie penali allorchè l’interessato non adempia ai provvedimenti inibitori dell’Autorità.

Nell’ambito delle questioni di etichettatura un aspetto di significativo rilievo, sempre più prominente, ma forse ancora poco esplorato, riguarda il problema dei riflessi in etichetta della produzione per conto di terzi committenti.
Schematicamente possiamo dire che tale problema coinvolge:
a) la questione della indicazione di provenienza del prodotto
b) la questione dell’uso del proprio marchio per contrassegnare prodotti fabbricati in realtà da terzi
c) la questione della etichettatura ingannevole e delle sue conseguenze sanzionatorie.

Prima di andare oltre dobbiamo premettere che il marchio è quel contrassegno che identifica un determinato produttore sul mercato rispetto a tutti gli altri del medesimo settore.
Esso identifica e garantisce la provenienza del prodotto.
Si discute se esso comporti anche una garanzia di qualità. La risposta è generalmente negativa; ma dal punto di vista del consumatore il marchio costituisce anche una garanzia di qualità (perché se quel determinato marchio fidelizza il consumatore è perché quest’ultimo apprezza i prodotti che lo recano), e comunque è lo strumento simbolico che ne orienta la scelta sul mercato.

La tutela della corretta indicazione di provenienza è un obbligo il cui rispetto è salvaguardato da norme di carattere sia penale che amministrativo.
L’art. 515 cod. pen. vieta e punisce la consegna all’acquiente di cosa diversa per qualità, origine e provenienza da quanto dichiarato (per es. in etichettatura) o pattuito.
L’art. 517 cod. pen. a sua volta vieta e punisce la messa in commercio di prodotti industriali con marchi ingannevoli sulla origine, provenienza o qualità del prodotto.
Ai sensi dell’art. 2, d.lgs. 109/92 l’etichettatura del prodotto (o la sua pubblicità) <non deve indurre in errore l’acquirente sulle caratteristiche del prodotto alimentare e precisamente sulla natura, sulla identità, sulla qualità, sulla composizione, sulla quantità, sulla conservazione, sull’origine o la provenienza, sul modo di fabbricazione o di ottenimento del prodotto stesso>.
In termini analoghi dispone l’art. 13, l. 283/1962, con disposizione la cui violazione costituisce illecito ora depenalizzato (o, secondo alcuni, addirittura abrogato), ma che è stata a lungo un cavallo di battaglia della giurisprudenza in materia, con insegnamenti interpretativi che ancora possono essere ripresi all’occasione per la loro validità più generale.
Naturalmente, da tenere presente è anche l’art. 3, d.lgs. 109/1992, il quale tra l’altro impone l’inserimento in etichetta del nome o della ragione sociale o del marchio depositato e della sede del fabbricante o del confezionatore o di un venditore stabilito nella CE, nonché della sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento.

Orbene, a conferma dell’obbligo di precisa – direi puntigliosa – indicazione di provenienza ricordiamo subito che la giurisprudenza penale ha riconosciuto la ricorrenza della frode in commercio (art. 515 cod. pen.) in un caso in cui non era indicata la provenienza di sacchi di farina dal vero produttore, e la violazione dell’art. 517 cod. pen. nel caso di un produttore che aveva messo il proprio marchio su panettoni senza specificare adeguatamente chi li aveva effettivamente fabbricati.
In senso contrario (ma isolatamente) si è preteso affermare che:
<Non è ingannevole la etichetta di un prodotto dietetico ove il luogo di produzione è indicato come se lo stabilimento fosse del distributore nel mentre si tratta di una produzione in conto terzi in quanto la inesattezza dell’etichetta è irrilevante all’effetto di creare inganno nel pubblico dei consumatori ai quali non interessa la proprietà dello stabilimento ma il luogo di produzione e l’identificazione del soggetto che di tale produzione si assume la responsabilità (Giurì Codice Autodisciplina pubblicitaria, 24 maggio 1988, Soc. Bonomelli c. Soc. Quaker Chiari e Forti – Rass. Dir. Farm., 1988, 812).
Se si dovesse intendere l’assunzione di responsabilità di cui si parla nella decisione come pura e semplice conseguenza del fatto di essere responsabili civilisticamente di fronte all’acquirente, quanto affermato sarebbe sicuramente vero (v. per es. art. 3, co. 3, d.p.r. 224/88 – sulla responsabilità da prodotto difettoso – per cui viene considerato produttore chi comunque appone il proprio marchio sul prodotto).
Ma questa (ovvia) conclusione non risolverebbe il problema di fondo della correttezza della etichetta, che si pone in termini diversi.

Nel passato la dottrina riteneva sussistente il mendacio ingannevole allorchè l’intero prodotto non provenisse da chi vi appone il proprio marchio (senza specificare la sua reale provenienza).
E così la giurisprudenza all’inizio degli anni ’80 aveva ravvisato la violazione dell’art. 517 cod. pen. in un caso in cui una nota casa automobilistica commercializzava sul territorio nazionale col proprio marchio, senza altra specificazione, veicoli prodotti all’estero.
Peraltro, fu proprio in quella vicenda che il giudice di appello fissò il principio della legittimità dell’uso del marchio su prodotti fabbricati da terzi purchè sussistano alcune condizioni, e in particolare che: a) la lavorazione avvenga secondo le dettagliate istruzioni del committente e b) sotto la sua sorveglianza, in modo da garantire uniformità e qualità del prodotto come se fosse fabbricato dal committente medesimo.
In quest’ottica anche la sentenza sopra citata sui panettoni affermò il principio: «non può negarsi che l’imprenditore, nel campo dell’atttività industriale, possa affidare a terzi subfornitori l’incarico di produrre materialmente, secondo caratteristiche qualitative e ricette pattuite con l’esecutore, un determinato bene, e che possa imprimervi il proprio marchio con i suoi segni distintivi e quindi porlo in commercio».

In senso liberalizzante va anche la legge sui marchi n. 929 del 1942, che consente, dopo la riforma del 1992, la cessione del marchio senza cessione di azienda (art. 15), il che è quanto dire che il nuovo titolare del marchio non è tenuto a utilizzare gli stessi strumenti produttivi che consentito al precedente titolare di fabbricare i prodotti conosciuti sul mercato con quel marchio.
E’, però, significativamente stabilito (in particolare nel caso di licenza non esclusiva) che il licenziatario deve obbligarsi espressamente a <usare il marchio per contraddistinguere prodotti o servizi eguali a quelli corrispondenti messi in commercio o prestati in territorio dello Stato con lo stesso marchio dal titolare o da altri licenziatari>.
Più in generale la normativa pretende che <dal trasferimento o dalla licenza del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico>. Tale principio è di una evidenza, anche al fine della nostra esposizione, che non merita ulteriore commento.

Nella stessa direzione – e, anzi, oltre – va pure la legge 192 del 1998 sulla subfornitura.
Ivi viene innanzi tutto precisato che <<con il contratto di subfornitura un imprenditore si impegna a effettuare per conto di una impresa committente lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima, o si impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente>> (art. 1, 1° co., l. 192/1998).
E ancora: <<Nel contratto di subfornitura devono essere specificati: i requisiti specifici del bene o del servizio richiesti dal committente, mediante precise indicazioni che consentano l’individuazione delle caratteristiche costruttive e funzionali, o anche attraverso il richiamo a norme tecniche che, quando non siano di uso comune per il subfornitore o non siano oggetto di norme di legge o regolamentari, debbono essere allegate in copia>> (art. 2, 5° co., l. 192/1998).
La sintesi normativa di queste prescrizioni è nel senso che il subfornitore ha la responsabilità <del funzionamento e della qualità> di quanto gli è stato commissionato (art. 5, 1° co., l. 192/1998).
Si accorda perfettamente con questa impostazione evolutiva dei rapporti di produzione – orientati sempre più a demandare a terzi alcune delle fasi produttive – o perfino tutte – la massima estrapolabile da una recente sentenza della Cassazione secondo cui:
<Non è configurabile il reato di cui all’art. 517 c.p. nel caso di prodotti recanti il marchio di fabbrica di una certa ditta e l’indicazione della sua sede legale, i quali siano stati in realtà fabbricati altrove (nella specie, all’estero), quando il processo di fabbricazione sia stato quello indicato dalla ditta medesima e da essa periodicamente controllato> (Cass. 7 luglio 1999, Thun).

Quali le conclusioni che si possono trarre a proposito dei criteri che devono presiedere al contenuto della etichettaura di un prodotto fabbricato da terzi per conto di un certo committente?
Il primo principio di ordine generale è che può ammettersi la cesura tra produttore materiale del bene e indicazione di provenienza da un diverso soggetto.
Ciò non può, certo, avvenire quando il committente si limiti a commissionare a terzi la produzione senza intervenire o interferire su di essa in alcun modo.
Tale scissione è, invece, legittima alla condizione che egli conservi un penetrante controllo qualitativo sul bene.
In questo caso il bene prodotto da terzi non sarà difforme da quello che potrebbe essere fabbricato in stabilimenti diversi appartenenti tutti allo stesso produttore.
Nel caso, invece, come si diceva, di pura committenza all’esterno in assenza di queste caratteristiche, chi commercializza il prodotto ben potrà apporvi il proprio marchio (di commercio), ma purchè l’etichetta contenga una adeguata specificazione del reale produttore del bene, con diciture del tipo “prodotto da…per…”
Su questa linea si era già espressa una sentenza del 1994, relativa a un prodotto lattiero di una Centrale del latte, che ravvisò l’ingannevolezza della etichettatura (allora ai sensi dell’art. 13, l. 283/1962) proprio per difetto di tale precisazione.

Vincenzo Pacileo
Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica di Torino

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