Epidemia colposa: può avvenire anche per omissione?

Le Sezioni unite chiariscono se il delitto di epidemia colposa può essere integrato anche da una condotta omissiva: vediamo in che modo.

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Le Sezioni unite chiariscono se il delitto di epidemia colposa può essere integrato anche da una condotta omissiva: vediamo in che modo. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.

Corte di Cassazione -SS.UU. pen.- sentenza n. 27515 del 10-07-2025

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Indice

1. Il fatto


Il Tribunale di Sassari assolveva l’imputato, perché il fatto non sussiste, dal reato di cui agli artt. 40, secondo comma, 438, primo comma, e 452, primo comma, n. 2, cod. pen., per avere cagionato, in qualità di delegato del datore di lavoro ex art. 16, comma 3-bis, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, per colpa – consistita in negligenza, imprudenza, imperizia e inosservanza degli obblighi di cui all’art. 77, comma 4, D.Lgs. cit. – un’epidemia, sviluppatasi all’interno di un Ospedale civile.
Ciò posto, avverso questa decisione ricorreva direttamente in Cassazione, ai sensi degli artt. 569 e 606, lett. b) cod. proc. pen., il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sassari, denunciando come erronei sia il fatto che la previsione dell’art. 40, secondo comma, cod. pen. possa applicarsi ai soli reati ed. a forma libera, sia, in ogni caso, la ritenuta presupposta natura di reato a forma vincolata del delitto di epidemia.
In particolare, secondo il ricorrente in riferimento al primo aspetto, l’art. 40, secondo comma, cod. pen. sarebbe applicabile anche ai reati a forma vincolata, a sostegno di tale assunto richiamando, pur in assenza di particolari articolazioni, Sez. 6, n. 28301 del 08/04/2016, e Sez. 3, n. 53102 del 22/09/2016, ed altresì menzionando l’elaborazione dottrinale sul tema.
Sotto il secondo aspetto, si evidenziava inoltre che il termine epidemia (quale nozione in particolare tratta dalla Enciclopedia Treccani) evoca una “manifestazione collettiva d’una malattia (colera, influenza ecc..), che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto in dipendenza di vari fattori, si sviluppa con andamento variabile e si estingue dopo una durata anche variabile”, facendosene conseguire da ciò che la diffusione di germi patogeni costituirebbe la modalità necessaria di estrinsecazione dell’epidemia sicché, nel linguaggio comune, la stessa non potrebbe esistere in assenza di diffusione di agenti patogeni.
In tale ottica, quindi, per la pubblica accusa, il richiamo, nella norma incriminatrice, alla diffusione di germi patogeni avrebbe una funzione meramente chiarificatrice, finalizzata a meglio descrivere il fatto tipico, “senza però nulla aggiungere in termini di tipicità del fatto, già tutto racchiusa nel sostantivo “epidemia””, non utile a selezionare, tra ipotetiche condotte attuative, una soltanto delle modalità di commissione, invero trattandosi dell’unica attraverso la quale il delitto di epidemia può venire commesso.
In conclusione, per l’impugnate, il delitto di epidemia sarebbe dunque integrabile anche in via omissiva. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.

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2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: il delitto di epidemia colposa possa essere integrato anche da una condotta omissiva?


La Sezione semplice, assegnataria del suddetto ricorso, ossia la Quarta Sezione penale, ravvisando un potenziale contrasto, in seno alla giurisprudenza di legittimità, circa la compatibilità del delitto di epidemia colposa con la forma omissiva, ha rimesso la questione alle Sezioni unite.
In particolare, codesta Sezione evidenziava prima di tutto come, nel caso di specie, la condotta ascritta all’imputato riguardasse pacificamente un comportamento omissivo, ricordandosi a tal proposito che, nella giurisprudenza di legittimità, due sole pronunce si sono occupate del reato in esame nella forma omissiva giungendo ad escludere tale possibilità.
In effetti, una prima decisione, rappresentata dalla Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017, e riguardante l’addebito mosso al dirigente di una società preposta alla gestione dell’acquedotto comunale per avere determinato l’insorgenza di un’epidemia nella popolazione per gli effetti del consumo di acqua pericolosa per salute, avrebbe dato conto che la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza, di merito e di legittimità (Sez. 4, n. 2597 del 26/01/2011, sia pur in un obiter dictum), hanno sottolineato che il fatto tipico dell’art. 438 cod. pen. ha previsto anche un percorso causale strettamente predeterminato, con la conseguenza che il medesimo evento realizzato secondo un diverso percorso difetterebbe di tipicità.
Siffatta strutturazione della norma (segnatamente caratterizzata dal sintagma “mediante la diffusione di germi”), espressiva di un reato a condotta vincolata (e non invece, più semplicemente, di un reato a mezzo vincolato), per questa Sezione, sarebbe pertanto incompatibile con la clausola di equivalenza prevista all’art. 40, secondo comma, cod. pen., riferibile alle sole fattispecie a forma libera.
Ciò posto, si notava che una seconda decisione, rappresentata da Sez. 4, n. 20416 del 04/03/2021, pronunciandosi in relazione al sequestro di una casa di riposo per la diffusione del virus Covid-19 tra ospiti e personale della struttura, ha escluso la configurabilità del delitto di epidemia colposa per omissione, sul rilievo che il fatto tipico afferisce a condotta commissiva vincolata, incompatibile con la formula di cui all’art. 40, secondo comma, cod. pen. fermo restando che, sul lato opposto, sempre la Sezione rimettente richiamava Sez. 1, n. 48014 del 30/10/2019 che, in un obiter dictum espresso senza affrontare il tema della tipicità della forma omissiva nel reato di cui all’art. 438 cod. pen., ha osservato che: “la norma incriminatrice non seleziona le condotte diffusive rilevanti e richiede, con espressione quanto mai ampia, che il soggetto agente procuri un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni, senza individuare in che modo debba avvenire detta diffusione; occorre però, al contempo, e ciò è evidente, che sia una diffusione capace di causare un’epidemia”.
Tanto premesso, la Sezione remittente evocava la possibilità di un’interpretazione più ampia, ammissiva della realizzazione del reato di epidemia colposa anche in forma omissiva, richiamandosi,
a tali fini, anzitutto il dato letterale, ritenuto non ostativo ad una ricostruzione della tipicità aperta anche alla forma omissiva e la cui corretta interpretazione dovrebbe essere ispirata ai criteri anche enunciati dalle Sezioni Unite civili secondo cui “l’attività interpretativa giudiziale è segnata, anzitutto, dal limite di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera della giurisprudenza stessa” (Sez. U civ., n. 38596 del 06/12/2021), principi che, applicati alla disposizione in oggetto, consentirebbero di ritenere che il verbo diffondere, dal significato molto ampio, possa ricomprendere le forme più diverse, inclusive anche del “lasciare che altri diffonda”.
Né si potrebbe trascurare, sempre ad avviso del Collegio, il mutato contesto storico e sociale rispetto a quello presente al momento del varo della norma, allorquando al legislatore del 1930 lo spargimento di germi si era presentato come prioritaria modalità di realizzazione del reato sul versante doloso, senza considerazione della rilevanza, solo successivamente assunta, della gestione del rischio sanitario, correlata a condotte inosservanti per lo più colpose.
Dunque, mentre da un lato non potrebbe desumersi, sulla base della Relazione al Codice penale del 1930, la certa volontà di escludere dall’alveo della tipicità i comportamenti omissivi, pur a fronte della dichiarata necessità di fronteggiare, con lo strumento penale, condotte di chi, trovandosi in possesso di germi responsabili di una epidemia, ne realizzi la diffusione, dall’altro dovrebbe assegnarsi un particolare rilievo alla locuzione, all’interno della norma incriminatrice, “mediante diffusione di germi patogeni”, che conserverebbe la propria centralità, mantenendo “una fondamentale funzione di descrizione selettiva dell’evento, accentuandone il disvalore sotto il profilo della peculiare prospettiva di tutela”, in quanto “ad essere vincolata non sarebbe la condotta, la quale ammetterebbe qualsiasi modalità di trasmissione della malattia, bensì il mezzo attraverso il quale si verifica l’evento”.
Di qui, pertanto, ad avviso della suddetta Sezione, l’applicabilità, nella specie, del reato di epidemia colposa, dell’art. 40, secondo comma, cod. pen. nel senso che, oltre a essere rimarcato che il paradigma dei reati causalmente orientati è ordinariamente impiegato dal legislatore per la tutela penale di beni giuridici, come quello di specie (la salute pubblica e la incolumità collettiva), rispetto ai quali si intenda apprestare una tutela giuridica particolarmente intensa, la ordinanza appare propensa a confutare la pretesa incompatibilità della formula di equivalenza di cui all’art. 40, secondo comma, cod. pen. rispetto ai reati a forma vincolata, tra i quali, secondo il criticato indirizzo esegetico, sarebbe incluso anche il delitto di epidemia, deducendosi al contempo che, tra l’altro, dimostrativa della infondatezza di tale assunto, sarebbe del resto la giurisprudenza in tema di truffa mediante silenzio serbato dal contraente sul sopravvenuto verificarsi di un evento costituente presupposto della permanenza di una obbligazione pecuniaria a carattere periodico, posto che, in tale evenienza, il silenzio del beneficiario della prestazione è attivamente orientato a trarre in inganno il debitore circa la sussistenza della causa dell’obbligazione (Sez. 2, n. 24487 del 18/04/2023).
Di conseguenza, concludeva la Quarta Sezione, anche a ritenere che non si sia in presenza di un reato a mezzo vincolato, bensì a condotta vincolata, ben potrebbe ammettersi la integrazione del reato con condotta anche solo omissiva.
Siffatta Sezione, pertanto, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, ravvisando la sussistenza di un contrasto potenziale, disponeva la rimessione della questione alle Sezioni Unite.

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3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite


Le Sezioni unite – dopo avere delimitato la questione di diritto sottoposta al loro vaglio giudiziale (delineata nei seguenti termini: “Se il delitto di epidemia colposa possa essere integrato anche da una condotta omissiva”), compiuta una disamina della normativa di riferimento e analizzati i contrapposti orientamenti nomofilattici formatisi in subiecta materia – ritenevano di dare al quesito posto una risposta affermativa.
In particolare, gli Ermellini – una volta fatto presente che il dato normativo dell’art. 438 cod. pen. si limita a prevedere come reato il cagionare “un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni”: dovendosi ripudiare l’assunto – che, ove ritenuto condivisibile, impedirebbe qualunque prospettazione di reato non solo omissivo, ma, addirittura, come più oltre si dirà, colposo – che in tanto detta diffusione possa esservi in quanto la stessa avvenga giocoforza per effetto di “spargimento” dei germi patogeni ad opera del soggetto agente, con la conseguenza, non ultima, che non potrebbe cagionare un’epidemia chi, infetto, contagi altre persone – osservavano prima di tutto che, se, anche a volere ritenere la “diffusione” quale condotta del reato, una tale interpretazione, indebitamente selettiva di un fatto (ovverossia la diffusione), formulato dalla norma in termini generali e del tutto indifferenziati quanto al “tramite” (giammai escludente lo stesso autore), è il frutto della valorizzazione della Relazione del Guardasigilli al progetto del codice penale, laddove si giustificava l’introduzione del delitto con il fine di impedire che l’autore del fatto si potesse valere del “possesso” dei germi onde cagionare, attraverso il loro spargimento, l’epidemia, tuttavia, a loro avviso, riesce assai difficile ritenere che la “diffusione” di cui all’art. 438 cit. possa essere interpretata come unicamente quella consistente nello “spargimento volontario”, dovendosi a tal proposito essere chiarito che l’illustrazione sul punto della Relazione non può vincolare l’interprete dal momento che già Sez. U, n. 12759 del 14/12/2023, hanno affermato, richiamando Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, a sostegno della inidoneità dei lavori preparatori a fondare interpretazioni di disposizioni di legge valicanti il dato letterale delle stesse, come l’intenzione del legislatore debba “essere “estratta” dall’involucro verbale attraverso il quale essa è resa nota ai destinatari e all’interprete” e non possa conseguentemente identificarsi “con quella dell’organo o dell’ufficio che ha predisposto il testo”, dovendo essere “ricercata nella volontà statuale, finalisticamente intesa”.
Del resto, sempre ad avviso di codeste Sezioni, contrariamente a quanto da taluno prospettato sulla base della sentenza n. 327 del 2008 della Corte costituzionale, i lavori preparatori non possono essere ritenuti elemento di “vincolo esegetico”.
Invero, se il Giudice delle Leggi, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 434 cod. pen. nella parte in cui punisce il “disastro innominato” sollevate in riferimento agli artt. 24,25, secondo comma, e 27 Cost., sul presupposto della invocata inidoneità della mera nozione di “disastro” ad assicurare il rispetto del principio di tassatività della fattispecie penale, ha effettivamente richiamato, onde affermare la conformità a Costituzione del precetto, la Relazione del Ministro Guardasigilli ove si rappresentava la funzione di “chiusura” della norma, tesa a colmare ogni eventuale lacuna che, di fronte alla multiforme varietà dei fatti, possa presentarsi nelle norme concernenti la tutela della pubblica incolumità, a ben leggere però la sentenza, tuttavia, l’argomentazione adottata dalla Corte costituzionale, per giungere a ritenere non indefinita la nozione di disastro di cui all’omonimo reato, ha valorizzato essenzialmente la nozione accolta dalla giurisprudenza di legittimità, e dunque il diritto vivente, fondata su elementi dimensionali ed offensivi capaci di circoscrivere la valenza del concetto in termini di compatibilità con il principio costituzionale di tassatività, così restando, il mero riferimento alla Relazione ministeriale, quale corollario argomentativo del tutto residuale rispetto alla essenza del ragionamento svolto.
Del resto, diversamente ragionando, secondo la Corte, ovvero assegnando ai lavori preparatori di una legge una valenza tale da rendere recessiva ogni altra argomentazione, pur quando la stessa si faccia carico, come necessario e sufficiente, dei vari criteri interpretativi desunti dall’art. 11 preleggi, si finirebbe per assegnare a tali dati una funzione di atipica “interpretazione autentica” che, invece, non può che restare confinata alle sole norme che siano espressamente dettate dal legislatore in tal senso.
Precisato ciò, in secondo luogo, la Suprema Corte faceva altresì presente che non pare decisivo neppure l’ulteriore argomento, talora valorizzato in dottrina, secondo cui l’impossibilità di assimilare al concetto di diffusione quello di contagio discenderebbe dalla distinzione sul punto effettuata dallo stesso legislatore del 1930, che, proprio sulla nozione di contagio aveva fondato specifiche previsioni di reato poi abrogate come l’art. 544 cod. pen. intitolato “contagio di sifilide e di blenorragia” visto che, come osservato dalla già citata Sez.1, n. 48014 del 30/10/2019, la previsione di dette condotte “non implicava che nella nozione di diffusione di germi patogeni, di cui all’art. 438 cod. pen., non potessero – e quindi ancora oggi non possano – rientrare le diffusioni per contagio con il compimento di atti di contatto con la vittima”, giacché, condivisibilmente, “la relazione tra le due nozioni poteva essere descritta in termini di specialità per specificazione, nel senso che “il compiere su taluno atti tali da procurargli il pericolo di contagio…” era una delle modalità in cui si può concretizzare la condotta ampia e non meglio altrimenti definita di diffusione di germi patogeni”.
D’altronde, per le Sezioni unite, una decisiva smentita di tale impostazione pare provenire, nell’attualità, dallo stesso legislatore dell’emergenza Covid-19, che, con riguardo all’ipotesi della condotta di colui che, risultato positivo al virus, si limiti a violare l’obbligo di confinamento nella propria abitazione o dimora, ha prospettato la possibile configurabilità, oltre che del reato di cui all’art. 260 r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, anche di quello di epidemia (citandosi a tal riguardo l’art. 2, comma 3, D.L. 16 maggio 2020, n. 33, con riferimento all’art. 1, comma 6, stesso decreto, secondo cui “salvo che il fatto costituisca reato punibile ai sensi dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 6, è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265” o, ancor prima, nel medesimo senso, pur con variazioni semantiche, l’art. 4, comma 6, D.L. 25 marzo 2020, n. 19 con riferimento all’art. 1, comma 2, lett. e) stesso decreto), tenuto conto altresì del fatto che, ove si richiedesse che la diffusione sia unicamente riferita al comportamento di chi sia “in possesso” dei germi, da tenere pertanto distinti dalla sua persona, e non anche di chi ne sia semplicemente contagiato, si finirebbe per introdurre una sorta di reato “proprio” o “a soggettività ristretta”, fondato su una specifica qualifica caratterizzante il soggetto attivo come “detentore” o “possessore” del germe, a dispetto della natura certamente comune del reato evidenziata dell’incipit “chiunque”.
Tanto premesso, ad avviso del Supremo Consesso, è comunque la struttura della norma, da leggersi anche in correlazione al bene giuridico protetto della incolumità pubblica (tradizionalmente tutelata, come meglio si dirà oltre, mediante fattispecie di reati causalmente orientati), a rivelare come, nella specie, si versi in presenza di un reato a forma libera e non già a condotta vincolata, e ciò, tanto più dovendosi avere cura di evitare interpretazioni che, nel negare la configurabilità del reato anche nella forma omissiva, finiscano nella sostanza per escludere, pur a fronte della corrispondente previsione del codice penale, la possibilità di integrazione della epidemia colposa, essendo assai difficile, a ben vedere, prospettare una condotta dolosa che non sia realizzata in forma attiva una volta che il concetto di diffusione sia inteso come condotta di propagazione del germe da parte del soggetto attivo; in altri termini, una volta esclusa l’omissione, ogni condotta attiva di diffusione non potrebbe che essere caratterizzata da una precisa volontà e consapevolezza in tal senso, senza più alcuno spazio per comportamenti che, imprudenti o negligenti o imperiti, sarebbero, alla fine, incompatibili con il concetto stesso di diffusione.
In realtà, per i giudici di legittimità ordinaria, in una più corretta lettura della norma che valorizzi la immediata consecuzione tra soggetto, verbo ed oggetto, contenuta nell’art. 438 cod. pen. ove si individua, come non contestato neppure da chi neghi il reato in forma omissiva, l’atto di “cagionare” come la condotta e, conseguentemente, l’epidemia quale oggetto della stessa e, dunque, in altri termini, quale evento del reato, pare conseguente ritenere la “diffusione di germi patogeni”, immediatamente posta dopo la “epidemia”, non già come specificazione vincolata della condotta stessa, ma come l’”ubi consistam normativo” dello stesso evento, ovvero, appunto, la epidemia; sì che l’epidemia, nella intenzione del legislatore, è quella che, normativamente, può verificarsi solo attraverso (“mediante”, appunto) la diffusione (cioè la propagazione) di “germi patogeni” e non già attraverso le ulteriori forme di più ampio spettro constatabili nel contesto scientifico o naturalistico ma escluse, evidentemente, dall’orizzonte normativo, trattandosi, dunque, di una norma che, nel porre l’accento sull’evento e non sulla condotta (semplicemente data, come detto, dal “cagionare”), si pone in piena armonia con la scelta ordinariamente effettuata dal legislatore quando si tratti di tutelare beni giuridici “primari” (come, nella specie quello della pubblica incolumità), salvaguardati sempre attraverso fattispecie a forma libera o “causalmente orientate”, e presenta altresì una componente definitoria della nozione di epidemia, volutamente differenziata da quella scientifica.
In altri termini, per la Corte, rilevato che il legislatore ha evitato di impiegare il verbo “diffondere” collegandolo, senza soluzioni di continuità, al “chiunque” autore del fatto (ciò che, inequivocabilmente, avrebbe consentito di qualificare la diffusione come percorso vincolato della condotta), scegliendo invece, diversamente, l’utilizzo del solo sostantivo, posposto all’evento “epidemia”, ben può dirsi che non è il soggetto autore del cagionare colui che “diffonde”, ma sono i germi patogeni, propri dell’epidemia come predefinita dal legislatore, che “si diffondono” dando così luogo all’evento.
Qualificata, dunque, la diffusione dei germi patogeni come modalità predefinita di esplicazione – caratterizzazione dell’evento, per gli Ermellini, diviene tra l’altro non solo superfluo, ma anche, fondamentalmente, “asistematico”, l’interrogarsi sulla possibilità di estendere il concetto di diffusione sino al punto di ricomprendervi anche il “lasciare che il germe si diffonda” atteso che una tale problematica, lambita da Sez. 1, n. 48014 del 30/10/2019, presuppone, evidentemente, l’”assegnazione” della diffusione all’elemento della condotta e non già dell’evento, come invece appare corretto.
Oltre a ciò, si stimava oltre tutto non condivisibile l’obiezione, avanzata in dottrina, secondo cui, interpretandosi la diffusione di germi patogeni solo come mezzo di “espressione qualificata” della epidemia e non come condotta vincolata, si ricadrebbe in un pleonasmo o in una inutile ridondanza giacché si sanzionerebbe null’altro che la “epidemia diffusa mediante le modalità sempre comunque proprie dell’epidemia”: la specificazione della norma serve invece, nella logica già indicata, e seguendo la condivisibile dottrina sul punto, ad escludere tutte le forme di epidemia che non avvengano attraverso la diffusione per via orizzontale di germi patogeni (tali essendo i batteri, virus e protozoi), quale caratteristica delle malattie infettive, bensì attraverso le sostanze tossiche o radioattive o parassitarie, egualmente contemplabili nell’orizzonte scientifico, facendosene discendere da ciò la conclusione, avallata da numerosi autori in sede scientifica, che il legislatore ha voluto limitare l’epidemia alle sole malattie infettive, siano esse contagiose o non contagiose, che, come descritto anche dalla dottrina che ha ammesso la configurabilità del reato in forma omissiva, sono le sole che, infatti, si propagano orizzontalmente attraverso, appunto, la “diffusione di germi patogeni”.
Dunque, per la Suprema Corte, la lettura dell’art. 438 cod. pen. nel senso appena detto (ovvero la qualificazione della diffusione come “espressione normativa” della epidemia e non come condotta ad opera del soggetto agente), non solo appare rispondere alla esatta concatenazione dei sintagmi impiegati nel testo, ma consente altresì in primo luogo di evitare di includere nel concetto di diffondere il significato di “lasciare diffondere”, e il conseguente rischio, evidentemente insito nelle pronunce di cui alle Sez. 1, n. 48014 del 30/10/2019 e Sez. 3, n. 29315 del 11/06/2009, di violare così il principio di legalità -tipicità.
In secondo luogo, a fronte della ampia potenzialità semantica che al verbo “cagionare”, utilizzato del resto, in numerose previsioni penal-codicistiche a tutela di beni di rilevante interesse (si vedano, tra gli altri, gli artt. 452-bis, 452-quater, 500,576 cod. pen.), per la Corte di legittimità, è possibile assegnare, una tale lettura conduce a qualificare il delitto non come reato a condotta vincolata ma come reato causalmente orientato in modo da rendere la fattispecie sicuramente “permeabile” alla clausola di equivalenza di cui all’art. 40, secondo comma, cod. pen..
In definitiva, dunque, per i giudici di piazza Cavour, non reato a condotta vincolata deve ritenersi quello di epidemia, ma, appunto, reato a condotta libera (il “cagionare” appunto) assistita allo stesso tempo dalla esclusività del mezzo di propagazione (ovvero “mediante” la sola “diffusione di germi patogeni”), come ritenuto da parte rilevante della dottrina, così come si reputava non possibile ignorare la considerazione secondo la quale la selezione dell’area di punibilità, cui darebbe inevitabilmente luogo la configurazione del reato come a condotta vincolata, costituirebbe unh epilogo visibilmente stridente a fronte della non rilevanza delle modalità di aggressione ordinariamente caratterizzanti quelle previsioni che propendono nel dare risalto soprattutto alla tutela del bene giuridico in ragione della sua significanza anche costituzionale (quale è, nella specie, indubbiamente, il bene della salute pubblica).
In altri termini, per i giudici di legittimità ordinaria, come notato anche in dottrina, escludere l’applicabilità della previsione di reato in presenza di condotte omissive finirebbe per contraddire la capacità della norma di assolvere alla funzione di tutela del bene della salute pubblica, rientrante nell’art. 32 Cost., in coerenza con la stessa collocazione sistematica assegnatale dal codice, tenuto conto altresì del fatto che, del resto, a conforto della prospettiva qui condivisa, si deve considerare anche il mutato contesto storico sociale nel senso che, mentre al momento dell’introduzione nel codice della nuova fattispecie il fenomeno veniva prospettato come essenzialmente doloso, perché legato in particolare agli esiti della prima guerra mondiale legata all’uso in essa fatto delle armi batteriologiche (ovvero della dispersione di virus nocivi prodotti in laboratorio), nell’attuale, complesso, contesto socio-scientifico-tecnologico i risvolti dell’epidemia evocano sempre più i profili di gestione del rischio sanitario e si relazionano a condotte quasi esclusivamente inosservanti e perlopiù colpose che, con la lettura riduttiva di cui sopra, finirebbero, in realtà, per non venire mai sanzionate, a dispetto della formale presenza dell’art. 452 cod. pen..
In altre parole, per la Corte, accettandosi una visuale essenzialmente “volontaria” fondata sulla diretta e intenzionale dispersione del virus causata dal soggetto agente, il reato colposo si ridurrebbe alla figura residuale, e tra l’altro anacronistica, di chi, “in possesso dei germi”, se li lasci colposamente sfuggire e, pertanto, proprio la lettura qui ripudiata finirebbe per relegare la norma a casi di “scuola”, statisticamente ridottissimi.
Una volta ritenuto, dunque, che la condotta del reato di epidemia sia solo quella di “cagionare”, da cui la natura dello stesso come reato causalmente orientato, le Sezioni unite giungevano a sostenere l’applicabilità al reato di epidemia della clausola di equivalenza giacché “il principio di equivalenza tra causalità omissiva e causalità attiva si applica ai reati causali puri, caratterizzati dalla rilevanza dell’evento e dalla indifferenza della condotta” e nei quali la norma incriminatrice tende ad evitare l’evento pericoloso per la salute pubblica indipendentemente dalle modalità comportamentali (Sez. 3, n. 16286 del 18/12/2008, tanto più significativa perché intervenuta nella ipotesi dell’art. 674 cod. pen. caratterizzata dalle condotte, si potrebbe dire, anche in tal caso, “diffusive”, di “versamento” di polveri o di “emissione” di gas, vapori e fumi), escludendo ciò, allo stesso tempo, la necessità di interrogarsi, su un piano generale, come pur prospettato anche dall’ordinanza di rimessione, sul tema della compatibilità tra reati a condotta vincolata e clausola di equivalenza.
Allo stesso modo, per gli Ermellini, non pare nemmeno possibile individuare quale ostacolo dirimente alla lettura della condotta del reato di epidemia colposa anche (ma in realtà, come già spiegato sopra, soprattutto) in forma omissiva, la pretesa lesione che tale costruzione arrecherebbe alla necessità che il nesso di causalità e la colpevolezza siano sempre oggetto di prova oltre ogni ragionevole dubbio, secondo i postulati da tempo indicati con nettezza dalla medesima Cassazione a necessario presidio del principio costituzionale di cui all’art. 27 Cost. (si citava a tal riguardo, in particolare, Sez. U, n. 30328 del 10/07/2022) dato che, accedere ad una simile prospettiva comporterebbe, a ben vedere, la messa in discussione della stessa compatibilità della clausola di equivalenza codicistica con i principi costituzionali appena richiamati, compatibilità, tuttavia, mai posta in dubbio dalla giurisprudenza; è, anzi, dato di comune patrimonio quello per cui la norma dell’art. 40, secondo comma, cod. pen., risponde all’esigenza di coniugare i diritti di libertà dell’art. 13 Cost. (tendenzialmente refrattari, in un sistema di civiltà giuridica proprio delle democrazie, alla imposizione generalizzata di “obblighi di fare”) con i doveri inderogabili di solidarietà previsti dall’art. 2 Cost., giungendo sul punto ad un risultato di equilibrio proporzionato e ragionevole.
Ciò posto, quanto invece al rischio, da taluni evocato, di trasferire, sul piano penale, e di addebitare ai singoli eventi che dovrebbero, in realtà, restare confinati a deficit di tipo organizzativo, per il Supremo Consesso, lo stesso appare in realtà neutralizzato dalla necessaria sussistenza, in capo al singolo chiamato a rispondere, di un obbligo giuridico, anche in relazione alle conoscenze scientifiche del momento, che è infatti pur sempre presupposto, da verificare con metodo rigoroso, della stessa applicabilità dell’art. 40, secondo comma cod. pen., non potendosi dimenticare, a tal riguardo, che, come significativamente sottolineato dalla dottrina, “il meno che la causalità ipotetica possiede rispetto alla causalità reale deve essere compensato da un altro elemento: tale ulteriore elemento consiste, secondo l’art. 40 cpv., nella violazione di un obbligo giuridico di impedire l’evento”.
In definitiva, dunque, per la Suprema Corte, è proprio la riconducibilità della omissione nell’alveo della previsione del secondo comma dell’art. 40 cod. pen., assistito dalla necessaria sussistenza dell’obbligo giuridico in capo al soggetto agente, la garanzia di conformità del reato di epidemia nella forma omissiva al principio di legalità, diversamente sottoposto a frizione ove si seguisse la strada di una lettura “estensiva” della diffusione dei germi, interpretata come manifestazione della condotta.
Le Sezioni unite, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, enunciavano il seguente principio di diritto: “Il delitto di epidemia colposa può essere integrato anche da una condotta omissiva”.
Dopo avere formulato siffatto principio, gli Ermellini stimavano però necessario anche precisare che resta ovviamente fermo che, per aversi reato nella forma omissiva, dovrà pur sempre sussistere, alla stregua dei principi generali da osservarsi anche in tal caso, in primo luogo la prova degli elementi in base ai quali opera la previsione dell’art. 40, secondo comma, cod. pen., ovvero la sussistenza, in capo al soggetto agente, dell’obbligo giuridico di attivarsi, discendente dalle fonti di responsabilità che la giurisprudenza nomofilattica ha, nel tempo, individuato; in secondo luogo, con specifico riguardo al reato di epidemia, da tenere sempre necessariamente distinto dai reati che si limitino a ledere la salute individuale, sarà necessaria la valutazione, da compiere in presenza di una legge scientifica di copertura e secondo i principi della causalità generale, circa l’omesso impedimento della diffusione del germe a determinare o a concorrere nella determinazione del fenomeno rapido, massivo ed incontrollabile, lesivo del bene collettivo della salute e incontestabilmente proprio del reato in esame (per la generale necessità che il rapporto di causalità tra omissione ed evento sia fondato su un giudizio di alta probabilità logica, sulla scia di Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 e Sez. U, n. 30328 del 10/07/2022; da ultimo, Sez. 4, n. 45399 del 02/10/2004), tenuto conto altresì del fatto come la stessa Cassazione abbia anche affermato che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto della sussistenza della violazione – da parte del garante – di una regola cautelare (generica o specifica), della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), nonché della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso (così, da ultimo, Sez. 4, n. 21554 del 05/05/2021 e Sez. 4, n. 32216 del 20/06/2018).

4. Conclusioni: il delitto di epidemia colposa possa essere integrato anche da una condotta omissiva


Fermo restando che l’art. 438 cod. pen., come è noto, prevede che chiunque “cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo”, con la decisione in esame, le Sezioni hanno affermato che codesto illecito penale può essere consumato anche in forma omissiva.
Nella pronuncia qui in esame, inoltre, i giudici di piazza Cavour hanno altresì chiarito che, ad ogni modo, perché si possa configurare un reato omissivo, qual è quello qui in esame, è comunque necessario, in primo luogo, accertare la presenza di un obbligo giuridico in capo al soggetto agente, obbligo che deve derivare da fonti normative o da posizioni di garanzia individuate dalla giurisprudenza e, in secondo luogo, nel caso specifico del reato di epidemia — da tenere distinto rispetto ai reati lesivi della sola salute individuale — è altresì richiesto un accertamento tecnico-causale, tenuto conto che, da un lato, tale accertamento deve fondarsi su una legge scientifica di copertura e mirare a verificare se l’omessa condotta sia stata idonea a determinare, o a concorrere nella determinazione, della diffusione del contagio, inteso come fenomeno di rapida, massiva e incontrollabile propagazione, caratteristico e tipico della fattispecie incriminatrice in esame, dall’altro, la sola titolarità di una posizione di garanzia non basta, di per sé, ad attribuire responsabilità colposa in caso di evento dannoso essendo necessario accertare, in concreto, che il garante abbia violato una regola cautelare (generica o specifica), che l’evento fosse prevedibile ed evitabile in base a quella regola (concretizzazione del rischio), oltre che vi sia un nesso causale tra l’omissione del garante e il danno verificatosi.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta sia contestato un illecito penale di questo genere.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito nella sentenza qui in commento, poiché fa chiarezza su siffatta tematica giuridica sotto il versante giurisprudenziale, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Avvocato e giornalista pubblicista. Cultore della materia per l’insegnamento di procedura penale presso il Corso di studi in Giurisprudenza dell’Università telematica Pegaso, per il triennio, a decorrere dall’Anno accademico 2023-2024. Autore di diverse pubblicazioni redatte per…Continua a leggere

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